Il gioco della verità

In questa corposa raccolta di racconti, Carraro prosegue il suo cupo affresco della piccola-borghesia romana; e lo fa con il suo consueto realismo. L’autore dà voce in maniera così mimetica al malessere della Roma periferica, ormai emancipata dalla condizione borgatara, ma nuovamente invischiata nei guasti e nelle “torture” di un benessere che in realtà è solo malessere. I personaggi di Carraro sono sempre sull’orlo del baratro; e sono violenti per troppa timidezza, o per un’incredibile incapacità di adattarsi alla realtà. Pure, i personaggi di Carraro sono divorati dal demone del disamore. Ne emerge una Roma mai compiaciuta o cartolinesca; ma tanto più indimenticabile quanto più è “discenditiva”, perché il quotidiano che Carraro racconta è spesso infernale.

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Recensioni

  1. A. Caterini – Immaginazione

    Ciò che stupisce fin da subito nell’ultimo libro di Andrea Carraro, Il gioco della verità (Hacca edizioni), è il dettato del punto di vista del narratore. Quella di Carraro non è una lingua partecipe, coinvolta negli episodi che di volta in volta si trova a raccontare, piuttosto si caratterizza nel suo contrario, una terza persona immobile che rispecchia la fissità ipnotica dello sguardo. Tutti i racconti di questa raccolta hanno proprio tale fissità come fil rouge, perché il punto di vista di chi narra mette in scena un’impossibilità di giudizio. Ciò che l’autore fa è nient’altro che raccontare, quindi vedere, senza mai dirci da quale parte verte il suo giudizio. Carraro non prevede moralismi, perché raccontare la cattività del mondo equivale per lui a raccontare il mondo stesso. Basta leggere il racconto La mano di Dio per rendersene conto. Una coppia di sposi annoiata e stanca di passare la vita insieme, ritrova l’amore attraverso un delitto. Escono con la macchina per comprare un gelato e gli capita di investire sfortunatamente un uomo che però lasciano lì, steso nella solitudine dell’asfalto. Nella paura di averlo ucciso – senza però tornare indietro per accertarsi delle condizioni della vittima e tentare almeno di soccorrerlo – i due si ritrovano uniti e innamorati come non gli succedeva da tempo. Carraro interrompe qui il suo racconto, lasciando che tra l’evento e il giudizio di chi l’osserva non ci siano spazi dentro i quali una possibile morale possa insinuarsi. Azione e racconto tentano di coincidere attraverso un lavoro di sottrazione linguistica. Le frasi si scarnificano al punto che Carraro sembra voler interpretare la lezione del reticolato linguistico proposto in filosofia da Wittgenstein negli anni Venti del secolo scorso. Una proposizione in grado di dire il mondo. Voglio dire che proprio mettendosi in una posizione per così dire acritica, Carraro riesce a rappresentare la tensione di cui la realtà si nutre. La tensione è in primo luogo dei rapporti. Ogni personaggio dei racconti vive in tensione con gli altri, perché ne vive in primo luogo una con se stesso. Allora occorre capire se la volontà di Carraro si limita a voler rappresentare quel male oscuro che è della piccola borghesia (quella specifica società a cui Carraro pone la sua maggiore attenzione come nutrimento della propria poetica, come ispiratrice di tutte le sue storie), o se invece il male non è il fine della rappresentazione ma la realtà stessa per come è nel suo profondo scalpitare oltre le leggi dell’apparenza. Insomma, Carraro ci fa partecipi di un dubbio, perché anche noi messi come e attraverso lui fuori dell’episodio che egli immagina e vede. Mentre leggevo mi è capitato di pensare ai Demoni di Dostoevskij e in particolar modo a quel personaggio cardine dell’opera dello scrittore russo. Stravrogin è un principe o un uomo terribilmente malato della propria ossessione, del proprio cinismo, della propria malvagità? Ecco, se abbiamo un dubbio sulla natura di quel personaggio, se insomma non sappiamo scegliere cos’è che davvero lo specifica (il suo mettersi al principio di ogni cosa, o dalla parte opposta), è perché Dostoevskij ci ha lasciato intendere che era proprio quello il dubbio che si era impossessato di lui mentre lo ritraeva. Avere un dubbio sulla natura di una persona permette di avvicinarsi a questa nel tentativo di conoscerla a fondo, di averne pietà. Ecco, la pietà che Carraro ha nei confronti dei suoi personaggi è vera (e sta tutta qui la verità del titolo) perché il dubbio se questi vivano il male con coscienza o con abnegazione ha trovato corrispondenza in lui. Come nel racconto La nonna morta, dove un anziano signore, alla morte della moglie, si convince che sia giusto che tocchi anche a lui andarsene; anzi, che sarà la stessa moglie a portarlo via con lei. Costringe così il nipote che era già in casa con lui a non avvertire nessuno – non ancora almeno. E alla fine in un modo o nell’altro muore anche lui, credendo che il lancio dalla ringhiera d’un balcone sia il modo migliore per risalire, inghiottito nel vuoto del suo stesso dolore. Il vecchio muore avendo visto dov’era la crepa di quel dubbio. Così Carraro ha messo anche noi nel dubbio che vedere significa pure che quella particolare tensione appartiene a noi tutti e che è questo e non altro la prova della nostra esistenza, la conseguenza e la risposta al nostro vivere.

  2. B. Ferrucci – mangialibri.com

    Ci sono storie di solitudine che puoi sconfiggere anche guardando il calcio in tv in compagnia di una prostituta, e storie di morte che irrompe nel bagno di una camerata militare per un’overdose o in mezzo alla folla che riempie gli autobus. Ci sono racconti di alienazione, di frustrazione, di morbosi contesti familiari: la madre che sfoga tutta la sua ira sulla incolpevole figlia perché non ha vinto il concorso canoro di Torvaianica. Il nonno che costringe il piccolo nipote di 5 anni a vegliare il cadavere della moglie per giorni, senza avvertire nessuno. E c’è, o sarebbe meglio dire ‘torna’, il tema della violenza del branco… Torna perché Andrea Carraro è lo scrittore romano che molti ricorderanno come l’autore di un romanzo (Il branco, appunto) da cui è stato tratto l’omonimo film del regista Marco Risi. E qui affida a queste sedici storie un compito non facile: raccontare la zona oscura che alberga nella vita delle persone. Soprattutto se adulte. Soprattutto se piccolo borghesi. E non è un caso che il titolo della raccolta sia Il gioco della verità. perché quello ispirato a questo gioco è uno dei racconti più riusciti dell’intera raccolta, quello in cui il precario equilibrio su cui si regge un annoiato gruppo di amici, condito di ipocrisie e finti sorrisi pieni di gengive, si sgretola all’improvviso sotto le domande di questo stupido e pruriginoso gioco (e alzi la mano chi non ne è stato vittima almeno una volta nella vita). Carraro ha una penna lucida, nitida. Mette a fuoco personaggi e situazioni con pochi tocchi. Peccato che in qualche caso questo si traduca nella sensazione che ci sia dell’incompiuto (come nel racconto ‘Steccò) e che il tentativo di far assurgere a condizione universale la particolare realtà dei quartieri romani cada spesso nel vuoto, senza appigli, nella più classica delle tradizioni nichiliste.

