Recensioni
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La prima cosa che incontra il lettore che si imbatte nei racconti di Carraro è una scrittura attenta ai dettagli fino a generare effetti di disturbo paranoide, dove a volte una strategia che, per l’accumulo di dati, potremmo definire di compressione, si apre ad un esito che lungo la direttiva euforica della verticalità dispiega un contrasto fra ciò che è in basso – e in basso di solito c’è una forma greve di delirio, stati alterati di coscienza per droga, alcol o per la rabbia che in Carraro è dappertutto – e un firmamento che attira magneticamente lo sguardo, ponendosi come luogo utopico di dispersione e cupio dissolvi.
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D. Marcheschi – Corso Italia 7 –
Quando leggiamo i racconti di Carraro, noi in realtà li ‘vediamo’ e ‘sentiamo’ svolgersi: vediamo il disabile con il berretto che batte la testa contro il finestrino, sentiamo i dialoghi dei personaggi, ad es. dell’ingegner Frezza e della moglie, come se questi avvenissero accanto a noi. perché Carraro possiede il segreto di scrivere affondando nella materia verbale come un ceramista nel tornio: la forma, ed essa ha una sua linea precisa, un suo ritmo – quelli necessari.
D. Valentini – CriticaLetteraria.org –
Come si legge nella postfazione di Fabrizio Ottaviani, tranne alcuni inediti tutti i racconti presenti in questo libro attingono dalle due raccolte La lucertola (Rizzoli, 2001) e Il gioco della verità (Hacca, 2009). Abbiamo dunque a che fare con storie scritte nell’arco di una decina d’anni; e anni importanti oltretutto, che hanno visto per esempio l’introduzione dell’Euro e l’avvio della crisi economica. Se differenze sostanziali sono rinvenibili fra i vari racconti, un elemento è onnipresente in ogni narrazione, quell’elemento che ha reso famoso Carraro grazie al romanzo Il branco (Theoria, 1994; poi Gaffi, 2012) e trasposto nel film di Marco Risi: il male. Il male di cui parla Carraro non è un’entità o un concetto astratto, né tantomeno un’agostiniana assenza di bene: è qualcosa di più strettamente terreno e quotidiano, così ferale e spesso ingiustificato da far saltare molti metri di giudizio. è un male emanato non soltanto dai balordi delle classi sociali più umili tanto amate dallo scrittore romano – come accade appunto nel Branco, dove a farla da padrona sono operai, ladruncoli, piccoli malviventi: dei balordi, appunto – bensì anche da persone più o meno altolocate, come si vede nel bellissimo racconto Il gioco della verità, che coinvolge uomini e donne della media borghesia romana; o anche nell’Inaugurazione, che prende di mira una intellighenzia politicamente schierata. Non è un resoconto delle condizioni proletarie, quello di Carraro. Non è un accendere i riflettori su manovali, carpentieri, baristi, impiegati, sebbene sia innegabile che questi siano i principali protagonisti delle sue storie. Coinvolgendo persone di ogni sesso, ogni estrazione sociale e ogni età, Carraro mostra al lettore come la piccolezza, la violenza e l’esasperazione dettate da un (corto)circuito capitalistico e borghese – e i due aggettivi vanno a braccetto, perché è nella società capitalistica e borghese (in una parola: occidentale) che emergono con maggior criticità i limiti del lavoro salariato, del matrimonio, dell’educazione religiosa ecc. – siano proprie di ogni essere umano. Questo è il punto nodale dei balordi di Carraro: non vivono soltanto nei casermoni della Tiburtina o fra gli sfasciacarrozze della Togliatti; lo scatto d’ira, l’istinto omicida, la voglia di causare dolore li troviamo anche a Cinecittà, sui terrazzi dei Parioli, nei circoli letterari. C’è qualcosa, sembra dirci Carraro, in questo nostro modo di vivere che necessariamente porta a delle esplosioni. Che sia un ventenne con velleità artistiche o un cinquantenne incarognito contro la moglie per qualcosa accaduto dieci anni prima, il barile di polvere da sparo è pronto a far saltare tutto in aria. Basta una scintilla, a volte qualcosa di banale e infimo, per portare a un atto disperato. Di questa disperazione è testimone il suicida del Licenziamento; lo è il marito della donna umiliata (benché traditrice del vincolo matrimoniale) che decide di prendere a fucilate il fratello nel Balcone; ma lo sono anche i ragazzi drogati dell’Altalena, che senza motivo decidono di allentarne le viti solo per vedere qualche bambino cadere e farsi male. Lo sono tutti quelli che di notte, dopo