La lucertola

Nulla sembra accomunare la vendetta in una casa popolare di un sobborgo romano del primo racconto, o un congegno a orologeria perfetto di “Il balcone”, con la negligenza colpevole di due genitori ne “La lucertola”, oppure con la prepotente violenza in un posto di lavoro di “Il barista”, o la sfida blasfema ne “L’altalena”. Ciascuna di queste storie rappresenta la zona d’ombra delle nostre esistenze, la parte oscura delle nostre coscienze. Con la forza di una lingua scabra ed essenziale, affidata a frasi brevi e a dialoghi in presa diretta, Carraro interroga la vita proprio sul crinale che separa razionale e irrazionale, e restituisce alla letteratura la forza di una scommessa in cui la parola può testimoniare il manifestarsi delle barbarie.

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Recensioni

  1. G. Casagrande – Caffè Letterario

    Se ‘Il branco’ è stato un libro scioccante, se ‘A denti stretti’ ha turbato in profondità i lettori, così come è avvenuto per tutti i più recenti romanzi di Carraro, di certo questa raccolta di racconti conferma la vocazione dell’autore a colpire i punti dolenti dell’umanità ‘malata’ che descrive. Un sobborgo, una famiglia proletaria, un onore coniugale che deve essere difeso secondo leggi violente e primitive: questo è il clima in cui si svolge la tragica vicenda del primo racconto, Il balcone. Una giovane donna, colta in fragrante adulterio dal cognato, viene legata seminuda, alla gogna dell’intero paese, sul balcone della misera casa dalla coalizione di suocera e cognato. Il marito, che non aveva reagito con la violenza pretesa dalla famiglia alla notizia del tradimento, ascolta, sempre più sconfitto e silenzioso, i particolari dell’adulterio che il fratello racconta, sente l’accusa di tentato stupro che la moglie rivolge al suo aguzzino, assiste muto alla derisione della madre, alla collera dell’intera famiglia e si scuote solo quando la ‘peccatrice’ viene trascinata sul balcone e additata alla pubblica condanna. Sono le lacrime, le implorazioni della donna, in realtà l’amore che prova per lei, che fanno uscire l’uomo dall’apatia in cui era caduto: si scaglia contro il fratello, gli punta contro un fucile, lo uccide. Nel secondo racconto i personaggi appartengono a una classe sociale diversa, sono due borghesi, belli e annoiati, genitori di una bambina piccola. Tra loro non c’è un rapporto profondo, c’è anzi vivo nella memoria un tradimento non ancora cancellato. Della vita della coppia vengono colti due momenti particolari: quando in estate, per superficialità colpevole, mettono a repentaglio la vita della piccola; e (questo fatto è successivo di qualche mese) quando abbandonano, senza soccorrerlo, un ragazzo che hanno gravemente ferito, investendolo con la macchina. La dinamica in tutte e due le occasioni è simile: solidali nell’evitare problemi, anche in modo criminale, divisi quando la sofferenza li tocca personalmente. Banali, egoisti, scontenti, questi personaggi (in particolare la donna) non hanno scrupoli morali, rappresentano la diffusa categoria dei mediocri che riescono a compiere con leggerezza, per non avere problemi, anche gesti criminali. Il terzo e il quarto racconto sono brevi e intensi. ‘L’altalena’, ultimo nella raccolta, vede un gruppo di ragazzi annoiati cercare in una rudimentale altalena un’ebbrezza che li sappia soddisfare: noia, mancanza di fantasia, pochezza di interessi e la sfida, il pericolo, il rischio come unica spinta vitale. Tra bestemmie e risate il ragazzo sull’altalena sembra voler toccare il cielo: il suo balzo non lo porterà fino agli dei, ma a rovinare per terra, in mezzo alla sterpaglia della periferia romana. Una nota comune di tutti i racconti è la considerazione che in una vita qualsiasi basta un attimo per trasformare un individuo insignificante in mostro, che la famiglia è il luogo del malessere, infine che la morte ci accompagna sempre, che possiamo richiamarla o provocarla con gesti quotidiani, con un attimo di distrazione, con la superficialità e l’egoismo: il giudizio sugli uomini e le donne di questo nostro tempo è davvero severo, Carraro non elargisce né giustificazioni, né pietà.