  3. A. Chiavarone – ilrecensore.com

    Altra ottima prova per Andrea Carraro che con ‘Il gioco della verità’ (Hacca, 2009) elabora una raccolta di racconti che, intersecandosi tra loro, riescono a mettere a nudo alcuni aspetti dell’animo umano. Con un ritmo serrato e crudo, al tempo stesso iperrealista nei particolari e asciutto nell’essenza, lo scrittore ci conduce per mano davanti al male. Ma non è il male con l’iniziale maiuscola bensì quello quotidiano, insito nei nostri corpi e nelle nostre coscienze. Personaggi e storie sono violenti ma di una violenza che non è mai ‘orrorifica’ o adornata di effetti scenici prontamente splatter. C’è semmai del ‘pestifero’ nel senso di un germe invisibile e impalpabile capace di penetrare con estrema facilità nei nostri ‘Iò anche quando sono diversissimi tra loro. Un male oscuro quindi che trova la sua rappresentazione in piccole malignità, incomprensioni sociali, comportamenti incomprensibili e feroci, incapacità di dialogo, lento logoramento della fiducia verso se stessi e verso il mondo circostante. In questo gioco al massacro viene messa sotto scacco la piccola borghesia, colpevole di non riuscire a creare nuovi valori e nuove strutture ad una società che si evolve alle loro spalle. Cercare di dare nuove fondamenta a ciò che è stato destrutturalizzato in un insieme di parvenze e ritualità di costume ormai depauperate dalla loro essenza iniziale. Muoversi su questa linea non è affatto facile, si rischia un banale nichilismo vuoto a se stesso, ma Andrea Carraro è bravo a giocare tra le linee, dettare ritmi, disegnare luoghi e persone. In tutti i racconti vige la regola del silenzio, laddove viene rielaborata o soverchiata c’è una rottura ancora più definitiva e totale. ‘Il gioco della verità’ messo in campo nel frammento omonimo è il crollo finale, l’annientamento delle maschere e la vittoria del germe che si allarga ad una velocità anche fin troppo inarrestabile. Una metastasi incurabile che sbatte sulla realtà o sulle mille realtà che si possono creare, vivere, annientare. Verità e finzione, essenza e parvenza, si sovrappongono, si respingono, si avvicinano nuovamente e si annientano come in un’esplosione primordiale ed irreparabile.

  4. V. Pardini – Quotidiano Nazionale

    Andrea Carraro è uno di quelli scrittori che sa leggere nel futuro. Esordì nel 1994 con il romanzo Il branco: storia di un gruppo di ragazzi che perpetrano uno stupro non lontano da Roma ai danni di due turiste straniere. Il testo suscitò scalpore. Sembrava fosse troppo violento. Era, invece, soltanto lungimirante. Oggi, quello che lui raccontò, avviene sin troppo spesso, e con epiloghi talvolta tragici. Prima di essere pubblicato da Theoria venne ospitato per intero, unico caso dopo Le parrocchie di Regalpetra di Leonardo Sciascia, sulla rivista. Enzo Siciliano credette subito in Carraro, che segnalò anche a me. Tanto che lo recensii su questo giornale. Alla Stregua di Sandro Veronesi e Aurelio Picca, ho veduto crescere questo scrittore, le cui prove sono sempre convincenti. Adesso è di recente tornato in libreria con una raccolta di racconti: Il gioco della verità (Hacca Edizioni). Carraro, alla stregua di Moravia, Pasolini, Elsa Morante racconta la borghesia di Roma, ma non quella che fu, ma quella che è. Il suo sguardo è analitico e impietoso. Ciò che si svolge in questi racconti, di per sé brevi e scritti con un linguaggio chiaro e robusto, sono vicende di persone insoddisfatte, deluse, che trattengono a stento angosce e frustrazioni, sovente pervasi da stati d’animo freddi. Persone che cercano sentimenti perduti, ma che sanno di non poter ritrovare. perché la vita cambia, a cominciare proprio dai sentimenti e dalle emozioni, quasi mai in meglio, ma in peggio. Carraro, forse senza rendersene conto, in questo libro è cronista di stati d’animo. I suoi personaggi sono, infatti, ripresi nella loro interiorità. Perfino la giovane prostituta di colore, che un io narrante porta in casa prendendola dalla strada, racconta poco del suo corpo e molto dei suoi stati psicologici. Carraro ha spinto molto a fondo il pedale dell’introspezione alla ricerca di quelle ossessioni e di quelle oscurità che avvolgono e sconvolgono l’inconscio. I suoi racconti non sono favole. Sono referti di una società sofferente alla ricerca di qualcosa che possa ridarle un barlume di speranza. Il gioco della verità, appunto. Non solo la sua, ma anche la nostra.

  5. G. Ferroni – L’Unità

    Non solo best-seller. L’editoria esplora di nuovo un genere alto nella nostra tradizione 2008-2009. Da Vassalli a Carraro alle raccolte collettive ecco come esso sa fotografare l’oggi. Intanto merita particolare attenzione un libro di racconti di Andrea Carraro, Il gioco della verità (Hacca editore): frammenti della Roma di oggi, di una Roma che non ha nulla di colorato e splendente, ma è come sommersa da una cappa di grigia ostilità e indifferenza, dove tutto ciò che succede è segnato da una sorda estraneità, dove ciascuno è concentrato dentro di sé, senza mai cercare di confrontarsi col mondo e con gli altri: e ciò può avere esiti diversi ed opposti, dalla violenza più torva, al rifiuto di vedere la sofferenza altrui, alle proiezioni sugli altri dei propri desideri e dei propri appetiti, al sentimentalismo più superficiale, alle ostinazioni insensate con cui si reagisce ad eventi imprevisti, alla cieca subalternità a quello che viene proposto dai più manipolatori. Carraro ci mostra come il tempo della comunicazione si risolva paradossalmente nel risolversi di ogni rapporto tra gli esseri umani in estraneità disgregante (ben peggiore dell’incomunicabilità di tempi andati): e ne rende conto in un linguaggio che nega recisamente ogni ‘aura’ e ogni compiacimento: davvero grado zero della lingua. COME ‘BELLISSIMA’. Ricordo soltanto il tremendo ‘La madre’, dramma della sciocchezza di una donna che conduce la figlia a Torvaianica ad una selezione per piccole cantanti: crudele come la Bellissima di Visconti, ma senza catarsi, può essere preso come emblema di questa Italia, il cui il supremo comunicatore in questi giorni ci invita (per uscire dalla crisi) a ‘riprendere le nostre abitudini di vita e di consumo il più presto possibile.