una cena fra amici o colleghi, sbottano e prendono a insultare o picchiare qualcuno per poi fuggire lungo il Tevere in preda a una corsa senza meta. Di tutto questo ciò che lascia perplessi è la mancanza di una giustificazione. Non c’è teodicea che tenga, né una riflessione morale sul perché. Si può argomentare che la gente di Carraro sia violenta e voglia far del male perché piccola, effimera, gretta: eppure non sembra essere una risposta soddisfacente. Di fatto non c’è un perché: il male avviene, punto. E da lettori possiamo soltanto restare a fissare la pagina conclusiva del racconto, sgomenti e in attesa di ciò che verrà. Una nota è necessario aggiungere, purtroppo: dei racconti altrimenti perfetti sono stati devastati da una scarsa cura del testo, che si manifesta attraverso incoerenza nelle norme redazionali e presenza massiccia di refusi. Un esempio fra tutti: molte l seguite da apostrofo sono in realtà degli 1 (1’altro anziché l’altro), così come molte I risultano delle l ([…]. lo sono anziché […]. Io sono); viene da pensare a un testo acquisito tramite scansione con sistema OCR a cui poi non sia seguita una correzione di bozze. Questo è a mio avviso inaccettabile: uno scrittore come Andrea Carraro merita molto di più.
I. Palomba – Succede Oggi –
Tutti i racconti di Andrea Carraro (Melville, 2016, pp.253, euro 17,50) è un libro di altissima qualità letteraria, in cui confluiscono due precedenti raccolte (La lucertola e Il gioco della verità) più alcuni inediti. In ciascun racconto vengono narrate con ferocia le relazioni umane. Carraro indaga profondamente, sociologicamente, nella mostruosità delle relazioni di potere in tutti gli ambiti, dalla famiglia, alla coppia, dall’ambito professionale a quello dei branchi. Lo stile elegante e asciutto, i dialoghi di un realismo crudissimo e le storie raccontate, tutte, di una ferocia ineluttabile e con forse la costante di protagonisti che si vedono travolti dall’infamia e in ogni modo, lecito o illecito, cercano di reagire all’ingiustizia.
Il racconto che apre la raccolta, Il balcone, narra la storia torbida di una famiglia di provincia alle prese con un ipotetico tradimento, là dove non vi è neppure tale certezza ma l’unica certezza possibile per la piccola comunità famigliare è la necessità della vendetta. Qui vengono delineati personaggi così veri e reali da far paura. Carraro è maestro nel mostrare il mostruoso insito nell’umano, specialmente in quelli che sono nuclei di pari, famiglie, piccole comunità, in particolare il sopruso che si compie ai danni di un innocente.
V. Mazzaccaro – SoloLibri.net –
Se consideriamo il film Il Branco di Marco Risi, ispirato da un libro omonimo di Andrea Carraro che ha contribuito anche alla sceneggiatura del film, anche questi racconti hanno la possibilità’ di diventare materiale cinematografico, quasi un America oggi di Robert Altman, ambientato però a Roma. L’autore si mette a pelle nuda sui suoi personaggi, alcuni non li ama troppo, altri gli sono decisamente antipatici. La storia dell’empatia con quello che scrivi Andrea Carraro la smonta racconto dopo racconto. Sono racconti maschi nel linguaggio, intessuto da virile ironia, avendo in massimo orrore tutto ciò’ che è politicamente corretto. Basta un esempio dal primo racconto, Il balcone: ‘S’è fatta beccà da tuo fratello sotto al cavalcavia, quella sgualdrina… stava con Alvaro… Avevano infrattato la macchina dietro la baracca nello spazio della discarica. Lucia andava con l’Ape a fà una consegna a Tivoli, li ha visti imboccà la sterrata dietro al casello, e allora si è insospettito. Te lavori tutto il giorno, e intanto quella…’. Il figlio non parla. La guarda inebetito. ‘Stavano tutti e due nudi, nudi come vermi…’. Il racconto monta in aggressività’, ma non diremo cosa succede alla ‘sgualdrina’. Da questo pezzo sembra che Andrea Carraro sia un Pasolini eterosessuale, ma non è vero, perché’ il secondo amava i suoi personaggi e poi scriveva con una scrittura più’ piatta e convenzionale, mentre il nostro eccede in atti aggressivi, in parolacce, più’ un cantore del popolino romano che ha visto qualche euro e ora non sa più’ come vivere. Non un erede di Trilussa, ma un lettore attento di Genette e di Maurice Blanchot. La leggibilità’ di questi racconti ricorda Natalia Ginzburg e Calvino. Ma intrecciati, come ho già scritto, ci sono tanti film visti, da Kubrick a Quentin Tarantino. Lo strazio di vite ridicole, che giocano con il cursore del loro idiot savant.