  2. M. Arcangeli – L’indice

    Non pago di averci condotto tra gli orrori scatenati da un gruppo di balordi (‘Il branco’, 1994) e le violenze partorite in seno alle quattro degradate mura familiari (‘L’erba cattiva’, 1996). Andrea Carraro ritenta caparbiamente, nei quattro brevi racconti inseriti nella ‘Lucertola’, la vecchia familiarissima via. Scena prima: ‘Il balcone’. Il solito paesello nei dintorni di Roma. Un quadretto familiare turbato da una storia di corna. Due fratelli e una madre autoritaria che strapazza invano il cornificato, incapace di reagire all’adulterio da vero uomo, perché assuma il ruolo di marito-padrone che era già stato della buonanima del marito (‘Gesù mio, misericordia, che ho fatto di male?… Ma come fai a startene così tranquillo, a Bai’… Se ci fosse ancora tuo padre… Lo sai che ti direbbe… Che la devi gonfià, a Basì, e lo deve sapè tutto il paese, ecco che ti direbbe… Oppure lo farebbe lui in persona. A me mi menava per un sì e per un no… Ma come hai fatto a venì su così… Non sei figlio suo, non sei…’). L’altro fratello, il minore, che da vero uomo va a prelevare l’adultera, la costringe a spogliarsi e poi, con l’aiuto della fidanzata, la trascina sul balcone di casa e la lega alla ringhiera perché i vicini la vedano e sappiano. Sul gruppo di famiglia in un interno, ormai, incombe la tragedia: la donna, infreddolita e terrorizzata, implora l’aiuto della folla che nel frattempo si è raccolta in strada, il marito, umiliato e offeso, prende il fucile e spara al fratello che gli impedisce dislegare la moglie. Piange ora, Basilio, che cerca riparo tra le braccia della madre. _C’è solo il tempo di un supplemento di tenerezza che completa il ravvedimento. La madre di Basilio adesso, superato il disagio e la riluttanza del primo momento, prima che le forze dell’ordine glielo portino via, accarezza quel figlio sfortunato, mettendo in quel gesto un disperato accanimento. La delicatezza dell’elegia tenta di riscattare il convenzionalismo tragico, a tratti formulaico, in stile sceneggiata napoletana o, se si vuole, da perfetta ‘storia de amore e de cortelli’. Ma è tardi. E poi, ripetiamo, l’orrore, l’indicibile orrore promesso dov’è? _Scena seconda: ‘La lucertola’. II racconto migliore. Una coppia sull’orlo di una crisi di nervi che trascorre le vacanze in un albergo della costiera amalfitana. Una bambina di neppure due anni che dorme tranquilla in camera. La coppia che, distratta dai giochi idioti dell’animazione turistica, trova al suo rientro la piccola esanime al suolo. Il voyeurismo sciacallo dei frequentatori dell’albergo, come attratti da un nuovo inaspettato passatempo (‘Attraversiamo la hall fra due cordoni di ospiti che guadano alternativamente ora noi ora la piccola. Gli sguardi pietosi si sprecano. C’è qualcosa di impudico, morboso, sconcio in questa curiosità travestita da compassione. Si stanno godendo un surplus d’animazione gratis questi sciacalli. Anche Ludovica deve provare lo stesso mio sentimento, procede al mio fianco fulminando occhiate disperate e cattive, da bestia braccata, china sulla piccola come per proteggerla da quelle occhiate’): ci vengono in mente i recenti fatti di Cogne. La corsa verso l’ospedale con il cuore in gola. II senso di colpa di lei. Il peggioramento improvviso della piccina. La rabbia di lui, che affida la salvezza della figlia al primo movimento di una lucertola sorpresa du un muro dell’ospedale (‘Mi concentro su una lucertola perfettamente mimetizzata in una piccola fessura del muro a poco più di un metro dal davanzale. è assolutamente immobile, pare inanimata. Devo cogliere l’attimo esatto in cui si muoverà mutando psizione’). La bambina ha superato la crisi ma la lucertola ancora non si muove. Si è mossa, finalmente. Ora, soltanto ora, la bambina è salva. La coppia tira un sospiro di sollievo per lo scampato pericolo, ma la crisi di nervi non si risolve. Anzi. Una furibonda litigata in automobile sei mesi dopo sulla Roma-Fregene. Stavolta ci scappano anche le botte: del marito esasperato alla moglie gelosa. La rabbia di lui che monta. L’auto che aumenta di velocità. Il motorino che appare improvviso nella notte. L’inutile frenata. Il botto. II ragazzo che si è rotto la testa ma è ancora vivo. La dolcezza consolatrice di lui (‘Oddio, oddio, oddio… L’abbiamo preso, oddio, oddio…’ ‘Calmati, tesoro, calmati, vado a vedere…’). L’istigazione a fuggire di lei. La crisi di nervi che, improvvisamente, si dissolve, sprofondata sotto il macigno dell’atto criminale. Ora è la dolcezza consolatrice di lei (‘Adesso è lei a consolarmi. Mi trovo avvinto al suo seno, i singhiozzi mi squassano il petto’. ‘Non piangere, piccolo mio, non piangere…’. ‘Erano anni che non mi chiamava ‘piccolo miò. La abbraccio anch’io, con foga, piangendo sulla sua spalla’). Ora sono le risate, le passeggiate in riva al mare mano nella mano, la fame ritrovata, gli sguardi illanguiditi, il cuore che ha scovato l’alibi giusto per tornare a battere. _L’orrore, ancora una volta, non c’è. I fatti di cronaca ancora una volta, suscitano ben altro raccapriccio. Stavolta però il disagio, un forte disagio, ci prende. Ci chiediamo, tra sospensione e turbamento, se potremmo essere noi. _Scena terza: ‘II barista’. La sovraccoperta: ‘la prepotente violenza di uno squallido posto di lavorò. La storia: un becero banchista di un bar di terz’ordine dalla greve calata romanesca, a forza di ripetuti atti di ‘nonnismo’, cazzotti compresi, induce il neoassunto di turno, un giovane diplomato che, adattandosi a fare il barista intendeva ‘misurarsi con la vita’, ad abbandonare il lavoro.Tanto basta. _Scena quarta: ‘L’altalena’. La sovraccoperta: ‘Sfida blasfema’. La storia: quattro giovani balordi di Nuova Ostia (la zona più degradata del lido di Roma), dopo aver allentato i bulloni di un’altalena per divertirsi alle spalle del ragazzino che, la mattina seguente, la farà sganciare, gareggiando alla fine tra loro perché i due componenti del gruppo che aspirano al ruolo di capobranco sono oramai ai ferri corti (‘Germano fa per avventarglisi contro. Poi si blocca, indurisce le mascelle nello sforzo di dominarsi. (…) Ricky per tutta risposta tira su col naso e sputa per terra, schifato. Gennaro si volta. I due si scrutano a lungo, immobili, come due fiere pronte a sbranarsi. ‘Facciamo una gara!’ propone infine Ricky. ‘Così vediamo una volta per tutte chi ci ha le palle per dà ordini…’). _Due minuti a testa. Prima Bruno, poi Ricky, quindi Fulvio e infine Germano. Ricky, quando è il suo turno, ‘accelera con dei colpi delle reni le spinte di Fulvio lanciando grida selvagge’. Germano, che non può essere naturalmente da meno, si fa spingere ad oltranza finché l’altalena alla fine si sgancia. Ma niente paura: malgrado si sia schiantato contro uno scivolo, il supercafone di turno non ha fortunatamente nulla di rotto, solo un ginocchio dolorante. La sfida blasfema in fin dei conti, si è risolta bene. _Tra le solite variazioni sul tema dell’organo maschile, graziosamente accolto in quanto tale (‘Le mani ficcate nelle tasche dei calzoni aderenti stanno strofinando il cazzò) o piegato a un assai ampio ventaglio di possibili traslati, le incursioni del solito ‘fumese’ stantio (‘poco a poco l’eccitazione si placa ed ora avrebbe voglia di farsi una canna, si, solo una cannetta’. ‘Tieni, fatti un tiro!’. ‘Germano si va a rollare un’altra canna’) o del coattese romano doc, da sgnaccato ‘chiaffato’ (‘Finché perde l’equilibrio e cade carponi per terra sgnaccato fra due automobili’), che è pure del gergo militare, a pararsi il culo ‘schivare un pericolo, stare al sicurò (‘Va bè, va bè…’ fa Ricky sghignazzando. ‘Ti vuoi parà il culo, li mortacci tua…’), le cadenze e le espressioni di un romanesco di repertorio la cui resa grafo-fonetica, peraltro, ci lascia talora alquanto perplessi. Non meno perplessi, comunque, di quanto ci lascino le edificanti storie di Carraro.

  3. F. Troiano – www.italica.rai.it

    Quarantaduenne, quattro romanzi in un decennio, il romano Andrea Carraro ha ormai una ben precisata fisionomia di narratore: stile scabro ed asciutto, attenzione fenomenologica ai propri personaggi e precisione d’entomologo nel descriverli, rifiuto di un realismo di maniera come pure d’uno psicologismo d’accatto ne contraddistinguono la scrittura. I quattro racconti de ‘La lucertola’ (Rizzoli, pp.136, L.22.000) costituiscono la prova sua di gran lunga più convincente dai tempi lontani de ‘Il branco’ (1994; qualcuno ricorderà il bel film che ne trasse Marco Risi), quasi la misura breve meglio s’accordasse alle caratteristiche del Nostro. Una famiglia dell’estrema periferia romana, una coppia di sposi alla prova del fuoco, un barista che vessa un giovane lavorante, un gruppo di balordi persi in una sfida azzardosa e vana: sono questi i protagonisti delle storie proposte, nel segno d’una angosciata consapevolezza della banalità del male. Giacché questi uomini e queste donne agiscono al negativo in una maniera istintiva e pressoché automatica: persone naturali e strafottenti, per dirla alla Patroni Griffi, individui che commettono cose atroci semplicemente esistendo con i propri limiti ed egoismi, esseri postmorali più che amorali. Richiesti d’una qualche generosità, essi lapidano chi falla, non si curano della vita di innocenti, fan soprusi ai più deboli, si accaniscono persino contro se medesimi in virtù d’un istinto onnilesionista ch’è figliato da ferocia atavica, autodisistima, tedio immedicabile: si pensi all’estrema deriva criptosuicida che colora d’assurdo il feroce ‘L’altalena’, od alla colpevole trascuratezza di due genitori per solo destino biologico nello splendido racconto che dà il titolo alla raccolta. Ci sono immagini, nelle pagine del libro, che colpiscono duro: moribondi abbandonati a se stessi, donne seminude esposte al pubblico ludibrio, corpi di neonati comatosi sui quali per caso s’inciampa, fratricidi. Ma non v’è compiacimento alcuno da parte di chi scrive: anzi, s’avverte a tratti una pietas laica che nulla giustifica, e tuttavia mai si nega alla comprensione.