  6. D. Matronola – daltramontoallalba.blog.kataweb.it

    Ho letto in questi giorni i racconti di Andrea Carraro: avevo il libro, Il Gioco della Verità (Hacca Edizioni), con me nel Cilento, e l’ho letto in parte sulla spiaggia tra un bagno e l’altro, e in massima parte sulla terrazza spalancata sul parco e sul mare. Se deciderete dopo questo articoletto di leggere il libro (cosa che mi auguro, non per vantarmi d’avervi convinti ma per la giusta considerazione che merita lo sguardo di Carraro sul mondo, sulla gente, su quello che siamo, e senza infingimenti), vi renderete conto che tutto è meno che un libro da spiaggia, o da mare, o da vacanza: non è uno di quei tomi che tutt’al più causano qualche trasalimento calcolato nelle anime belle o gentili o ben educate o sverniciate di buone maniere, di sapienza sociale. Se lo leggerete scegliendo di calarvi nella verità, di contemplare il quadro del nostro mondo senza velature cosmetiche, forse vi accadrà quello che è successo a me: non riuscirete a staccarvene e andrete di corsa in fondo. Qualche volta avendo seria difficoltà a trattenere la nausea: tranquilli e tranquille, non perché siete ‘signorinelle’, ma perché il libro talvolta insiste sul sistema neurovegetativo sfottendo il vago e producendo effetti emetici degni dell’assunzione immediata di un Plasil (se riesco a spiegarmi). Lo dico come fatto positivo, come merito del libro, spero si sia capito, cioè come enunciazione di stima verso la potenza cauta ma ferma di queste storie. E soprattutto per apprezzamento ammirato dello stile di Carraro. Della sua lingua. Della sua regia sulla pagina. Del suo governo sull’affresco che lentamente compone. Sullo stile. Andrea Carraro ha sostanzialmente risolto un problema, annoso per gli scrittori: gli inizi e le fini – li ha aboliti. è evidente che non gl’importa di farci entrare dalla porta e uscire dalla finestra, né di farci entrare dalla finestra e uscire dalla porta. Noi non entriamo e non usciamo – stiamo dentro. Occhiamo nelle case, nei nuclei familiari, nelle liti, nei legami, nei viluppi del quotidiano di gente che è come noi. O non è così diversa da noi, nella sua malvagità, perversione, latenza delinquenziale, da non poterci dire, noi, simili a loro. Diversi, noi, solo perché forse non abbiamo commesso le pazzesche miserabilità che Carraro riesce a riconoscere a questi personaggi non dico come diritto d’errore ma come esito di un destino incontrollabile, perlomeno non controllato abbastanza da non ferirli, se non annientarli in alcuni casi. Sulla lingua. Del resto anche la lingua, spesso sporcata dalle vive voci di quella parlata centrale spuria, indefinibile culturalmente (confermando l’analisi pasoliniana già agli albori del processo antropologico nel secondo dopoguerra), frutto del consumismo generalista che ci ha educati nei decenni non ad acquisire proprietà ma a consumare appropriazioni, la lingua dicevo, di questi racconti di Andrea Carraro, è una lingua che non indulge in preliminari, non prova a addolcirsi, non cerca nessuna cosmesi, nessun editing di media etas editoriale – è una lingua già ‘centrale’, e in questo senso decisamente centrata sui propri oggetti narrativi. Sulla regia della pagina. è questa congiura a complottare in favore del controllo da parte di Andrea Carraro sulla propria pagina narrativa, è questa convergenza di centralità narrativa e centratura del linguaggio a situare il racconto di queste storie in una zona a sua volta cruciale, esattamente nel punto di crisi, accelerato con meccanismo inclemente, in cui ci ritroviamo impelagati nel ‘drammà senza preavviso e senza spiragli d’uscita, senza speranza d’escamotage. Ci troviamo già da subito sprofondati, con questi poveri cristi, direttamente ‘in medias res’, come già accadeva, in modo ben più inesorabile e pesante dunque mirabilmente letterario, in quello che penso sia il capolavoro di Andrea Carraro: il romanzo breve ‘La Baraccà (poi anche per il film che ne realizzò Marco Risi ribattezzato Il Branco e con quel titolo sempre poi ripubblicato) che apparve in un numero del 1994 di Nuovi Argomenti (la rivista fondata negli anni Cinquanta da Alberto Moravia con l’amico Alberto Carocci) monopolizzandone completamente lo spazio, salvo le rubriche iniziali di Enzo Siciliano, e giustamente segnata da una copertina nera. ‘Sul governo dell’affresco che lentamente si compone. In più, con tecnica migratoria che potremmo paragonare al trascinamento del puntatore del mouse su una pagina web, Andrea Carraro lascia trasmigrare alcuni personaggi di questo suo fosco affresco da un racconto a un altro, in modo irregolare, con atteggiamento ‘random’ e decisamente, parrebbe, casuale, giusto per suggerirci l’idea, senza che ne guadagnamo una rassicurante certezza, che queste storie qui assemblate non sono accostate del tutto a casaccio tra loro, ma i cristi che vi brancolano galleggiano in uno stesso infernale pentolone che è poi la loro plurale vita, accomunati da un maledetto appuntamento con la sorte. Un carosello di disastri che vediamo quando già la diligenza è partita e sta già correndo all’impazzata trascinandoseli in una precipitazione che non lascia né a noi né a loro alcun modo di poter prender fiato. E, così stando le cose, ci rendiamo conto che nelle frazioni narrative di questo libro nulla finisce, semmai tutto a un certo punto smette.

  7. E. Buonanno – Il Riformista

    Parafrasando un vecchio adagio, potremmo dire che la verità non è né buona né cattiva: è crudele. è una frattura, uno strappo, uno squarcio, dolorosissimo e spietato come lo è ogni liberazione. Eppure, qualunque sia il suo effetto, qualunque stato si raggiunga, nessuno è disposto a farne a meno. La verità è un valore crudo che tenta e respinge e vince sempre. Andrea Carraro la insegue da anni, e col suo stile asciutto e poetico, ce ne ha dato esempio in libri ormai classici come ‘Il branco’. Oggi ritorna per le edizioni Hacca con una raccolta di racconti dal titolo esplicito, ‘Il gioco della verità’, in cui si esercita ad aprire finestre, quasi casuali ed improvvise, su ferocissime meschinità quotidiane. Sono racconti che stupiscono, spiazzano, sicuramente vanno a fondo, perché molto spesso del racconto scardinano la struttura stessa. Sono istantanee colte ex abrupto su personaggi che non conosciamo – ma che possiamo riconoscere per la loro tipicità – e che non necessariamente arriveranno ad un momento topico, ad un finale esemplare. Semplicemente, Carraro li osserva col diaframma aperto, perlopiù neutrale, senza mai eccedere in giudizi, e tanto basta per fornirci un campione rivelatore di una grottesca deriva umana. Il risultato è un libro anomalo, quasi incapace di lasciarci indifferenti. Solo al finale di ogni scena capiamo il senso di voragine che ci accompagna sottotraccia: ciò a cui davvero abbiamo assistito è un nuovo, autentico, feroce e salvifico teatro della crudeltà.