N. Fano – Succede Oggi –
La raccolta di Andrea Carraro descrive un percorso narrativo avvincente e tutto sommato isolato: quello che dal realismo ideologico porta all’onestà del romanziere nei confronti delle cose che succedono. Come se fosse inevitabile dire la verità
Quando leggerete i racconti di Andrea Carraro (vale la pena farlo: Tutti i racconti, Melville Edizioni 253 pagine 17.50 Euro) vi consiglio di stare attenti ai particolari apparentemente insignificanti. Un calpestio frenetico sul marciapiede, un dito che preme sul bottone dell’ascensore, una botta fortuita in strada, un colpo di tosse artefatto per provare un microfono: sono gli indizi della normalità degli individui che Carraro vuole riprendere com’è (senza orpelli letterari, per così dire…). O, meglio, sono gli indizi tramite i quali la normalità della vita quotidiana ci colpisce, ci impone le sue regole, i suoi umori. Manifestandosi intorno a noi e negli altri. Se una vicenda comincia con un indizio negativo, sapremo già dove andrà a finire. Anche se lì per lì non ce ne renderemo conto; o faremo di tutto per non rendercene conto.
Andrea Carraro da anni si interroga (con le sua narrativa, ma anche con i suoi scritti di saggistica) sul concetto di realismo. Leggendo i suoi racconti qui ripubblicati (compresi quelli bellissimi della raccolta La lucertola, 2001) mi è parso di capire che la questione in gioco non sia più il realismo, ma l’onestà. Il problema è essere onesti nei confronti della realtà, riproponendola sulla carta per come essa è effettivamente. Ci siamo interrogati per un secolo, circa, sull’essere e sull’apparire, sulle maschere nude e la frammentazione del reale, sennonché ora è arrivato il tempo di ricomporre l’essenza e l’apparenza delle cose. Andrea Carraro – specie nei suoi racconti, fulminanti, tutti con un centro preciso – fa proprio questo: ricondurre all’unità originaria la realtà. Ecco perché è onesto nei confronti delle cose! Perché il suo sforzo è ricomporre il conflitto tra realtà e letteratura, trovando una via ultima che non si ponga come speculativa nei confronti di quel che viene raccontato.
Una specie di anti-letteratura che segna una strada nuova nel nostro panorama.
Andrea Carraro Tutti i raccontiMa bisogna intendersi. La scrittura di Carraro non è – come dire? – automatica. Non scaturisce da una pura imitazione di quel che ci capita intorno: il suo è un lavoro letterario a tutto tondo (chi ha avuto a che fare con le sue fasi creative, e noi qui, grazie a Succedeoggi per cui Carraro ha scritto e scrive sovente, lo sappiamo) fatto di ricerca, di ripensamenti, di scelte dolorose di scrittura. Ma un lavoro che deliberatamente mira al nocciolo delle cose, alla loro essenza onesta, appunto: uno spazio che presuppone il miracolo grazie al quale quel che appare, è.
E, anzi, c’è un racconto perfetto, nel volume (intitolato significativamente Il gioco della verità), che è dedicato proprio alla restituzione narrativa di questo “miracolo”; ossia di questo percorso di riconciliazione tra apparenza e realtà effettiva. Leggetelo! Narra il disvelamento di un tradimento fatto per caso, per un gioco, come dice il titolo: salvo che l’autore si ferma alla realtà delle cose, racconta quel disvelamento, non altro; non il prima né il dopo delle coppie coinvolte nel tradimento. E questo non perché si sia chiusi nello spazio limitato di un racconto, ma per scelta di sostanza: è come se i lembi della vita narrata andassero lentamente a richiudersi inglobando tutte le contraddizioni di cui la vita medesima è composta. Tutto in un evento, in un fermo immagine perfetto, eterno e fulmineo allo stesso tempo. Ha a che fare con Roma, questa scelta narrativa. Non perché Carraro sia romano, non perché spesso le sue storie siano dedicate alla sua città (qui, in questi racconti, l’ambientazione sociale è più importante di quella geografica), ma perché Roma è una città che digerisce tutto, che include ogni estremo, ogni contraddizione, ogni conflitto. Sempre sorridendo, al massimo sputando un po’ più in là gli avanzi catarrosi delle vite perdute. Ebbene, proprio modulando i contrari (ossia rendendoli narrativamente ammissibili) Carraro mostra la sua profonda onestà nei confronti di quel che succede nella vita dei suoi personaggi. È in questo, in ultima analisi, il suo realismo: un metodo che espone e non giudica. Perché se Il Novecento (compreso il suo ultimo scorcio) ha dato al realismo un connotato ideologico, Carraro si pone altrove, in un territorio laico dove raccontare le cose (con onestà, appunto) è puramente un atto di adesione a quel che è nella vita e di rispetto nei confronti dei lettori. Un territorio letterario sul quale Carraro cammina isolato, a testa alta. Vale la pena seguirlo.