  4. M. Barenghi – Lo Straniero

    La via al realismo che pratica, non da oggi, Andrea Carraro giunto al suo quinto libro è contraddistinta da una risoluta opzione per gli aspetti più brutali della moderna vita associata. Le sue storie si svolgono in ambienti umanamente degradati, dove imperano volgarità, insensibilità, prepotenza. Nessuno dei personaggi è fatto per sollecitare un’identificazione emotiva da parte del lettore; i più sono, non che squallidi, spregevoli; molti suscitano senz’altro disgusto. Spesso le pulsioni aggressive esplodono sotto forma di pugni, coltellate o colpi d’arma da fuoco; ma una violenza appena inferiore governa i dialoghi, improntati a un frasario grossolano e contundente. per rappresentare questo mondo, Carraro ricorre a una scrittura aspra, compatta, torvamente referenziale, che sciorina orrori ed abiezioni con una sorta di incallita spietatezza; del resto, le parti narrate si limitano spesso a collegare i discorsi diretti dei personaggi, nei quali sembra concentrarsi il maggior impegno stilistico. LA LUCERTOLA comprende quattro racconti. In quello che da il titolo al libro vediamo una coppia di giovani e irresponsabili genitori mettere dapprima a repentaglio con la loro negligenza l’incolumità di una figlia in età tenerissima, poi investire un ragazzo in moto e fuggire senza prestargli soccorso. IL BALCONE, forse il brano migliore della raccolta, mette in scena uno scandalo familiare la feroce e ambigua punizione di una donna infedele ad opera del cognato e della suocera che si conclude con un delitto. IL BARISTA narra una squallida contesa fra i due dipendenti di un locale d’infimo ordine, sotto lo sguardo d’un padrone lurido e inerte. L’ALTALENA è il resoconto d’una insulsa bravata commessa da un gruppo di giovani sballati. I lettori di Carraro ritroveranno in questo volume molti aspetti già familiari, a cominciare dall’ambientazione nei sobborghi di non meglio determinate località del Lazio: un contesto urbanistico e sociale verso cui defluiscono i cascami della realtà metropolitana, e dove fermenta o s’incista il peggio della vita di provincia. Costante è pure l’attenzione alla componente drammatica del racconto. Le psicologie sono elementari e tutte colte in atto, lo sfondo impressionante ma raffigurato senza indugi descrittivi; il focus del discorso narrativo è costituito da un’azione che precipita rapida verso conclusioni senza speranze. Un elemento nuovo che tuttavia si può cogliere (penso, in particolare agli ultimi due brani della raccolta) è una più nitida impressione di assurdità, suscettibile di accomunare comportamenti efferati e gesti insignificanti. Nel vuoto di coscienza che Carraro ritrae, un crimine commesso e un crimine evitato in fondo si equivalgono; tra vivere e morire non fa gran differenza, il mondo è una bruttura che nulla e nessuno sembra potere riscattare. Paradossalmente, l’unico valore che resiste sembra essere proprio quello della letteratura, che enuncia (più che denunciare) lo sfacelo dei rapporti umani, disegnando con nitida precisione una realtà macera di desolazioni e turpitudini.

  5. M. Onofri – Diario

    Avevamo letto e apprezzato sin qui, di Andrea Carraro, i romanzi (A DENTI STRETTI, IL BRANCO, L’ERBA CATTIVA, LA RAGIONE DEL PIU’ FORTE), arriva adesso questa raccolta di racconti. Cambia qualcosa?
    Nel traghettare i suoi temi consueti da un genere all’altro. Carraro resta all’altezza dei suoi risultati migliori? A libro chiuso, non ne sono del tutto convinto. Credo non vi sia dubbio che in generale, tanto nel romanzo quanto nel racconto, agisca sempre e solo un problema di prosodia: se è vero, appunto, che il cambio di passo non può non costringere uno scrittore a riaccordare il ritmo del suo metronomo interiore. In giuoco c’è, in effetti, un differente senso della durata: che nel racconto, quando non mette capo al fulmineo coagulare d’un destino come in certi mirabili risultati di Cechov, Maupassant o Pirandello, deve almeno consegnarsi alla compiuta autosufficienza d’un dato esistenziale. Cosa che non mi pare si produca in almeno due dei quattro racconti della LUCERTOLA. e cioè IL BARISTA e L’ALTALENA: dove non s’oltrepassa il livello del cartone preparatorio.
    Intendiamoci, le storie sono ancora quelle d’ordinaria nequizia e atrocità che già conoscevamo: di un’atrocità tanto più sconvolgente perché figlia della normalità e della quotidianità.
    Il profilo dei personaggi continua a essere scarnificato, inesorabilmente, sino alla coincidenza tra psicologia e anatomia del comportamento. Lo sguardo di Carraro (uno dei pochi narratori veramente laici delle nostre lettere) è sempre lo stesso: inconfondibile, lucido e implacabile sino al sarcasmo, per un’umanità generata dall’imbarbarimento del linguaggio e dei costumi, insomma da quella mutazione antropologica della società italiana che ci è stata raccontata, in diversa guisa, anche da scrittori come Pasolini, Cerami e Sandro Onofri. La lingua, invece, è quella dell’ultimo romanzo, LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE: lontana dallo specialissimo dialetto d’invenzione d’un libro impressionante come IL BRANCO, e giocata, piuttosto, su un registro di anonima medietà, solo appena minacciata dagli idiotismi, ma perfettamente consustanziale alla mediocrità etica dei protagonisti, violenti e turpi, senza nemmeno la consapevolezza di esserlo, siano essi balordi di periferia, piccolo-borghesi o borghesi piccoli piccoli.
    Tutto, insomma, sembrerebbe funzionare come sempre, anche in quei due racconti di cui si diceva: tranne che, appunto, nei tempi tecnici d’esecuzione, se cosi si può dire.
    Mi spiego meglio. Prendete IL BARISTA, un caso di soprusi e vessazioni sul posto di lavoro patiti da un giovane bloccato negli studi. L’ambiente, quello d’uno squallido bar di periferia, è reso con grande abilità. Il ritratto del livido e vile proprietario ci resta impresso. Eppure, noi avvertiamo subito che la verità del giovane protagonista narratore sta al di fuori del racconto, invoca un altro tempo, un’altra durata: la storia vale come episodio, dell’eventuale romanzo che Carraro non ha scritto, piuttosto che come esempio. Lo stesso si potrebbe dire per L’ALTALENA, in cui ci sarebbe piaciuto conoscere meglio la vita dei quattro teppisti irresponsabili che manomettono l’attrezzo di divertimento, fino ad affrontarsi in una sfida scellerata.
    Non saprei esprimermi su IL BALCONE, feroce vendetta di famiglia ai danni di un’adultera, mentre mi sembra molto bello il racconto che dà il titolo al libro: dove una coppia viene messa di fronte alla tragedia, una volta, quando, per negligenza, mette a repentaglio la vita della propria figlioletta, poi, quando investe un ragazzo senza soccorrerlo, occultando i segni dell’incidente.
    Nel toccare questo inquietante grado di cloroformizzazione della coscienza, Carraro e’ narratore davvero insuperabile.