  8. N. Festa – kultvirtualpress.com

    Andrea Carraro, con ‘Il gioco della verità’, raccolta di racconti che molto ricorda il miglior Carver, è stato capace di dire degli aspetti più atroci dell’animo umano. Il ‘male di una maturità frustrata e disamorata’, ha giustamente scritto Andrea Di Consoli. Dove la violenza della piccola-borghesia italiana è trasporta in vicende esemplari. Carraro (classe ’59), va ricordato per chi ancora non lo sapesse, è l’autore di ‘A denti strettì, ‘Il branco’, ‘L’erba cattiva’, ‘La ragione del più forte’, ‘La lucertola’, ‘Non c’è più tempo’, ‘Il sorcio’; collabora, il miglior scrittore italiano di racconti, pure con ‘Il Messaggerò e ‘la Repubblica’. Sono racconti in grado di farci guardare a tutto ciò che sta distruggendo valori e morali. Nelle vicende e, ovviamente, durante le mosse dei personaggi ‘esemplari’ si deve stare attenti a quel grado di ferocia latente e sconvolgente di cui il presente è testimone e portare. In una delle prove, per esempio, ci s’imbatte nella potente indifferenza d’una morte lasciata morire in un bus zeppo di corpicini. Il realismo di Carraro, è stato anche detto, può essere visto come estremo e freddo, carico di pessimismo. Inoltre, però, questo realismo scelto dal grande scrittore romano cammina nelle solitudini che questa società si lascia camminare dentro. Ci sarà mai soluzione? Intanto, Andrea Carraro ha scritto ancora racconti che vanno letti con attenzione, perché – per certi aspetti – sono proprietà stessa delle nostre vite. I branchi di cattiveria che scalpitano (nonostante le repressioni) nelle trame sono urla di dolore d’una fetta di mondo. Carraro è il maestro che traduce in narrativa una parte delle sostanze non organiche di porzioni d’umanità. La piccola-borghesia italiota potrebbe guardarsi allo specchio. Vecchi e giovani di questo strato sociale dovrebbero farlo…

  9. R. Fabiani – Il Messaggero

    La grata di un tombino con la scritta SPQR, è la copertina in bianco e nero del nuovo libro di racconti di Andrea Carraro: Il gioco della verità, per i tipi della Hacca Edizioni di Macerata guidata da Andrea Di Consoli (215 pagine, 14 euro). La neo-opera è stata presentata alla Libreria Rinascita, al quartiere Ostiense, davanti a un pubblico attento alle parole dei critici Filippo La Porta, Paolo di Paolo, Andrea Di Consoli e dello stesso autore, considerato uno dei maggiori scrittori contemporanei. Sedici storie che raccontano ‘la piccola borghesia italiana, incarcerata in reticenze e rabbie covate troppo a lungo – dice Andrea Di Consoli – a questo si sono ridotti i borgatari di Pasolini e i borghesi di Moravia’. Filippo La Porta descrive lo stile di Carraro: ‘è uno scrittore anti-spettacolare, con una lingua casta ed essenziale. I protagonisti di Andrea Carraro hanno la cattiveria tipica del piccolo borghese impotente, velleitario e rancoroso descritto da Moravia, Pirandello e Svevo. In più, Carraro aggiunge la mollezza. La sua cattiveria nello sguardo è pari alla profonda pietà che l’autore prova per la condizione naturale che è fatta di fallimento’. Affonda nell’intimo Paolo di Paolo: ‘La sua lingua è scheletrica, disseccata. I suoi racconti sono come una lastra attraversata da un bagliore di luce’. ‘Il mio stile – chiosa lo scrittore – non mi fa indulgere all’autocompiacimento pulp. Ho un forte senso etico della lingua che si traduce in sottrazione. Non voglio far vedere il male. C’è più bellezza nel mistero’.

  10. A. Debenedetti – Il Corriere della Sera

    Questi sedici racconti, ingiustamente trascurati dalla critica, trasportano il lettore in un oggi che è già un pò un oscuro domani. Nella Roma di Andrea Carraro – ecco il motivo d’inquietante interesse d’un libro quale Il gioco della verità (Hacca editore, pp. 214, euro 14) – un’onda nichilista sembra aver travolto ogni legge morale. Come altro spiegare la condotta del nonno che, con tenerezza e depravazione, nelle pagine di ‘Margherita’, approfitta della nipote tredicenne? C’è, nei personaggi più riusciti di Carraro, una latente ferocia. Così, a pagina 35, un poveraccio muore sull’autobus nella totale indifferenza degli altri passeggeri. La cupa solitudine d’un impiegato, a apertura di libro, si confronta con la disperazione d’una attizzante prostituta di colore mentre guardano una partita alla tivù. Materia di altri racconti sono uno stupro di gruppo o il suicidio d’un vedovo nel giorno di San Valentino. Il realismo di Carraro è estremo ma insieme freddo, il suo pessimismo di una angosciante attualità.