M. Onofri – Avvenire –
Lodevole l’iniziativa promossa da Melville di pubblicare Tutti i racconti di Andrea Carraro, uno dei narratori italiani più significativi dell’età di mezzo. Un solo appunto, che faccio subito: come osserva l’ottimo Fabrizio Ottaviani nella postfazione, nel libro confluiscono le due raccolte precedenti, ovvero La lucertola (2001) e Il gioco della verità (2009), ma l’editore non ha sentito il bisogno di accompagnare al testo una nota con le necessarie informazioni sulle eventuali conferme o esclusioni, sulle novità, magari in vista della registrazione di eventuali varianti. Sicché, a beneficio dei lettori, provvederò rapidamente io. Dirò subito, allora, che, dei 23 racconti inclusi, i mai stampati in volume risultano cinque: Sono ovunque guardi; I grandi sono spariti!; Licenziamento; La carrozzina; La nuvola di organza. Quanto ai già editi: mentre l’antico volume di Rizzoli viene confermato in blocco (ricavando però due testi dal racconto eponimo La lucertola, il secondo dei quali diventa, ora, Hai fiducia in me?), di quello del 2009 vengono eliminati Stecco, La mano di Dio e Un sabato al mare con papà. Con l’aggiunta che il racconto Vent’anni di meno prende ora il titolo che aveva, appunto, l’intera raccolta. L’impressione generale è che, negli anni – se riletto con riferimento al romanesco imbastardito dell’hinterland di quel libro feroce e magnifico che è Il branco (1994) ñ, l’italiano di Carraro si sia come normalizzato, nei modi d’un processo già avanti nella prima raccolta di racconti: un dato che non va per nulla inteso come l’eventuale cedimento a una facile comunicabilità, di significato, per così dire, solo pratico, commerciale insomma. Si tratta, infatti, d’una scelta perfettamente fun di narrare. Nulla in Carraro, tanto meno la lingua, è lasciato al caso. Cosa è avvenuto, dunque, nel suo percorso di scrittore, da quando esordiva, nel 1990, col romanzo A denti stretti, che lo collocava subito, come per naturale discendenza, sulla linea genealogica del Pasolini borgataro, del Cerami di Un borghese piccolo piccolo (1976), La gente (1993) e Fattacci (1997), e fratello d’un narratore indimenticabile come il Sandro Onofri di Luce del Nord (1990) e Colpa di nessuno (1995)? Una linea, aggiungo, di progressivo incanaglimento etico dei personaggi rappresentati, che ci avrebbe condotto, diciamo così, dalla morte del ‘popolò alla ‘gente’, a sancire l’omologazione piccoloborghese già preconizzata da Pasolini. Era avvenuto ciò che anche Ottaviani nella postfazione osserva, quando parla dei ‘balordi’ di questo libro. In altri termini e provando ad approfondire: l’ipotesi di degrado su cui Carraro ha lavorato con sempre più rigore, non è ñ non è più ñ di tipo storico-sociologico, ma antropologico, forse in vista d’una metafisica della natura umana, per dirla alla grossa. Basta chiedersi quale sia l’estrazione sociale dei personaggi dei racconti che vengono per la prima volta raccolti in volume, per rendersene subito conto. Il Mimmo del paranoide e inquietante Sono ovunque guardi, che va a trovare con la famiglia la vecchia zia e sua figlia al ‘Grand Hotel di Cortina’, è un avvocato quarantenne; il suicida di Licenziamento è un impiegato; l’omicida per caso di La carrozzina è un disoccupato che vive di lezioni private e dello ‘stipendio smilzo della moglie ‘; il Walter separato di La nuvola di organza, che va al mare col figlio con ‘una smagliante fuoriserie verde metallizzata’, è un direttore di filiale. I grandi sono spariti! è una favola lieve e crudele, in cui si immagina che tutti i genitori del mondo siano stati fatti sparire, non si sa da chi, per essere rieducati, ma