  6. P. Spirito – L’indice dei libri del mese

    Una vitale dissonanza di fondo caratterizza tutte le storie narrate da Andrea Carraro. è la tensione nervosa verso un punto di rottura che non si raggiunge mai o, se si raggiunge, provoca diaclasi appena percettibili, ma tali da stravolgere equilibri consolidati. è una liberazione di energia endogena dai risultati imprevedibili e spesso violenti, che portano a un nuovo, precario punto di equilibrio. E questa dissonanza, questa vibrazione tellurica, nasce da una scrittura senza concessioni, essenziale e tirata, lucida al punto da farsi rapporto dell’evento in presa diretta, diligente annotazione di una tragedia in atto. Così nei racconti della LUCERTOLA, quattro narrazioni che disegnano l’instabile geologia del quotidiano. A cominciare dal primo brano, IL BALCONE, dove si consuma una vendetta familiare dagli esiti drammatici. In un interno di borgata la bellezza infedele di Nora, con la sua libera sensualità, scatena rabbie represse e istinti di rivalsa. Anche qui, una volta minata la statica dei rapporti, una volta consumato il delitto, ‘resta, come alla fine di un incubo notturno, la sensazione vaga di un immane pericolo scampato e di una rigenerazione miracolosa’. Nella LUCERTOLA, il racconto lungo che da il titolo alla raccolta, la linea di frattura si delinea a partire dall’idea dell’inevitabilità della colpa. Durante una vacanza di famiglia, una ludica distrazione provoca il ferimento grave della figlioletta. Non è solo una disgrazia, è la messa in discussione di un complesso rapporto di coppia, una presa di coscienza profonda e dolorosa per i due genitori. Il buon esito dell’incidente non basterà a ricomporre la stabilità compromessa. Fino al prossimo mutamento. In definitiva è una scommessa scaramantica, come quella che fa il protagonista osservando una lucertola immobile: tutto sta a ‘cogliere l’attimo esatto in cui si muoverà mutando posizione’. Ma la frattura improvvisa, il mutamento disgregante, porta in luce la parte oscura della nostra coscienza: al loro secondo appuntamento con la colpa, marito e moglie troveranno nella reciproca dannazione una rinnovata complicità. La tensione esplode e poi si stempera anche negli ultimi due racconti. IL BARISTA e L’ALTALENA, dove Carraro riesce, nella rappresentazione di violenza e viltà, a offrire gli esiti migliori della sua esplorazione lungo i labili confini tra razionale e irrazionale. Il barista con ‘un passato punteggiato da gesti codardi’ alle prese con Pasquà, collega volgare e prevaricatore, e il gruppo di balordi che si sfidano a una prova di coraggio sull’altalena manomessa, aprono una finestra su una ‘periferia sudicia e tetra’ dove va in scena l’orrore del vuoto quotidiano. Come già nei precedenti libri, da IL BRANCO (Theoria, 1994) a LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE (Feltrinelli, 1999), Carraro scende su questo terreno, lo percorre senza tentennamenti, osserva e registra, e ci restituisce un’immagine nitida e impietosa di quell’orizzonte grigio, con gli scorci sui paesaggi, descrizioni brevi e folgoranti, e i dialoghi mutuati dalla parlata in dialetto romanesco. Echeggia Pasolini in queste pagine, e una scrittura che nella sua asciuttezza, nella sua consapevole espressività contemporanea, non rinuncia a un impianto classico e a un’eleganza formale di ispirazione tradizionale. Sono espedienti in grado di accentuare quella vibrazione distonica grazie alla quale Carraro riproduce con grande efficacia e senza cedimenti a mode letterarie il rumore di fondo, il senso alterato dello spaesamento e dell’angoscia di ogni giorno.

  7. R. Lughezzani – Bresciaoggi L’Arena

    Andrea Carraro, autore del celebre romanzo IL BRANCO da cui Marco Risi ha tratto l’omonimo film, ripropone in questo suo nuovo libro LA LUCERTOLA (Rizzoli) il male come protagonista assoluto. è un male ordinario, quotidiano, dai contorni spesso sfumati, ma freddo, spietato e terribile, proprio perché emerge nelle persone comuni; si insinua nella vita di tutti i giorni, in occasioni quasi scontate._Non si tratta di un vero e proprio romanzo; è piuttosto una raccolta di brevi racconti, uniti però dal filo rosso della violenza, che si manifesta nelle forme più diverse. I personaggi sono vittime o carnefici di situazioni banali, che diventano estreme, sfuggendo inesorabilmente al controllo di chi lo vive. C’è Nora, una giovane donna sposata che, per aver tradito il marito, rimane vittima di una sconcertante vendetta familiare ordita dalla suocera e dal cognato, mentre la gente curiosa assiste impotente a tutta la scena, senza che neppure le forze dell’ordine tentino di impedire il tragico epilogo. Ci sono i due coniugi in vacanza, che mettono in pericolo la vita della loro bambina per una leggerezza o per negligenza, difficile giudicare. Si tratta di storie moderne e i luoghi in cui sono ambientate ci ricordano qualcosa di molto familiare: un sobborgo romano, un villaggio turistico della costiera amalfitana, l’uscita di una discoteca; luoghi, insomma, che normalmente sono rassicuranti, in cui è facile immaginarsi, ma che diventano teatro di vicende desolanti, veri e propri episodi di quotidiana violenza, senza riscatto. Carraro conduce la narrazione con grande sapienza: lo stile è secco, conciso; spesso brusco. Il lessico diventa assolutamente efficace nella sua essenzialità. Lo svolgersi della vicenda è, il più delle volte, affidato al dialogo. Un dialogo altrettanto scabro, che è intessuto delle parlate dialettali, che si nutre di termini volgari, ma esclude l’ascolto, isola l’altro, crea fraintendimenti, ferisce, punisce colpe forse inesistenti. Questi quadri inquietanti di vita domestica si imprimono nella mente e nella coscienza del lettore e impongono una riflessione cui è impossibile sottrarsi.