  11. F. Piemontese – Il Mattino

    Fin dai suoi primi libri – tra gli altri Il branco, pubblicato nel 1994 e da cui Marco Risi ha tratto un film di successo – Andrea Carraro si è mostrato attentissimo alle realtà anche più sgradevoli e nascoste della sua città, Roma, senza mai indulgere, peraltro, alle suggestioni pulp e agli effetti speciali. Il suo ultimo libro, intitolato Il gioco della verità (Hacca, pagg. 216, euro 14) conferma in pieno la capacità dello scrittore di affondare il bisturi in quella zona grigia della società dove si annidano malesseri, odi, disagio, viltà, meschinerie che raramente vengono alla luce. Si tratta di un libro di racconti, alcuni molto brevi, altri di più ampio respiro, ambientati tutti nella piccola borghesia romana, quella che, tanti secoli fa, sembrerebbe, trovò in Alberto Moravia un interprete partecipe e insieme impietoso. Ma ne è passata di acqua sotto i ponti, da allora. E i personaggi che si susseguono in queste pagine hanno assai poco da spartire – se non, in certa misura, la condizione sociale – con quelli moraviani. è un mondo, quello di Carraro, fatto di squallore, di mediocrità, di assoluta mancanza di ideali, sostituiti da un cinismo tanto più miserevole in quanto commisurato alla mancanza di ambizioni, al nullismo di quasi tutti i personaggi. Così Ludovica e Gregorio, coppia di sposi in crisi e vicendevolmente infedeli, investono un uomo in motorino dopo aver partecipato a una festa, non si fermano a soccorrerlo, si preoccupano soprattutto della botta presa dall’auto, e approfittano della circostanza per avere un frettoloso rapporto sessuale, per la prima volta dopo due anni. Walter, marito separato, porta al mare il figlioletto e, mentre nuotano, trovano in acqua il corpo di una donna da cui si allontanano senza nemmeno fermarsi a vedere se per caso è ancora viva. Lory accompagna la figlia tredicenne a un concorso per voci nuove ed è talmente furiosa per la cattiva riuscita dell’esibizione da colpire selvaggiamente la ragazzina, che tenterà di annegarsi per il dispiacere. Insomma, un degrado civile e umano di dimensioni agghiaccianti, che rappresenta il (provvisorio) punto d’arrivo del processo che si è svolto sotto occhi sbigottiti o distratti all’incirca negli ultimi venti anni. Raffigurato non sociologicamente, ma con lo scandaglio psicologico di chi non ha rinunciato a vedere cosa c’è dietro la superficie luccicante delle merci, e una lingua ‘grigia e solida come il ferrò (così la definisce Andrea Di Consoli nel risvolto di copertina), impietosa e crudele, ma anche capace in due o tre occasioni di aprirsi a un barlume di luce, a un inatteso moto di pietà.

  12. L’arcilettore

    È difficile che un’antologia di racconti, anche se tutti scritti dal medesimo autore, abbia una così forte unitarietà stilistica e di contenuti, tanto da apparire quasi un romanzo formato da tante scene diverse. Il centro del lavoro creativo di Carraro è il vacuum di sentimenti, di sensibilità al dolore che contraddistingue questo nostro tempo. Ogni capitolo contiene quasi sempre una narrazione della morte che diventa lo stimolo per esaltare comportamenti mai uguali fra loro. In uno dei racconti che, almeno per me, ha maggiore fascino è quello della morte della nonna. Il suo decesso, per niente drammatico, avviene in presenza del nipote che non rimane affatto spaventato dall’incontro con questo evento. Razionalmente, egli vorrebbe chiamare qualcuno, ma il nonno glielo impedisce. Nel vecchio, infatti, gioca l’insorgere di una irrazionalità che è figlia della sua paura di rimanere solo, come il cane che i padroni hanno abbandonato e che è stato il discorso che negli ultimi tempi i due vecchi hanno continuato a ripetersi. La paura della solitudine fa nascere nel nonno la convinzione che i morti si fermino per un certo tempo dove è avvenuta la loro morte in attesa di qualcuno che li porti via, e ora lo sostiene la certezza che la moglie convincerà questi spiriti a portare via anche lui. Di fronte alla perdita di senno del nonno e alla morte della nonna, il nipote non resta per nulla impressionato. L’unica osservazione che rivolge al nonno è che deve sbrigarsi ad andarsene, magari aiutandosi con qualche veleno, perché altrimenti i moscerini si porteranno via la nonna. E mentre la tragedia avanza, lui si prepara un panino e poi va a dormire. In questa condizione di assurda attesa passano giorni, senza che accada nulla. Solo l’odore nauseabondo della decomposizione del corpo dell’anziana signora porterà i vicini a chiamare qualcuno. è così, anche nelle altre novelle, che l’autore mette in evidenza la nostra indifferenza di fronte al dolore e alla morte. Una narrazione che è rafforzata da un uso del linguaggio che nella sua apparenza piattezza, diventa la sottolineatura più forte dell’idea centrale dell’autore. Ci si accorge così di aver letto un libro forte, incisivo, stimolante che il lettore apprezzerà sicuramente.

  13. M. Onofri – Avvenire

    Il gioco della verità, che dà il titolo a questa notevole raccolta di Andrea Carraro, è quello che anima il racconto ‘Vent’anni di menò (il più lungo di sedici, ma dopo ‘L’inaugurazione’), fino a sconvolgere la vita di una non più giovane e ordinaria coppia borghese romana, invitata, come da routine, a una festa in casa di amici. Le regole del gioco sono note: una poltrona da cui, a turno, si risponderà alle sempre più imbarazzanti domande di tutti gli altri, per sottoporsi poi, quanto alla veridicità delle proprie affermazioni, a un giudizio di condanna o assoluzione. Il gioco fungerà alla fine da detonatore, nella rivelazione inaspettata d’un adulterio in corso, scardinando, con le sue impronunciabili verità, l’inautentico – una volta si sarebbe detto alienato – rapporto che, da sempre, lega questi amici tra di loro. Carraro è implacabile nell’incalzare il male nostro contemporaneo, la sua banalità, che si declina nell’insensibilità, nella sciatteria e nella bruttezza, nel conformismo e nell’ordinaria vigliaccheria, nella triste ritualità di abitudini quotidiane replicate per inerzia, nel disamore che divampa lento dalle ceneri di morti sentimenti, nel dolore atono e autodistruttivo della solitudine, nell’aggressività che esplode rabbiosa e improvvisa in una violenza immane. Può essere l’indifferenza appena allarmata di chi, su un autobus affollato di folla altrettanto indifferente, non s’azzarda a segnalare, per paura d’arrivare tardi al lavoro, la presenza d’un viaggiatore che sta molto male, se non è addirittura morto (Il berretto). Può trattarsi dell’apatia arresa d’un impiegato di concetto che si porta a casa la prostituta di colore per vedersi, insieme a lei, Italia-Turchia (La partita). Può irradiarsi, quel male, nel cinismo con cui un giornalista da tre soldi inganna un vecchio amico ormai tossico per intervistarlo e farlo fotografare (L’intervista). Può implodere in una morte per overdose durante il servizio militare (Il muro di Guido). Può consistere nell’egoismo brutale e nell’indifferentismo d’un ragazzo viziato, che offre ai suoi ricchi amici il corpo della sua fidanzata, per violentarla insieme a loro (Dopocena). Carraro, ripeto, è implacabile e crudele nell’incalzare il male, nel restituircene il nudo e impassibile referto: che è poi l’unico suo modo per conquistare la pietà, per salvare quel poco d’integra umanità che ancora resta anche in chi ha agito nel modo più efferato, come il nonno pedofilo che, denunciato dalla nipote, accoglie da lei la notizia come una liberazione, persino confortandola (Margherita). Ne sono sicuro. Se volessimo, in un futuro magari lontano, cercare di capire quel che è accaduto in questo nostro Paese moralmente allo stremo, la sua catastrofe antropologica, è anche a libri come questo di Carraro che dovremo far riferimento. Nel 1976, Vincenzo Cerami decretava, col suo Borghese piccolo piccolo, la morte del ‘popolò: incenerendo per sempre quell’utopia che il Pratolini fiorentino e il Pasolini borgataro avevano tenuta accesa per almeno tutti gli anni ’50. Da allora in poi sarebbe iniziata la marcia fragorosa e sgargiante della ‘gente’. Del ‘brancò. Carraro ne è stato e continua ad esserne lo scrittore.

