Recensioni
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Una storia d’amore, claustrofobica, disperata e a tratti violenta, fra un italiano “medio” e una giovane immigrata russa. Un romanzo scomodo, che scava una breccia nell’immaginario maschile svelando l’irritante durezza della verità.
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P. Spirito – Il Piccolo –
Metafora di una società, quella italiana d’oggi, soffocata da pregiudizi e contraddizioni, abbagliata da un consumismo da tutto e subito, incapace di sentimenti autentici e affetti vitali, l’ultimo romanzo di Andrea Carraro (IL BRANCO, L’ERBA CATTIVA) è la storia di un rapporto d’amore e di possesso che spalanca le porte della solitudine. È LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE (Feltrinelli, pagg. 133, lire 26 mila), racconto sulla supremazia distruttiva di una mentalità oggi tanto diffusa e in grado di fare terra bruciata intorno agli individui.
II protagonista, Gregorio, è un bancario trentacinquenne che vive ancora con la madre, donna possessiva e dalle attenzioni soffocanti.
Per sfuggire alla prigione dorata della sua casa, Gregorio decide di rivolgersi a un’agenzia matrimoniale, con senso di rassegnato fatalismo e di impazienza, per trovare una compagna.
E dalla Russia arriverà Sonja, il ritratto della gioventù e della salute: alta e robusta forte di spalle come un uomo, la faccia larga, bianca, due grandi occhi celesti, un’espressione infantile e intrepida allo stesso tempo.
Quasi in segreto, Gregorio ospita la giovane ed esuberante donna in un minuscolo appartamento nella squallida periferia di Roma, le offre quanto ha bisogno, le sta vicino. Ma presto il suo diventa un atteggiamento possessivo e geloso, che peggiora quando scoprirà il recente passato di prostituta di Sonja, che invece a lui altro non chiede se non l’opportunità di ricominciare una vita normale accanto all’uomo che ha scelto.
Non basterà: i pregiudizi, il conformismo, le pastoie familiari, la freddezza e l’insoddisfazione derivati dalla ragione del più forte porteranno Gregorio a distruggere un rapporto che doveva essere un’occasione di salvezza per entrambi.
E il sacrificio di Sonja non eviterà a Gregorio il ritorno nella sua prigione esistenziale, dove lo attende il vuoto di una vita fallita.
Percorso da una sorta di costante tensione nervosa nei dialoghi e nelle situazioni, il romanzo di Carraro non si distacca da una cronaca asciutta – nello stile e nella costruzione narrativa – che si fa emblema di una condizione cruda e disperata.
G. Pederiali – Italia Oggi –
Gregorio, il protagonista del romanzo LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE di Andrea Carraro (Feltrinelli, 133 pagine, 25 mila lire), è un uomo senza qualità. Per molti versi è anche un vecchio, nonostante abbia appena 35 anni: prigioniero di piccoli ricordi e privo di passioni e autentici amori, tira a campare tra il lavoro in banca (quasi uno stereotipo) e la madre che lo assilla con le sue attenzioni così soffocanti che lui nei pensieri (e dunque sulla pagina, dato che il romanzo è raccontato al presente e in prima persona) la chiama il donnone. La madre, vedova; lo vorrebbe sistemato, cioè sposato; e ha anche individuato la ragazza che andrebbe bene per lui. Madre e ragazza appartengono a una setta religiosa che, tra le altre cose, esige dai fedeli la rinuncia alla proprietà. L’odio per la madre e la noia per una vita senza emozione, con amici