  8. G. Ferroni – L’Unità

    Storie di violenza normale, quelle raccontate da Andrea Carraro nei quattro racconti così essenziali, così privi di sbavature e di compiacimenti, raccolti nel volume LA LUCERTOLA (Rizzoli 2001, L. 22.000): violenza tanto più angosciosa e desolante, quanto più normale, quanto più emerge da un mondo quotidiano fissato in uno spazio grigio ed uniforme, in cui il tempo sembra scorrere in una sorta di continuità senza tempo, in un orizzonte privato di ogni storia e di ogni memoria. Storie senza storia si direbbe, storie di una quotidianità urbana e suburbana da cui è espunto ogni anelito vitale, da cui sembra scacciata ogni speranza, ogni ipotesi di conciliazione e di risarcimento ad un dolore e ad una cattiveria che spesso non riescono ad essere nemmeno coscienti di se stessi e rispetto a cui sembra vana ogni opposizione, ogni contrasto. Queste storie si svolgono nelle zone franche ai margini di una Roma scarnificata e desolata, che solo da lontano può far pensare a Pasolini e a Cerami o semmai al più vicino Sandro Onofri. Leggendo Carraro (che ha dato un risultato davvero intenso nel romanzo del 1999 LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE) possono venire in mente certi squarci delle periferie romane di Onofri (persona, scrittore sempre carissimo e sempre amaramente rimpianto), ma con una differenza essenziale: mentre nella scrittura di Onofri il segno della violenza sembrava sprigionare dalla densità stessa di quelle atmosfere romane, era come qualcosa che infettava l’aria, si propagava nel cielo, al di là delle facciate dei palazzoni di periferia, qui la violenza sembra darsi tutta nell’azione, nei movimenti, negli scatti, nelle decisioni dei personaggi: i rapporti che costoro istituiscono tra loro sembrano aver cancellato l’ambiente stesso, fanno perdere ogni residua identità agli ambienti che essi percorrono. Quasi tutto si svolge all’aperto, ma è come se tutto fosse al chiuso, in uno spazio ridotto, come indeterminato e sospeso, in cui tutti i movimenti possono essere osservati, soppesati, misurati: proprio in un tempo senza tempo. Qui si danno appunto, ai margini di una città che vediamo e non vediamo (ma che forse non si può vedere come città, perché la sua concretezza è come annullata dalla violenza indifferente che la costituisce), queste storie normali, troppo crudamente normali, che Carraro ci racconta senza nessun compiacimento, senza nessuna evasione verso il troppo chiacchierato cinismo pulp (ma mi pare comunque che del pulp ci siamo ormai liberati: è proprio ora di non parlarne più). Attenta misurazione di movimenti e spostamenti: punti di vista diversi da cui si osserva questo flusso lento, ostinato, quasi ravvolto su se stesso, di violenza che si abbarbica alle esistenze, che le conduce ad un non senso in definitiva accettato e sottoscritto da tutti, anche da coloro che subiscono e in parte resistono, ma in definitiva ricevono vita proprio da quel sordo orizzonte. Dei quattro racconti due sono in prima persona, quello che dà il titolo al volume, LA LUCERTOLA e IL BARISTA, mentre gli altri due, IL BALCONE e L’ALTALENA, si svolgono attraverso una narrazione di tipo oggettivo. Ne IL BALCONE l’aggressione ad una donna, che i familiari del debole marito pretendono di punire per i suoi tradimenti esponendola seminuda al balcone di casa, conduce ad un esito tragico, con un movimento tra un dentro e un fuori, tra il dentro dell’appartamento e il fuori del balcone, che fa da spettacolo alla torva curiosità dei vicini. LA LUCERTOLA si svolge in due fasi, seguendo, attraverso la voce maschile, due momenti diversi (in un villaggio di vacanze e poi sulla via Aurelia verso Fregene) della vita di una coppia scombinata, in preda ad una sorda ostilità reciproca, tra perpetui litigi e rancori, ma capace di trovare una ferrea solidarietà nell’egoismo cieco, nella chiusura nel proprio piccolo universo, senza nessuna cura per ciò che è di fuori: dopo un furioso litigio i due ritrovano la loro armonia quando abbandonano senza soccorso un motociclista investito sulla strada e occultano i segni dello scontro sulla loro vettura. Cialtroneria, insulsaggine, superficialità, aggressività, cattiveria di bassissimo rango: la piccola e distruttiva violenza di questo mondo chiuso vede trionfare l’irrazionale più cieco, la volgarità più incapace di riconoscere se stessa, la vigliaccheria senza remissione. Ecco una vita (quello che è diventata e sempre più rischia di diventare la nostra vita collettiva) tutta rivolta a consumare se stessa e il mondo: ecco le magnifiche sorti di una società che sembra ormai escludere ogni possibilità di sentimento autentico, ogni passione per le cose e per le persone. Eppure di fronte a tutto ciò l’autore, sempre impersonalmente assente, non mostra nessuna freddezza o indifferenza, nessun nichilistico cinismo: tra le pieghe del racconto, in certe immagini e in certe esitazioni dei personaggi stessi, c’è come una sofferenza, un disappunto, una insopprimibile contrarietà di fronte ad un mondo fatto cosi, a simile incredibile assenza di amore.

  9. E. Paccagnini – Corriere della Sera

    Sarà l’aver riattraversato di recente testi di ogni tipo della stagione del realismo postbellico (neorealista e non: pasoliniano o meno); ma nel leggere alcuni di questi quattro racconti di Carraro ho talora avvertito l’impressione del déjà-vu. Ciò che non ha comunque costituito freno alla lettura; che anzi scorre bene grazie alla scrittura secca, aspra, colorita ove necessario da cadenze dialettali e gergali: una scrittura referenziale che, proprio quando si conserva tale, nei momenti maggiormente espressivi si radicalizza traducendosi nel suo opposto, a farsi quasi simbolica; ciò che non riesce quando l’elaborazione espressiva punta a quel risultato con sovrapposizioni metaforiche (la scena della lucertola nel racconto omonimo). Quattro racconti dalla medesima ambientazione geografica, tra periferia romana, sobborghi, Ostia, per quattro spaccati di vita ora proletaria (IL BALCONE), ora piccolo-medio borghese (LA LUCERTOLA), ora mescolati (IL BARISTA), mentre socialmente neutra è la composizione del microbranco dell’ALTALENA. E, come sempre in Carraro, spaccati di vita maledetta. Di violenza subita o esercitata, più o meno manifestamente, ma senza riscatto alcuno. Ove anche una potenziale luce (la figlia dei borghesucci della LUCERTOLA) rasenta il pericolo dello spegnimento. Storie di vita vuota. Soprattutto, storie di assenza di volontà, con proprie vite vissute dagli altri (IL BALCONE, IL BARISTA) o da convenzioni che dettano paure sollecitanti ad atti di non percepita irresponsabilità (LA LUCERTOLA). Cosi gli interni proletari del BALCONE raccontano d’un onore coniugale da ristabilire con mezzi brutali imposti da un cognato a un marito imbelle ma sempre innamorato: provocandone il cruento scatto conclusivo. Nella LUCERTOLA, lungo racconto composto da due momenti separati nello svolgimento da alcuni mesi (in realtà due diversi racconti che con diversi protagonisti avrebbero potuto essere anche autonomi, guadagnandoci narrativamente), due genitori belli e annoiati rischiano la vita della figlia per partecipare a un gioco di coppie nel solito villaggio turistico: mentre mesi dopo ritrovano una rinnovata solidarietà entro la loro meschinità morale, quando da pirati della strada abbandonano un ragazzo che hanno investito e gravemente ferito con la macchina, distratti dal loro ennesimo bisticcio. Quasi microracconto di non-formazione e persistenza nella vigliaccheria è invece IL BARISTA, che sceneggia la prepotenza d’un vecchio sullo studentello in cerca d’occupazione; mentre il breve e compatto L’ALTALENA (anche per questo il più intenso della raccolta), dice d’un vitellonismo in cerca di svaghi pericolosi come manomettere l’altalena d’un parco giochi, per fortuna sperimentata in proprio alla ricerca di nuove ebbrezze tra paure e sfide estreme._Dico subito che, nonostante l’impressione del déjà-vu del BALCONE e dell’ALTALENA, sono questi due i racconti più convincenti (anche se di un’ulteriore secchezza narrativa il primo avrebbe tratto ulteriore giovamento). In quanto la rappresentazione oggettiva affidata alla terza persona (sguardo esterno nel BALCONE, interno ai personaggi nell’ALTALENA) e naturalistica (la naturalità della natura umana ripresa nella sua elementarità istintuale) consente nelle battute conclusive uno scarto prospettico (lo sparo nel BALCONE, il volo verso il cielo e la ricaduta nell’ALTALENA) che funge da stravolgimento, traducendo le conclusioni nel primo caso in visionarietà tragica, quasi onirica; nel secondo persino goliardica. Ciò che non offre IL BARISTA (affidato come LA LUCERTOLA all’io narrante): che a lungo andare stagna nel gioco sempre più violento di reciproche ripicche effettuate o immaginate. E lo stesso direi per LA LUCERTOLA; meglio realizzata nella prima parte (salvo la ricordata scena specularmente metaforica della lucertola), in cui Carraro sceneggia l’irresponsabilità personale dei genitori; più realistica ma per certi aspetti manierata la seconda parte: dove invece detta legge l’irresponsabilità sociale dei coniugi investitori.