i bambini che rimangono soli sembrano già replicare gli stessi valori e le stesse disposizioni di comportamento. Ecco, il pessimismo storico di Cerami, che già rifuggiva da ogni redenzione possibile, s’è fatto qui etico e radicalmente antropologico: il male non è solo dell’uomo, ma è nell’uomo. Di esso colpisce la stupefacente banalità, la negligenza e la viltà con cui lo si pratica. In questa prospettiva i racconti più belli, e insieme più funzionali alla poetica dello scrittore, non mi sembrano quelli in cui la violenza si manifesta nel modo più efferato. Ma sono quelli in cui l’indifferentismo morale si sviluppa come una specie di torpore mentale, di sordido languore, di vile cloroformizzazione della coscienza. Penso alla Lucertola e a Hai fiducia in me?, dove una coppia approda alla tragedia per mera irresponsabilità: prima quando mette a repentaglio la vita della propria figlioletta, poi quando investe un ragazzo senza soccorrerlo, occultando i segni dell’incidente. O a Il berretto, dove, su un autobus pieno di folla indifferente, c’è chi, per paura d’arrivare tardi al lavoro, non ci pensa nemmeno a segnalare la presenza d’un viaggiatore che sta male, se non è addirittura morto. Nonostante Roma e i suoi gerghi, nonostante la restituzione d’un preciso habitat geografico e sociale, per capire bene Carraro, credo serva, oggi, più Leopardi che Pasolini.
F. La Porta – Il Messaggero –
Il genere del racconto è quello più congeniale alla nostra letteratura, dal Novellino e dal Decameron fino alle novelle di Pirandello e alla narrazione breve prediletta da Calvino. Eppure è un genere di cui l’editoria diffida, per ragioni che restano incomprensibili. Anche perciò segnalo volentieri la raccolta di Andrea Carraro, autore di romanzi importanti come Il branco e Non c’è più tempo , e certamente uno dei nostri maggiori autori di racconti (cito solo Antonio Debenedetti e, tra gli esordienti questi anni, Rossella Milone). Nel libro si potrebbero rintracciare due diversi filoni, tra loro congiunti: la nuda descrizione della violenza del ‘brancò (‘L’altalena’, ‘Dopocena’) – feroce, esplicita, legata alla cronaca nera (e anche memore dei film di Scorsese), e poi la indagine su una violenza più nascosta, sottile, latente, quella della piccola borghesia, con tutto il suo carico di frustrazioni non dette e angosce inespresse (‘Il gioco della verità’, ‘La lucertola’). Al centro una disincantata fenomenologia del male, del sadismo, dell’odio (che nasce, si direbbe, dal disagio di vivere: sono storie piene di suicidi e di anziani soli), della follia distruttiva (e autodistruttiva): ‘La carrozzina’, ‘L’inaugurazione’, ‘Il barista’, forse il più bello di tutti (quasi una variazione su America di Kafka rivista da Buster Keaton, con il protagonista umiliato, percosso, brutalizzato e senza che abbia la minima volontà e capacità di reagire). Ma qual è il punto di vista di Carraro? Cosa rende il suo sguardo morale così affilato? La risposta si svela in alcuni racconti finali, soprattutto in ‘I grandi sono spariti’ (che fa pensare alla fantascienza di Ballard). Si tratta del punto di vista dei bambini, forse in parte debitore verso il miglior neorealismo, tra De Sica e Rossellini (il cinema è fondamentale nella formazione di Carraro). La narrazione crudamente naturalistica è qui come straniata da una surrealtà (che però ha sempre un saldo fondamento psicologico), da uno scatto onirico e imprevisto dell’immaginazione. Non si insegue una improbabile purezza dell’infanzia. I bambini sono in parte già irretiti dentro le dinamiche e le relazioni di potere dei grandi (i quali ne minacciano continuamente l’integrità). Eppure riescono ancora a formulare le domande giuste, e continuano a stupirsi del male (‘La nuvola di organza’). Conservano una alterità che permette appunto uno sguardo dal di fuori. Carraro ci suggerisce che occorrerebbe riprendere un contatto con la propria infanzia, e con quello stupore, senza tradirla. Come il protagonista della ‘Replica’, che dopo una folle corsa in autostrada raggiunge la sua piccola Livia: ‘dormi piccina, dormi, no, papà non se ne va…