  14. A. Siracusano – Il Sottoscritto

    Il titolo di questa raccolta di Andrea Carraro deriva da uno dei sedici racconti di cui è composta, che si intitola appunto ‘Il gioco della verità’. La scena è un salotto romano dove uomini e donne della media borghesia si confrontano con se stessi e con la loro noia intrisa di ipocrisia e dove per gioco, improvvisamente, scoppia la verità: una lei finge di aver tradito lui, lui dice ma senza fingere di aver tradito lei con una che è lì, la bolla del nulla in cui tutti sono immersi scoppia e i re si trovano nudi, i mostri si rivelano per quello che sono. E non solo in quel salotto. perché l’occhio impietoso dello scrittore, che con Il branco ci aveva già dato l’orrida tranche de vie delle periferie di Roma, ne percorre ora le borgate in cui si aggira un’umanità derelitta, minima, orridamente vera, che si vede per quello che è e che per quello che è si accetta: in cui un nonno si uccide sotto gli occhi di un bambino per morire insieme alla sua vecchia compagna, o un povero down muore sul tram nella gelida indifferenza dei passeggeri o la bambina Margherita si decide infine a raccontare che da anni il padre e il nonno abusano di lei, o la prostituta Ester si vende per aiutare il suo amico che sta diventando cieco mentre il cliente occasionale si guarda la partita, o Lucio, un giornalista già tossico, accetta di fare un’intervista a un poveraccio tossico a Vill’Ada, e intanto altrove scoppia l’ipocrisia del mondo finto letterario e il giovane aspirante giornalista viene mandato come un servo a comprargli le sigarette dal tronfio direttore che parla senza credere in nulla di ciò che dice e in una sacrestia qualsiasi di una chiesa qualsiasi la coscienza del non credente si vede costretta a difendere la sua dignità dall’equivoca condiscendenza di preti che presentano moduli, chiedono firme, dicono e non dicono e guardano dall’alto i poveracci che si rivolgono a loro. Magari alla scollatura della giovane aspirante al matrimonio, che improvvisamente perde anche lei la sua umanità pulita. perché il giovane ateo che ha tenuto testa al prete la rimprovera di vestirsi come una prostituta, e non è l’unico a farlo con la sua donna in questa Roma opaca dei nostri tempi che richiama alla mente quella sbracata e sanguigna di Pasolini, ora intristitasi in una stanca accettazione dei conformismi. Dove nessuno si ribella, le parti in commedia sono già assegnate, e può anche capitare che una coppia di coniugi forniti di decoroso appartamento e in cui lui ha appena finito di scrivere un articolo per un giornale impegnato investano qualcuno in motorino mentre vanno a prendere del gelato e non si fermino a soccorrerlo. E neanche per crudeltà, perché la crudeltà richiederebbe il ghigno della cattiveria, la coscienza del gesto trasgressivo ed evocherebbe dunque la grandezza della tragedia, ma per noia, per incapacità di decidere, per un richiamo del vuoto di dentro in cui si annullano pensieri, sentimenti, umanità, cultura, prospettive del vivere. Dove scompare il futuro e rimane l’ombra cupa di un presente vuoto di tutto. Questa Roma è l’Italia, quella di oggi, nella fredda rendicontazione di Carraro. La cui prosa secca, oggettiva, priva di ogni fronzolo, il più delle volte dialogata, rende alla perfezione l’accettata opacità del vivere di cui parlavamo prima. In cui si realizza anche visivamente ciò che in altri linguaggi si definirebbe nichilismo invasivo e debordante, ed è solo la scomparsa dei valori sostituiti dall’unico valore del successo nel mondo transitorio dell’apparire, che dura il momento minimo dell’apparire. In un racconto c’è una bambina, Daniela, che viene accompagnata dalla madre, Lory, a un concorso di cantanti, si impappina e viene per questo picchiata dalla donna che pure prima si era indignata perché il suocero guardava la ragazzina nuda da dietro le persiane. E tuttavia quel gesto del vecchio quasi non conta nell’economia del racconto, assume lo statuto di una sequenza tra le altre nell’orrido film di una giornata qualsiasi recitata da marionette inconsapevoli di esserlo. Letto così, questo libro di storie minime dove neanche una volta ricorre non dico il tema della politica, ma neanche la stessa parola ‘politica’, diventa una fortissima e accorata denuncia politica della deriva cui il tempo ci ha già condannati. Inesorabilmente. In cui Carraro non sembra vedere luci all’orizzonte, se non forse la speranza che la bambina Daniela abbia forse sbagliato apposta, come le rimprovera la madre, o la tranquilla serenità con cui il bambino passa attraverso la follia del nonno suicida. Come a voler dire che forse loro, le generazioni future, potranno ricostruire una normalità positiva del vivere. Questa generazione invece, la nostra, è irrimediabilmente perduta. perché in essa la verità è stata cancellata, quella almeno che redime: può essere evocata, in verità, ma solo per gioco e col rischio che provochi sconquassi. E quindi se ne fa a meno, si preferisce avvoltolarsi nelle parole inutili della compassionevole menzogna. Il conformismo accompagnato da qualche mugugno è cosa molto comoda, come anche Moravia raccontò nei suoi tanti romanzi. E c’è, in questi racconti, più che l’irruenta denuncia di Pasolini, la piatta dichiarazione di resa e l’indifferente rassegnazione di Moravia.