  10. M. Belpoliti – L’Espresso

    Che cos’è la normalità per chi vive al di fuori dei codici sociali accettati? Che differenza c’è tra male e bene se spesso il loro confine sbiadisce e si confonde? I personaggi dei libri di Andrea Carraro abitano quella terra di nessuno che si situa tra il bene e il male. Sono dei ‘grigi’: né buoni né cattivi. Certamente non sono eroi luciferini; piuttosto uomini e donne senza qualità, e proprio per questo dediti quasi sempre all’esercizio del male, alla sua banalità. A furia di distrazione, cinismo, superficialità, di non sapere controllare i propri istinti animaleschi, finiscono per provocare tragedie irreversibili. Colgono l’attimo, ma è sempre quello che inclina verso il basso, la catastrofe. Sono così gli abitanti del libro di racconti ‘La lucertola’: il mite Basilio, il sadico fratello Lucio, la loro madre scellerata, e Nora, la bambolona moglie di Basilio, causa della tragedia. Ancora più interessanti sono i due borghesucci protagonisti del racconto che dà il titolo al volume, forse a causa della loro profonda stupidità e ignavia, dei loro caratteri usuali e stereotipati; leggendo questa storia trucida si è indotti a pensare quanto di loro si ritrovi nelle persone che conosciamo, e persino in noi stessi. ‘Il barista’ è un racconto di ordinaria abiezione, con il personaggio del carnefice che raffigura perfettamente una tipologia umana assai diffusa: primaria, elementare, violenta. Basta poco per incocciare in uomini e donne così, basta uscire dalla strada maestra e percorrere luoghi di confine: periferie, bar, borgate. è proprio lì che probabilmente li va a pescare Carraro, come nell’ultimo racconto, ‘L’altalena’, ritratto di una banda di giovani teppisti che si accaniscono contro un’altalena, fino all’autolesionismo. Carraro usa una lingua essenziale, scabra nella sostanza sintattica e lessicale, che tuttavia arrotonda con piccoli tocchi e colpi visivi. Possiede un doppio pedale: la narrazione in prima persona e in terza. Entrambe tendono alla resa cinematografica, fino a sfiorare la sceneggiatura, così che spesso si ha l’impressione di stare seduti davanti al telone di un cinema (c’è Fellini, quello più cinico e amorale in queste storie). Come al cinematografo, nei racconti di Carraro l’immagine è data da un insieme di dettagli, ma ciò che si vede è sempre e solo il fuoco dell’azione. Lo scrittore arreda la pagina di particolari, con misura e precisione: noi corriamo verso la fine come se davvero ci fosse una soluzione. Ma il finale, come il male praticato sugli altri, è già contenuto nelle premesse.

  11. L. Canali – il Giornale

    (…) Carraro resta …stilisticamente, fedele a se stesso. E non solo stilisticamente. I suoi temi restano non direi senza scampo, ma legati a un tragico rasoterra di degradazione umana e ambientale. Qualcuno ha parlato di lui come di un nuovo Pasolini, soggiacendo in tale errata interpretazione all’illusione dell’uso del gergo: in realtà il gergo di Pasolini è compatto, come compatto il ceto sociale dei suoi romanzi, il sottoproletariato urbano, mentre quello di Carraro è variegato, seppur sempre di personaggi e ambienti che vanno, anche per lui, dal lumpen alla microborghesia incarognita nei suoi infimi rituali e nelle sue talvolta criminali ipocrisie: si ha allora il gergo volgare impastato con quello altrettanto repellente e insignificante della cosiddetta televisione spazzatura, con una grande capacità di espressione che ne fa un’arte dello squallore e di una sottintesa denuncia.

  12. R. Minore – Il Messaggero

    I quattro racconti ‘romani’ che Andrea Carraro ha raccolto in LA LUCERTOLA (Rizzoli, 135 pagine, 22.000) si snodano in una periferia percorsa da violenze, drammi, egoismi e meschinità. Nel primo, ‘Il balcone’, Basilio uccide suo fratello Lucio che si fa promotore di un processo sommario ed esagerato a Nora, cognata adultera. Il racconto si ‘svela’ nel momento in cui Nora accusa Lucio di averla corteggiata lui stesso. è a partire da là che la narrazione precipita inevitabilmente. E l’esito più sensualmente tragico è quando Nora viene spogliata e legata sul balcone, svergognata coram populo. Il secondo racconto, ‘La lucertola’, si costruisce in due tempi. Protagonista è una coppia in vacanza sulla Costiera Amalfitana. Paolo e Ludovica, che nel ‘primo tempo’ rischia, a causa dell’egoismo, di vedersi morire la piccola figlia Monica, lasciata da sola nella culla, mentre nel ‘secondo tempo’, non prestando soccorso a un motociclista investito sulla strada che porta a Fregene, si ritrova a festeggiare, dopo aver disdetto una cena, e dopo aver lavato i cerchioni pieni di sangue, uno strano rito dell’egoismo e del sangue sul litorale romano. ‘Il barista’, il più feroce dell’intera raccolta, è la storia di un ragazzo che si ritrova a fare il barista in un povero bar della periferia di Roma e che, più che a un bar, assomiglia a una trincea, a una no man’s land fuori da ogni giurisdizione. La violenza, qui, diviene esercizio quotidiano, metodo, norma. E l’unica cosa che rimane da fare, alfine, è fuggire, lasciare al suo destino Pasquà e il proprietario del bar: due veri e propri criminali di guerra quotidiana. Il quarto racconto, ‘L’altalena’, indica una possibile ‘uscita di sicurezza’ a queste storie senza scampo. Un gruppo di ragazzi di Ostia, che non sa come far passare una vita troppo triste e spacciata, si inventa una roulette russa atipica. Una notte, si lanciano a turno su un’altalena mezza sbullonala, finché uno di loro, Germano, non prende il volo. Sembrerebbe una tragedia, e invece Germano non si fa neanche un graffio e, una volta alzatosi, ‘si avvia zoppicando verso la macchina’.