R. Paris – Il Venerdì di repubblica –
Le librerie, reali e virtuali, sono intasate di romanzi, rigorosamente ibridati di giallo o, peggio, ispirati allautofiction, etichetta francese degli anni Settanta. Fior di critici hanno provato inutilmente a scoraggiare la proliferazione di un genere letterario decaduto, che tuttavia impazza anche su Facebook. I libri di racconti invece sono merce rara. Ed è strano perché’, dalle novelle di Boccaccio fino a Garda e a Moravia, è proprio in questo genere che eccelliamo. In tutti racconti Andrea Carraro, scrittore di lungo corso, ha antologizzato i suoi più’ belli, da Il balcone a La lucertola, inserendone di nuovi. Enzo Siciliano che pubblicò su Nuovi Argomenti quello che diventerà, nel film di Marco risi, Il branco, trovò una ‘reviviscenza di naturalismo nello stile, vocabolario corsivo e sintassi povera… Carraro si nutre di cronaca nera, la sua è una acre verità…’. I critici successivi parlarono di eredità pasoliniana, che però l’autore ammette soltanto, ideologicamente, per gli Scritti corsari. Mentre si sente di più’ allievo di Vincenzo Cerami, trovando i suoi personaggi imparentati con quelli di Un borghese piccolo piccolo. Carraro è scrittore di moralità. Nei suoi racconti gli efferati protagonisti sono alle prese con imprevisti che ne denotano la normale anormalità’. Si va da famiglie degenerate a branchi di ragazzi drogati, dove ‘il male è quello che non vedi’, da ragazzine abusate a coppie scoppiate, in fuga dai delitti che hanno provocato. Per lo più’ ambientati negli anni Novanta, presentano in dettaglio paesaggi siriani, dove il set è quasi sempre una periferia selvaggio e sola. I protagonisti sono poi uomini che picchiano le donne, balordi piccolo borghesi e operai, che si suicidano per un licenziamento. Fabrizio Ottaviani, nella dotta post-fazione, parla giustamente di rapporto tra pensiero e violenza, fra raziocinio e protervia, evidenziando il tipo umano del balordo omologato. Già in La lucertola, la perla del libro, c’erano atmosfere ‘fantastiche’ che si ritroveranno negli ultimi, come i grandi sono spariti!, ma a ben vedere, si tratta di neo espressionismo più’ che di influenze kinghiane, di stralunamenti magici, antropologici. La lingua di Carraro, infine, è secca e precisa, e la riscrittura del suo bel libro è tutta nel togliere più che nell’aggiungere.
F. Coscia – Il Mattino –
A leggere ‘Tutti i racconti’ di Andrea Carraro, raccolti nella collana ‘Gli impossibili’ diretta da Andrea Caterini (Melville edizioni, pagg. 253, euro 17,50), si ha l’impressione, vivida, di trovarci di fronte a un universo in cui la banalità del male è la cifra – ambigua, fragile, inquietante – di una quotidianità che ci rimanda, come in uno specchio, un’immagine disturbante da cui prenderemmo volentieri le distanze. E tuttavia la forza di questi racconti – il volume comprende alcuni inediti, insieme a storie provenienti dalle raccolte ‘La lucertola’ (Rizzoli, 2001) e ‘Il gioco della verità’ (Hacca, 2009) – è proprio nella capacità di costrizione con cui agiscono sul lettore, qui preso quasi in trappola, impossibilitato a sottrarsi al progressivo e inesorabile (o molto spesso improvviso) manifestarsi di