  15. A. Celano – Il Quotidiano della Basilicata

    Dopo romanzi dello spessore del Branco, Non c’è più tempo, Il sorcio, lo scrittore romano Andrea Carraro torna ai racconti con Il gioco della verità (Hacca) sebbene con un passo molto più breve rispetto a quelli che avevano caratterizzato la raccolta intitolata La lucertola (2001). Come valutare in Carraro questa nuova e accresciuta frammentazione dell’unità e della maturità della forma romanzo? Un momento di stanchezza dell’autore, una fase di declino giunto alla fine di un periodo particolarmente ispirato? Niente di tutto questo. In queste pagine è come se la scrittura di Carraro si ingegnasse a moltiplicare tendenzialmente all’infinito una collezione di cammei dalla scrittura scabra e poco rassicurante. Un universo di brevi storie d’ambientazione piccolo-borghese che, accumulandosi, non disinnescano, anzi moltiplicano – trasformandosi in un fastidioso sciame – la minaccia che sentiamo nel leggere il loro male di vivere. Fino a creare, con i due racconti ‘La nonna morta’ e ‘Il biglietto’, un sistema parallelo, un paio di storie che differiscono tra loro solo per pochi particolari, quasi fossero state generate da un incubo fatto più volte. I personaggi che abitano il mondo di Carraro sono quasi tutti preda di una particolare malattia, una patologia della forza di volontà, un tarlo che aggredisce la possibilità che la coscienza riesca a incidere sulle abitudini coattive, sulla capacità di reprimere positivamente le pulsioni. Insomma l’abulia nelle storie di Carraro è una patologia dello sforzo: c’è sempre nell’uomo un troppo marcato distacco, una zona vuota e scoraggiante tra il riflettere sul da farsi e il dare all’azione la forma di una decisione, di una qualsiasi convinzione. Il che non manca di trascinare i protagonisti alla deriva personale, in una sottile quanto irriducibile nevrosi, in esplosioni di rabbia esausta ma, proprio per questo, più distruttiva e inutile. Come nel racconto ‘Il berretto’ possiamo viaggiare in autobus notando la testa di un uomo che batte violentemente sul finestrino a ogni sussulto per poi accasciarsi sulle gambe dei viaggiatori e, insieme a questi ultimi, scendere alla fermata con addosso un peso indefinito. Possiamo tornare al lavoro perseguitati dal gioco crudele della coscienza che sa la verità (non tanto quella che l’uomo sia morto, quanto quella che non si è fatto nulla per avvertire o far qualcosa), ma cercando di continuare a scollarci narcisisticamente da quanto accaduto pensando che domani è un altro giorno. Pur sapendo che morire toccherà anche a noi.

  16. G. Franchi – Lankelot.eu

    La morte, la malinconia, il male di vivere: le frustrazioni, i fallimenti, l’angoscia. ‘Il gioco della verità’ poggia su sedici racconti dello scrittore Andrea Carraro (Roma, 1959), famoso per ‘Il branco’, caratterizzati da una vena depressiva e cupa. Nera, che più nera non si può. In un certo senso, tutto a un tratto diventa prevedibile come un romanzo di genere; se anche per accidente s’è aperto uno squarcio di luce nelle storie, ecco che subentra, non senza grottesco, una disgrazia, una ferita terrificante, un morbo. è talmente prevedibile, l’epifania del male, che a un tratto fa ridere: è come nei filmati di Aldo Giovanni e Giacomo della Tv svizzera. E questo non va. Allora occorre prendere atto di quanto insegna il letterato Andrea Di Consoli, direttore editoriale di Hacca, nella bandella dell’opera: altrimenti si sbarella, si va a tingere di nero (paint it black) un libro che forse aveva un intento diverso dalla depressione (o dall’ilarità isterica) dei suoi cinquemila lettori plausibili: ‘Questi racconti ci dicono qualcosa di definitivo sul ‘male oscurò della piccola-borghesia italiana, incarcerata in reticenze e rabbie covate troppo a lungo, e in tristi ritualità di un benessere di facciata. Ecco, dopo le prove magistrali de Il branco, La lucertola e Il sorcio, a cosa si sono ridotti i borgatari di Pasolini e i borghesi di Moravia. Eccoli, aggressivi e taciturni, aggirarsi in una enorme zona grigia di malessere, dove il borghese quartiere Trieste equivale al litorale romano ‘senza mare’è; eccoli, infelici e senza sogni, sopravvivere ‘a reddito fissò, trascinandosi da un silenzio all’altro, sfuggendo a ogni vera sociologia’ (fonte: bandella). D’accordo. Tecnicamente Carraro tiene; tengono i dialoghi, serrati e innervati da un’umanità credibile (meno quando sfociano nel dialetto, nel popolaresco; qualcosa s’inceppa, s’intoppa, rallenta), tengono le tramette tragiche dei suoi personaggi, tiene la scrittura: una scrittura che incolla alla pagina. è nei significati e nel senso che si vacilla. Qualche esempio. ‘La partita’: minimalismo carveriano, interno giorno piccolo borghese, un torneo europeo alla Tv; giocano gli azzurri. Un amico della compagna del narratore, Lucio, sta diventando cieco: il narratore si finge cieco per capire, o per recuperare l’attenzione di lei. Punto. Crisi d’una coppia nello psicodramma borghese ‘Dopocena’, tra scandalosi discorsi sessuali e incomprensioni irrisolvibili (e malaticce descrizioni di copule d’antan). Stupro e sessualità malata (in casa) in ‘Margherita’, nono pezzo; suicidio d’un vecchio innamorato nel giorno di San Valentino ne ‘Il biglietto’; infine, noie vaticane ne ‘Il parroco e il monsignore’, cronistoria d’un progettato matrimonio con rito misto (per un ateo) che naturalmente finirà male. Passiamo a ‘L’intervista’: un vecchio amico, sempre Lucio, ex hashishomane, nevrastenico, si ritrova protagonista di un pezzo su una rivista; la sua psicosi e il suo male di vivere faranno discutere la carta stampata. Narratore è il cronista. ‘Il muro di Guido’: esercito, giorni del servizio militare coatto. Spinelli, letture di Sartre a inguaiare un giovane proletario comasco; incontra il narratore, imbastiscono discorsi tra letteratura (poca), romanità (minima) e cose della vita (soverchianti), e voilà che finisce morto per overdose nelle battute finali. Epifania della morte nelle piccole cose protagonista del ‘Berretto’; senso di colpa per una morte in ‘La replica’; la morte letta da un bambino ne ‘La nonna morta’. Infine, un cadavere in mare nel sobrio ‘Un sabato al mare con papà’. Una catastrofe psicocosmica, direbbe Sgalambro. Ci si domanda, a questo punto, che senso abbia ‘L’inaugurazione’, l’ultimo racconto: storia della formazione giornalistica di un volenteroso, giovane alter ego dell’autore, della sua scoperta della grettezza e della piccolezza di certo ambiente giornalistico, della tristezza sordida della frustrazione. Stavolta non crepa nessuno: niente suicidi, niente omicidi, niente handicap mostruosi, niente di sudicio. Sudicia è soltanto la vita dell’uomo di cultura, a quanto pare, proprio come tutte le altre. Posso dire che non sono d’accordo? Ecco, l’ho detto. Questo testo è di un buio intossicante e sconfortante, è la radiografia di una visione lugubre dell’esistenza e dei contrasti e delle contraddizioni della vita: argomentazioni poco convincenti (natura umana; inevitabilità), stesure meccaniche e a un passo dall’artificiosità, scrittura intelligente vittima del male. Consigliato a quanti credono che la morte, la malattia, i tracolli e le violenze domestiche non esistono. Sarà un bagno di umiltà. Tutti gli altri possono tranquillamente tenersi al largo (ma ocio ai cadaveri, in mare), sfogliando piuttosto l’Apocalisse. Almeno è massimalista, e promette rigenerazione.