mediocri o spenti, scandisce tutta la prima parte del romanzo di Andrea Carraro, che appare costruito su minimalistiche invenzioni narrative. Poi la svolta, nel ritmo della narrazione e nella vita di Gregorio: il giovane si compra l’amore di una donna. Non è che vada a puttane, la faccenda è molto più complessa. Per mezzo del catalogo a colori di una ambigua agenzia matrimoniale, il nostro eroe firma una specie di contratto prematrimoniale per avere una giovane in prova, in cambio delle spese di viaggio e mantenimento. Sonja e Gregorio si incontrano a Roma, al terminal dell’aeroporto. Lui si aspettava una biondina dimessa, timida e incapace di spiccicare una parola in italiano. La giovane russa (22 anni) è alta, bionda, formosa, splendida, vistosamente vestita (da viado, la definisce lui). Secondo la descrizione siamo al cospetto di una specie di Anna Falchi, come minimo. Troppa grazia: tutti la guardano, tutti gliela concupiscono con gli occhi. Gregorio è già geloso e già rimugina ipotesi sul passato della russa. Come se non bastasse, Sonja parla un buon italiano. Ha lavorato per un anno a Trieste come cameriera, dice. La porta a casa. Non dalla mamma grassona e bigotta, bensì nell’appartamentino affittato sul raccordo anulare, nella periferia romana più squallida. Subito fanno all’amore e Gregorio, invece di esserne felice, comincia a rimuginare anche sulla spregiudicatezza della donna._Comincia una vita fatta di sotterfugi (Gregorio continua a nascondere Sonja alla madre), di gelosie (la ragazza entra nei bar, parla coi coatti che attaccano bottone), di litigi. Gregorio le mette il muso e resta tre giorni senza farle visita, e quando decide di rifarsi vivo la scopre in auto con un tizio. È un fotografo che le ha offerto denaro in cambio di certe pose… Gregorio la picchia. Adagio la verità salta fuori, più per spontanea confessione di Sonja che per minacce o indagini. La ragazza non ha mai lavorato a Trieste e non è arrivata da Mosca. Stava già a Roma da un pezzo, inserita nel giro della prostituzione._Andrea Carraro e’ molto bravo nel disegnare questa figura femminile. Fino all’ultimo non capiamo se si tratta di una vittima o di una spregiudicata approfittatrice. Neppure Gregorio riesce a giudicarla e non le porge mai un aiuto diverso dai soldi (che spesso le rinfaccia), seguitando a desiderarla e a prenderla quando ne ha voglia. In poche parole, seppure in forma più elaborata, la tratta anche lui come una prostituta. Confessandole, tra l’altro, di non essere assolutamente innamorato di lei. Siamo in agosto, in una Roma sudaticcia e distratta. Sonja aveva detto: Mi piacciono gli italiani. Siete gente allegra, vivace. Sapete vivere!. Ma gli italiani che le capitano, a cominciare da Gregorio, non sono neppure allegri. E di sicuro non sanno vivere. Sonja, nonostante tutto, e una ragazza recuperabile, non aspetta altro, eppure Gregorio resta l’inerte uomo che abbiamo visto, e la ragazza sceglierà di uscire di scena nella maniera più drammatica. La ‘ragione’ del titolo è probabilmente quella della società in cui viviamo, forte con i deboli, incapace di generosità al di fuori degli schemi usuali. Andrea Carraro ha scritto un bel romanzo, anche se ogni tanto si è lasciato trascinare da tentazioni avanguardistiche (vedi le paginette scritte senza punti, e quelle totalmente prive di punteggiatura). Forse temeva di essere stato troppo chiaro e scorrevole, e di non piacere ai recensori dell’Espresso.