un teatro della crudeltà che i personaggi mettono in scena, prendendo le mosse da situazioni quasi sempre ordinarie. Basti considerare il racconto di apertura, ‘Il balcone’, sconvolgente cronaca di una punizione impartita a una donna colta in flagrante adulterio dal cognato, un’esposizione peggiore della gogna seicentesca della lettera scarlatta, che finisce in tragedia quando il marito, passivo e inerme sia di fronte al tradimento sia alla vendetta ordita dalla madre e dal fratello per ristabilire l”onore’ macchiato della famiglia, esplode in un raptus di follia omicida. O, tra gli altri, ‘Hai fiducia in me?’, dove l’omissione di soccorso di una coppia nei confronti di un uomo investito con l’auto diviene atto (mancato) rivelatorio di una crisi che è allo stesso tempo etica ed esistenziale. I personaggi di Carraro – quei ‘balordi’ trasversali di cui parla Fabrizio Ottaviani nella postfazione del libro – sono dunque i rappresentanti di un’umanità derelitta, in pieno disfacimento morale, per la quale basta un’incrinatura, uno smottamento, a provocare frane, a rivelare fratture insanabili, a rompere argini o equilibri fittizi (come nel racconto, a suo modo cechoviano, ‘Il gioco della verità’), a superare limiti oltre i quali le leggi della convivenza umana vengono smarrite per sempre, con conseguenze disastrose (lo stupro di gruppo di ‘Dopocena’). Andrea Carraro è uno scrittore di racconti esemplare, tra i migliori oggi in circolazione in Italia (si legga, ad esempio, il finale da antologia del brevissimo ‘Licenziamento’): discepolo di Raymond Carver, il suo sguardo di narratore è preciso e implacabile, e si posa con la stessa impassibilità sulle più diverse realtà sociali, da quella borgatara e proletaria (la stessa esplorata nel suo romanzo più celebre, ‘Il branco’, da cui Marco Risi ricavò l’omonimo film) a quella piccolo-borghese o ‘pariolina’, tanto che l’approccio della sua scrittura può definirsi più correttamente antropologico, che sociale. La Roma che traspare da queste pagine è infatti il microcosmo non solo di una nazione, ma direi di un’intera civiltà colta sull’orlo dell’implosione. Sono pertanto racconti apocalittici, nel senso letterale del termine, in quanto disvelano – nella descrizione della fine di un mondo – una verità nascosta: quella di un’alienazione, di un malessere irredimibile, sempre pronto a far posto a una violenza che finisce per esercitarsi indifferentemente contro gli altri o se stessi.
V. Pardini – Il Piacere della lettura –
ANDREA CARRARO è tra i pochi scrittori italiani che continua a privilegiare l’arte del racconto; un genere non amato dagli editori, che vogliono il romanzo, in quanto più appetibile. Ma la nostra vera tradizione letteraria risiede nella novella. Narrazione breve dove l’autore, nel volgere di poche pagine, deve fare centro. È quanto avviene nelle prose di Carraro, i cui protagonisti sono individui di oggi, che possiamo incontrare al bar o incrociare per strada, in apparenza silenziosi e quieti, in realtà macerati dentro, perché in conflitto con se stessi e col mondo. Se uno psicologo si soffermasse su queste pagine, vi troverebbe materia per i suoi studi. I personaggi di Carraro narrano infatti storie estreme, perché, spesso, assumono alcol e droga, che ne accentuano rabbia e frustrazione. Gli ambienti in cui si muovono sono spesso degradati e anonimi, dove l’identità delle persone si dissolve e dissolve quanto hanno attorno. Uno stuolo di sconfitti, che bene esprimono questi nostri tempi, violenti e contraddittori, che loro affrontano col piglio disperato di chi non ha scelta. Un libro da leggere, per meglio conoscere l’Italia di adesso.