  13. G. Tesio – ttL Supplemento de La Stampa

    QUARANTADUE anni sono un’età in cui chi sa scrivere sa anche come farlo. Quattro romanzi in dieci anni sono una quantità sostenuta ma non invadente, cui i quattro racconti dell’ultimo libro, LA LUCERTOLA, appena pubblicato da Rizzoli, aggiungono buon peso. Andrea Carraro continua a scavare dentro un mondo di violenza urbana e suburbana ma invece di fermarsi ad un descrittivismo di stampo realista o ad un comportamentismo di superficie affonda il suo scandaglio nelle zone più cupe dell’animo umano da cui gesti e figure affiorano come da pozzi mai del tutto sondati. Si va dalla storia di una famiglia offesa nell’onore a quella di due giovani sposi apparentemente normali, dalla storia di un barista vinto da prepotenza altrui a quella di un gruppo di balordi in preda ai fumi di una notte passata alla brava. Nella prima storia c’è un fratello arrogante e crudo che s’incarica di punire la cognata infedele sostituendosi all’inerzia del fratello. Nella seconda due sposi alla prova di fatti che ne rivelano l’enorme fragilità. Nella terza la frustrazione di un giovane che sogna inutilmente di riscattare un sopruso continuato. Nella quarta quattro ragazzi in branco alle prese con una sfida estrema. In tutte c’è l’assenza più o meno evidente di un principio direttivo di vita e di disciplina mentale. In tutte prevalgono via via il codice del clan, l’indifferenza morale, l’arroganza del più forte, il comportamento sbandato e anche i momenti apparentemente più usuali nascondono ottusità invincibili, latenti mostruosità sordamente covate, che all’improvviso esplodono in comportamenti istintivi e in gesti rivelatori. Non è secondario il fatto che il secondo libro di Carraro, IL BRANCO, sia diventato uno dei film con cui Marco Risi, dopo MERY PER SEMPRE e RAGAZZI FUORI, ha segnato il suo passaggio da un giovanilismo di cassetta e di maniera ad un neo-neorealismo di aspra riflessione sociale. II segno del tragitto compiuto da Carraro è impresso sia nel taglio narrativo, sempre nettamente scandito in scene quasi didascaliche, sia nella scrittura secca e ossuta che si affida a mezzi semplicissimi, ad un linguaggio tutto in levare, appena marcato da qualche tratto di romanesco assimilato ad un italiano privo di scarti e d’estri espressivi. Nelle quattro storie esemplari che prendono il titolo dal secondo racconto, quello articolato quasi come un’idea di romanzo, i personaggi hanno tratti elementari, vivono entro un mondo di riferimenti privi di complessità e di profondità. E anche quando – come appunto nel racconto LA LUCERTOLA – si muovono entro un’idea di benessere levigato, lontana dai mondi subumani del degrado metropolitano in cui gli altri sono per lo più immersi (una megalopoli da Roma ad Ostia, di allusa e ininterrotta marginalità), possono patire gli insulti delle cose ma (quasi) mai quelli della propria coscienza, affidandosi ad un sentire irriflesso, che è già per se stesso una denuncia senza predicazioni. Tanta economia di mezzi può lasciare sconcertati, ma risponde ad una precisa scelta narrativa. Può esporsi ai dubbi di una nuova maniera, ma di certo non manca di lucidità e basterebbe limitarsi a considerare l’ultimo dei quattro racconti, L’ALTALENA, che è poi la storia di una gara estemporanea partorita dai fumi di una notte stonata. Quattro giovani che sembrano imbrancati in una delle tante storie pulp che ci è accaduto di leggere negli ultimi anni, mentre invece tutto vira improvvisamente all’assurdo, alla gratuità invadente e possessiva di una violenza che divora se stessa. Una rischiosa roulette in cui non conta tanto l’intenzione blasfema quanto il vuoto di vita senza vita, degno finale per un libro che ha il merito di spingere il lettore nei suoi risvolti simbolici, sempre un pò oltre, sempre un pò più in là.

  14. G. Conti – Italia Oggi

    Quattro racconti per uno scrittore che finalmente fa un salto di qualità e arriva a pubblicare, dopo non facili approdi, nella collana di Rizzoli Sintonie. Andrea Carraro lo abbiamo conosciuto soprattutto per essere l’autore de IL BRANCO (1994), il libro che ha dato vita al film di Marco Risi, de L’ERBA CATTIVA (1996), LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE (1999) e del primo A DENTI STRETTI (1990). Ora torna in libreria con LA LUCERTOLA senza spostarsi di molto dalla sua poetica di scrittore che insegue la realtà e la rielabora in modo tale da essere quasi sempre sulla cronaca. II primo racconto, IL BALCONE, è la storia di una punizione esemplare da parte di una famiglia nei confronti di una moglie che tradisce il marito. Il cognato la denuda per poi mostrarla al paese, al freddo, legandola al balcone; il secondo, LA LUCERTOLA, che dà il titolo al libro, racconta di due coniugi che, durante una vacanza al mare, abbandonano la figlia in camera per partecipare a uno stupido gioco del villaggio: si scatena così la tragedia con la bambina che cade dal letto e va in coma. L’inverno dopo i due investono un ragazzo in motorino mentre vanno a una festa e non lo soccorrono. IL BARISTA racconta la violenza e le angherie che subisce un giovane apprendista, che ha appena finito il militare, al banco di un bar. L’ALTALENA invece racconta lo stupido gioco di alcuni giovani che tagliano le stanghe di un’altalena e fanno a gara per vedere con chi e quando si romperà. I personaggi e le storie di Carraro sono sempre molto terrene. La speranza di sopravvivenza della figlia del protagonista de LA LUCERTOLA è affidata proprio a quell’animale, se si muoverà o meno mentre lui la fissa immobile sul balcone. La disgrazia, la violenza sono sempre fatti che uniscono le famiglie contrassegnate dal segno del male. Non c’è speranza, non c’è riscatto possibile, non c’è fiducia nel prossimo. La madre di Basilio ritorna affettuosa dopo che egli uccide suo fratello con una fucilata e gli porta rispetto quando ne riconosce la violenza. Un libro estremo. Forse a Carraro manca un certo coraggio dal punto di vista linguistico (la leggibilità è appena colorita da un romanesco leggero), però ha la forza di scatenare nel lettore un senso profondo di antipatia verso i personaggi, protagonisti senza luce di questi racconti, che alla fine sondano una propria moralità. Unico difetto: è un libro un pò gonfiato nel numero di pagine, o forse ci voleva qualche racconto in più.

  15. E. Mirani – Giornale di Brescia

    Una lite familiare nella casa di un sobborgo romano (scatenata da rabbie, gelosie, rancori che esplodono improvvisi) finisce in tragedia; una giovane coppia rompe il suo equilibrio affettivo e relazionale in seguito ad una negligenza che mette in pericolo la figlioletta; un ragazzo, appena assunto barista, subisce le botte di un protervo collega; lo scherzo stupido, autolesionista di una banda di sballati. IL BALCONE, LA LUCERTOLA, IL BARISTA e L’ALTALENA sono i quattro episodi che formano il nuovo libro di Andrea Carraro. Quattro racconti brevi sconcertanti nella loro scarna essenzialità, quattro storie di ordinaria e quotidiana violenza senza possibilità di riscatto. Ordinarie nel senso di comune, normale: per niente confinata in personalità deviate o brutali; capace di insinuarsi nella parte peggiore di noi, latente, una violenza in attesa di esplodere al momento sbagliato, solo che si presenti l’occasione e non siamo in grado di conoscerla e contrastarla. LA LUCERTOLA. dal nome del racconto più bello, arriva dopo A DENTI STRETTI (1990), IL BRANCO (1994, soggetto dell’omonimo film di Marco Risi), L’ERBA CATTIVA (1996), LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE (1999). Anche in questo nuovo libro ricorre il tema della violenza, non l’astratto male della società o della metropoli, ma la violenza nascosta nei luoghi (oppure nelle persone) più impensabili, sicuri, familiari, dove non ci aspetteremmo. La scrittura di Andrea Carraro è asciutta e scabra, non lascia spazio a fantasia, sottintesi, incomprensioni. La lettura va via in un fiato e lascia addosso un’inquietudine da decifrare. I quattro episodi sono minimalisti. Storie semplici, comuni, prese dalla vita di tutti i giorni. Una moglie che tradisce il marito incapace di reagire, un debole che subisce madre e fratello autoincaricatisi in sua vece della vendetta per tutelare l’onore della famiglia; fino alla rivolta inaspettata dell’uomo. E poi il contrastante rapporto di una coppia capace di farsi male fino alle botte, per poi ritrovarsi serenamente complice nel decidere di danneggiare un’altra persona. Ancora, il ruvido barista che cerca, invano, di sottomettere il garzone in una gara fra il diritto del buon senso e quello dell’arroganza. L’ultimo episodio: un gruppo di giovani fatti, impegnati in stupidi e pericolosi giochi per stabilire supremazie interne. Un paio d’ore di lettura intensa, senza staccare gli occhi dalle pagine. Con, alla fine, una sensazione di angoscia.