  17. S. Clerici – La Repubblica

    La verità può essere crudele. Ma anche liberatoria. Può far bene a qualcuno e male a qualcun altro. Questa ultima prova d’autore di Andrea Carraro è una specie di film a episodi che ha come leitmotiv la verità. Che cancella infingimenti e ipocrisie, spalancando gli occhi a protagonisti (e lettori) sulla realtà dei nostri giorni, del nostro costume, dei nostri vizi e delle nostre virtù. Il tradimento. La verità è anche un gioco vero e proprio che si fa in certe feste e che probabilmente conoscete. E così quando una signora, ospite con il marito in casa di altri amici, si sottopone allo scherzo (che diventerà crudele) e alla domanda ‘hai mai tradito tuo marito?’ risponde, lui presente, ‘sì, anni fa’. E si innesca un meccanismo feroce, perché quando tocca all’uomo essere interrogato, è lui a rivelare il suo tradimento (atto liberatorio). Per di più ancora in essere e con una delle signore presenti, con relativo consorte. La vita e la morte. La verità è anche quella che sprigiona dagli occhi, dalle parole e dalle azioni del piccolo Guido, un bambino che a casa dei nonni vede morire la nonna, sdraiata su una sedia, perché è convinto che lei non possa andarsene senza di lui. E, dopo tre giorni, durante i quali Guido fa tutto quello che faceva normalmente, dalla colazione ai giochi in giardino, se ne esce così (atto crudele): ‘Se tu vuoi seguire la nonna, devi morire subito. Non c’è tempo da perdere, c’è il veleno per i topi nell’anta sul balcone’. Il nonno non prenderà quel veleno ma troverà comunque il modo per andarsene per sempre (atto liberatorio) insieme con sua moglie. Lasciando il nipote al sicuro, nella casa invasa da polizia, giornalisti e curiosi. Il sogno del successo. La verità è anche quella che si cela nel cuore di una madre che accompagna alle selezioni per giovani cantanti la figlia, nella certezza che sia una predestinata. Anche la figlia ci crede, ma al momento dell’esibizione, l’emozione le gioca un brutto scherzo. La delusione scatena in entrambe sentimenti di rabbia e di frustrazione, fino a sfiorare anche in questo caso il dramma.

  18. F. La Porta – Il Riformista

    Andrea Carraro è uno scrittore di racconti puro, forse il migliore che abbiamo, accanto a Antonio De Benedetti, che appartiene però a un’altra generazione. La sua è una poetica scabra della omissione e della reticenza, con uno stile appuntito, asciutto, che costeggia l’essenzialità della cronaca, direi lungo una linea ideale Cechov-Hemingway-Carver (proprio Carver aleggia in almeno due racconti: una coppia in crisi che si rinsalda attraverso una losca complicità, dopo un incidente d’auto, e il cadavere di una donna affiorante davanti a una spiaggia affollata e indifferente). Non commenta, non giudica, non fa la morale (anche se la sua visione è ‘morale’ perché non confonde mai il bene con il male), assume molteplici punti di vista (mentre i suoi romanzi hanno tutti più o meno lo stesso protagonista, a parte il Branco, e cioè un erede un pò esangue e incarognito degli inetti a vivere del Novecento italiano). Le sue ossessioni sono reali, e così la realtà stessa nei racconti prende corpo quasi in modo naturale e al tempo stesso ineluttabile, con pochissimi tratti e qualche scarna battuta di dialogo. Anche se vediamo sfilare in queste pagine una umanità deragliata – poveracci, anziani solitari, parroci, barboni, prostitute, borghesi piccoli piccoli – ho l’impressione che la musa ispiratrice di Carraro sia la nostra commedia cinematografica all’italiana, almeno quella più alta, di Monicelli e Risi. La festa di ‘Vent’anni dopò sembra uscita da ‘Io la conoscevo be né di Pietrangeli, sia come figure che come scenette, ritmo, dialoghi. Ma forse il racconto più ispirato è Il muro di Guido, ritratto in sette paginette di uno sventurato commilitone morto per overdose, radiografia di una diversità passiva, mite e obbediente, e dunque più eversiva di ogni rivolta

  19. A. Di Consoli

    Nessuno scrittore come Andrea Carraro sa inginocchiarsi, in quanto scrittore, davanti al male di una maturità frustrata e disamorata. La violenza dei suoi personaggi è spesso inesplosa; e, quando esplode, trova le sue vittime già esauste, con gli occhi rossi e la voce strozzata. Questi racconti ci dicono qualcosa di definitivo sul ‘male oscuro’ della piccola-borghesia italiana, incarcerata in reticenze e rabbie covate troppo a lungo, e in tristi ritualità di un benessere di facciata. Ecco, dopo le prove magistrali de Il branco, La lucertola e Il sorcio, a cosa si sono ridotti i borgatari di Pasolini e i borghesi di Moravia. Eccoli, aggressivi e taciturni, aggirarsi in una enorme zona grigia di malessere, dove il borghese quartiere Trieste equivale al litorale romano ‘senza mare’; eccoli, infelici e senza sogni, sopravvivere ‘a reddito fisso’, trascinandosi da un silenzio all’altro, sfuggendo a ogni vera sociologia. Perché il ‘realismo’ di Carraro – un realismo che mai utilizza gli ‘effetti speciali’ del realismo estremo: il sangue, la violenza gratuita, il ‘basso’ ideologico – è anzitutto un realismo psicologico, di chi conosce i miseri segreti della maturità, gli abissi calmi del disamore e i gesti compulsivi privi di sentimenti. Anche il tremendo ‘gioco della verità’ che Carraro mette in scena, svelando miserie e tradimenti dei suoi personaggi, porta sempre la narrazione nei territori del silenzio: un silenzio vile e angoscioso, infine esausto. Con Carraro, proprio nel mentre i suoi uomini crollano a terra, la vita diventa ancora sopportabile, perché la grigia esistenza viene d’improvviso illuminata dall’apertura – a ventaglio, come uno squarcio di luce – della verità della scrittura. Proprio quest’assenza di infingimenti, questa lingua grigia e solida come il ferro, questo sguardo impudico e fermo, rendono ancora chiare e possibili, nell’opera di Carraro, parole difficili come ‘realtà’ e ‘verità’.

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