S. Gambacorta –
Sarà in libreria il 24 novembre il nuovo libro di Andrea Carraro, Tutti i racconti, quarto titolo della collana ‘Gli impossibili’ diretta da Andrea Caterini per la casa editrice Melville. Narratore di razza per il quale la maiuscola è un diritto maturato da tempo sul campo (si vedano, tanto per capirci, A denti stretti del 1990, Il branco del ’94 e via dicendo), Carraro trova nel racconto un terreno non meno fertile di quello che trova nel romanzo. E non solo per la qualità della scrittura in sé, ma per la capacità delle storie di aderire al clima dei tempi al punto da divenirne le testimoni più attendibili: testimoni e non solo testimonianze, proprio come fossero persone, visto e considerato che Carraro racconta per estrarre dal mondo la materia ambigua e complessa del vivere e certo non per diffondere didascalismi. Nelle sue storie (ne segnaleremo alcune fra le tante del volume) si può per esempio incontrare un’umanità sconvolta dalla sudditanza al giogo del lavoro, una sorta di rullo compressore che schiaccia le individialità e spalma quel che ne resta ai bordi di una ciclicità ripetitiva e stordente. L’essere borderline trova così una nuova collocazione, una nuova semantica: da condizione straordinaria si fa ordinaria, normale, consueta. Il lavoro, specie se subordinato, specie se impiegatizio, diventa nei racconti il volano di una deriva di massa, di un quieto massacro della gente. ‘Detenuti, ecco chi siamo, un esercito di detenuti’, si legge non a caso ne ‘Il berretto’, racconto bellissimo e spaventoso che rammenta soprattutto un punto: la maggiore alienazione prodotta dalla società contemporanea sta nella diserzione della solidarietà e nell’accettazione dell’estraneità come compromesso di convivenza. Si arriva così alla denuncia, per quanto implicita, di tutta l’ipocrisia della traduzione politica del dettato Costituzionale: il lavoro contemporaneo non è più la via per una realizzazione che conduca a un equilibrio (singolo e collettivo), ma è l’incapsulamento alienante in una cabina produttiva che pretende di affermarsi come spazio assoluto, e che quindi estromette dall’orizzonte quell’altra dimensione apparentemente sinonimica che è lo spazio vitale. ‘Timbro alle cinque in puntò è invece l’incipit di un’altra grande prova, La partita, il racconto di una solitudine e dell’impossibilità di superarla senza l’aiuto di qualcun altro. L’assurdo della vita è un agguato che può scatenarsi nel tempo di un battito di ciglia, perché si annida nel quotidiano e può esplodere anche in un gesto masochistico: sono infatti pochi gli istanti che servono a questa storia per deviare all’improvviso da quello che sembrerebbe esserne l’epilogo e virare verso il più incredibile e inquietante dei finali. Anche ‘Il muro di Guidò è un racconto di solitudine e anche in questo caso la sorpresa arriva con una sterzata nell’ultima manciata di righe, grazie a una capriola che colpisce proprio perché, giunti alla fine, ci si accorge che gli elementi alla base dell’effetto sorpresa erano già disseminati tutti in bella vista nelle pagine. Carraro è un rigorista che spiazza con movimenti lievissimi: rincorsa, tiro, portiere da una parte e pallone dall’altra, gol. Non manca di spiazzare ‘Dopocena’, dove torna un tema esplorato in quel vero e proprio classico che è diventato ‘Il branco’: alcuni ragazzi annoiati (dal benestante al povero, per un gruppo decisamente interclassista) compiono uno stupro nella cornice di una borghesissima casa per bene. L’edonismo e l’omologazione di una gioventù criminaloide di pasoliniana memoria si traducono nel conformismo feroce e impassibile di una truppa indifferente a tutto quel che non sia appagamento. Carraro torna a riflettere sulla violenza di gruppo, sulla sua ‘banalità’ e sulla sua normalità, non meno che su quell’arroganza del potere che sta nella coscienza dell’impunità. Ne ‘La replica’ c’è poi una coppia dove la simmetria dei due diventa un’asimmetria perfetta, tragica e invincibile, rotta o forse soltanto appena scalfita da tentativi di dialogo di un marito con la moglie: lei non gli perdona quell’ormai lontano ma mai davvero lontano attimo di distrazione in cui la loro bambina di quattro anni morì. La vita che finisce torna in chiave diversa ne ‘La nonna morta’, racconto ampio che prende le mosse in un tragicomico e allucinato interno familiare piccolo-borghese. Un bambino scopre il mistero della morte quando appunto vede la nonna spegnersi all’improvviso: ‘La nonna cominciò a balbettare e a fare le bave. Poi la testa le spiombò di lato su una spalla. Guido la lasciò così sulla poltrona in quella posa da fantoccio’. Guido osserva il decesso – come dire – libero da sovrastrutture, lo coglie e accoglie senza pathos e senza pietas, come una normalità, e con un distacco che non ha nulla di colpevole (‘Mettendosi in una posizione per così dire acritica, Carraro riesce a presentare la tensione di cui la realtà si nutre’, ha scritto lo stesso Caterini in un saggio poi raccolto nel suo ‘Patna’). La normalità, sia essa situazione di partenza o di arrivo, oppure terra di mezzo che può essere plasmata dalle mille variabili di mille imprevedibili venti, è uno dei grandi campi di forza, forse il maggiore, in cui penetra la parola di Carraro. A chiudere ‘Tutti i raconti’ c’è una postfazione esemplare di Fabrizio Ottaviani: ‘un autore che ormai, per quantità e qualità della produzione, rappresenta una delle voci più importanti del panorama’, dice di Carraro, e non si può che concordare con lui.