  16. M. Raffaeli – ALIAS supplemento de il manifesto

    La dittatura della narratività che caratterizza i recenti vent’anni di prosa italiana si esprime in due modi, nel culto della fiction e nel gusto del raccontare per il raccontare. Sono però facce di una identica modalità che rimuove dalla prosa ogni tratto testimoniale e cognitivo, e il fatto che taluni autori abbiano trasformato l’una nell’altra, senza pagare pegno (come nel caso eloquente di Ammaniti), ne è una riprova. Andrea Carraro, romano, classe 1959, firmatario di quattro romanzi (tra cui IL BRANCO, 1994, e LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE, edito da Feltrinelli nel ’99) esprime, tra i pochi, una attitudine diversa, e cioè uno sguardo vitreo, in presa diretta sulle cose e i problemi di oggi, che non teme di apparire fotografico e naturalista. Questa è la caratteristica di Carraro (il quale ha firmato notevoli reportages, su Diario e Unità) ma nello stesso tempo è il suo problema, qualora istantanee e cartoni narrativi rimangano tali, allo stadio del documento, alla fase del magnetofono. È il caso dei quattro racconti di LA LUCERTOLA (Rizzoli, pp. 135, L. 22.000) che, nonostante l’accuratezza editoriale e la magnifica copertina di Lorenzo Mattotti, hanno più l’aria di liquidare una fase (nel senso che sembrano l’appendice di un lavoro già concluso) che non di segnare un punto di avanzamento nella ricerca. Si tratta, ancora una volta, di storie connotate da degrado, violenza, debauche chiuse nei reclusori dell’attuale darwinismo sociale: la coppia, la famiglia ex patriarcale, i non-luoghi del lavoro e del divertimento. Non ci sono eroi, ma individui marginali, perdenti, spesso degli omicidi che simulano inconsciamente atti d’automutilazione e suicidio. Carraro li scruta senza enfasi, negandosi partecipazione emotiva, e nulla gli è infatti più lontano del Pasolini epico delle borgate tante volte evocato (semmai viene in mente il film più esatto e agghiacciante di Ettore Scola, ‘Brutti, sporchi e cattivi’). Così, ad esempio, viene introdotta la scena di un linciaggio: tutti guardano in alto, il balcone illuminato, dove Nora si dimena, urla, piange disperata. Da quando un braccio le è stato liberato, per permetterle di alzarsi e voltarsi verso la platea, cerca invano di affrancarsi dal gioco della corda. A momenti alle sue spalle fanno capolino i tre aguzzini. Ora ghignosi ora isterici e invasati, orchestrano e alimentano gli insulti e le beffe che si levano da ogni parte. Ecco, il problema sta nel fatto che la prolungata ellissi, la traccia dei fatti nudi e crudi (senza mai una digressione o una parte), la meccanica dei dialoghi (senza mai un fuori campo) conducono paradossalmente a quanto essi vorrebbero negare. Cioè, di nuovo, alla fiction, qui lambita nei modi di una scheletrica sceneggiatura, ovvero di un trattamento in cui si alternano le sagome bidimensionali della derelizione e del sottovuoto. Ma forse è un bene che l’autore abbia sentito l’esigenza di traguardare una materia tanto a lungo sua e, come si dice, di liberare i cassetti; forse solo impattando seccamente il proprio limite, ritroverà spessore e direzione il grigio (autentico, onesto) della prosa di Andrea Carraro.

  17. M. Mondo – Avvenire

    Non c’è salvezza per l’umanità meschina, violenta, che Andrea Carraro scolpisce, con impietosa e lucida crudezza, nei racconti fulminanti de LA LUCERTOLA (Rizzoli, 22.000 lire). parabole in cui il male quotidiano aggravato dall’insensatezza, dal vuoto di un vivere senza affetti e senza ideali, si fa tragedia e orrore. Senza catarsi possibile, se tutto va avanti come prima, se neppure l’acme drammatico fa emergere ripensamenti, pentimento, dolore vero dell’anima. Storie di ordinaria e cosciente follia, che ci interrogano con inquietudine, perché potremmo esserne protagonisti, o testimoni, e non solo come lettori delle pagine di cronaca nera. Un tradimento, e la donna colpevole diventa vittima sacrificata all’onore della famiglia, oggetto di una malvagità brutale, che sfoga le menzogne e gli istinti peggiori di legami forzati, incupiti dall’abitudine e dal dispetto: è il marito tradito a vendicarla, con un assassinio che sfoga la paura, la sottomissione al fratello aguzzino (IL BALCONE). Una coppia normale, i genitori della piccola Monica, annoiati, astiosi, istupiditi da modelli di comportamento frivoli e soffocanti: non volevano lasciare la piccola incustodita, non si capacitano dell’incidente che poteva costarle la vita. Il suo filo sottile è appeso al caso, alla scommessa sul muoversi o no di una lucertola che il padre, inebetito, fissa immobile per un tempo eterno, sperando nel prodigio. Ma è solo superstizione, un salto nel vuoto della casualità. E infatti il senso della colpa non servirà a cambiare padre e madre, a farne una famiglia più unita. Il racconto (LA LUCERTOLA), forse il più bello del libro, continua. E li ritroviamo in viaggio verso una festa serale, ancora più odiosi e capaci di odiare. La rabbia spinge il pedale dell’acceleratore, acceca la vista, e un ragazzo in motorino vola come un fantoccio sul cofano, si schianta, è perduto. La cronaca insegna come procedere, e il racconto la anticipa, quasi una profezia. I due fuggono, puliscono affannosamente la macchina dal sangue, si ritrovano a mangiare pasticcini in riva al mare sollevati per lo scampato pericolo. Nulla ancora è cambiato. Nulla cambierà, nel tran-tran di droga, bullismo, sfide insensate dei ragazzi de L’ALTALENA, neppure dopo il rischio mortale. Nulla cambia nel ragazzo istruito, borghese, di fronte allo squallore, alla prepotenza sordida che subisce nel bar in cui si trova a lavorare (IL BARISTA). Cambiamo noi, pagina dopo pagina, feriti, storditi da tanta stupidità e cattiveria. Schiaffeggiati quasi dalla violenza verbale, esaltata dai dialoghi in presa diretta, dall’oscenità di una lingua che è specchio di una ben più grave sconcezza ulteriore. Carraro ha uno stile rapido, scabro, la capacità non usuale di ricreare con tratti essenziali ambienti, di creare paesaggi reali e interiori. Non cercate consolazione, salvezza, strade maestre per uscire dal gorgo: sono tutte nell’urlo, sincero, che con la parola riga dopo riga lo scrittore ripete. Guardiamo in faccia questa immagine di uomo, così reale, così vicina: o l’Apocalisse, per un mondo così, o la ricerca di un senso alla vita, di un perdono, di un altro destino.

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