M. Onofri – diario –
Da quando lo leggo, cioè dai tempi del BRANCO (1994), il suo secondo romanzo, Andrea Carraro m’è sempre parso lo scrittore di un accanimento laico e di un parossismo esistenziale. L’accanimento con cui sa incalzare i suoi malvissuti personaggi sino a vederli stramazzare: così feroce che non può non venirgli, si direbbe, da una qualche purezza del cuore. II parossismo di gesti e pensieri, dentro cui questi stessi personaggi s’accartocciano, bruciati da un’innocenza che può avere anche un risvolto criminale, ma che è sempre la più disarmata e la più violenta. E si tratta di un’innocenza che. per cosi dire, non si trova in natura: nasce piuttosto da un imbastardimento del linguaggio e dei costumi, da una profonda mutazione antropologica, da un azzeramento dei valori. Non per caso. Carraro ha voluto ambientare tanto IL BRANCO, l’atroce epopea d’uno stupro collettivo, quanto L’ERBA CATTIVA (1996), la tragica vicenda di un ragazzo che vuol fare il calciatore e del padre che, spietatamente, glielo impedisce, proprio nell’hinterland romano, in quell’incerta terra di frontiera dove la città non c’è ancora e la campagna non c’è più. Con LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE qualcosa cambia: siamo in una Roma torrida e vischiosa, che attraversiamo dal Lungotevere a Porta Pia, sino alla periferia di Tor Bella Monaca. Gregorio, l’io narrante, è un tipico rappresentante di una piccola e neghittosa borghesia impiegatizia: sicché la lingua, che nei due libri precedenti s’avvaleva d’un dialetto d’invenzione, all’altezza di quella umanità, conquista invece qui una sua anonima medietà, perfettamente consustanziale alla mediocrità etica del nostro protagonista: che è orfano di padre e tiranneggiato da una madre, il donnone, da cui non riesce mai ad emanciparsi. L’occasione per movimentare la sua vita. e per sottrarla alla greve ipoteca d’una comunità di neocatecumeni, gli è data da Sonja, una russa altissima, bionda, bella, dal seno prosperoso e duro, insomma il ritratto della gioventù e della salute, che Gregorio sceglie, all’insaputa della madre, sul catalogo di un’equivoca agenzia matrimoniale. Il temperamento brusco e possessivo, risentito e insicuro, di Gregorio, nonché la scoperta del passato umiliante e vergognoso di Sonja, spingeranno la stona verso un esito tragico. Ed è proprio qui, sul finale, che mi sentirei di muovere un appunto a Carraro: per quell’uscita di scena, un po’ da melodramma. della ragazza russa, mentre credo che avrebbe giovato al romanzo se lo scrittore l’avesse mantenuto, sino all’ultima pagina, sui binari di un’ordinaria disperazione, alla migliore altezza del suo impassibile laidsmo. Dicevo di cambiamenti, ma non ho ancora segnalato quello che mi pare il più interessante: il fatto che sulla pagina si aprano, improvvise, impreviste, certe fenditure, certe crepe, la’ dove, per dirla un po’ alla grossa, il fisico (l’entomologo che più ci è famigliare) cede il passo al metafisico. Sono i momenti in cui, per un’urgenza quasi tellurica, la scrittura muta ritmo, fino a guadagnare una sua incandescenza, mentre anche la sintassi simula il magma. Sono i momenti in cui erompe di nuovo alla luce la vita bloccata di un Gregorio adolescente: e quell’amore per Flaminia strozzato giovanissimo, con le sue colate tenere e crudeli. Si ha cosi l’impressione che dentro il doloroso libro sulla tratta di una ragazza dell’Est un altro se ne imbozzoli, più’ vero e lancinante: il romanzo della grazia perduta e di un impossibile risarcimento. Un romanzo muto, in cui s’impetra, come per miracolo, tutto il fervore, tutte le aspettative di giovinezza, di A DENTI STRETTI (1990), che fu il suo acre e venturoso libro d’esordio.
S. Perrella – l’Unità –
LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE, il nuovo libro di Andrea Carraro, è semplice nel suo svolgimento, ma complesso e terribile nei suoi presupposti (ed esiti) esistenziali e morali. È semplice, perché l’autore ha ridotto all’osso gli elementi della narrazione, dando vita a una storia con tre personaggi: Gregorio, sua madre, e una giovane donna russa da lui affittata di nome Sonja. È complesso e terribile, perché nel giro di poche pagine si compie una tragedia quotidiana senza catarsi, che riguarda soprattutto Sonja, ma non risparmia Gregorio. Come nei precedenti libri di Carraro, c’è poi un paesaggio romano triste desolato e squallido, punteggiato da ipermercati e campetti di calcio abbandonati alle erbacce, tetri prefabbricati e svincoli serpeggianti sotto il Raccordo. Un paesaggio che a volte non possiede neanche il cielo: Non c’è cielo sopra di noi, né sole: soltanto una bassa, abbagliante volta di vapori. Gregario lavora in banca, non ha ancora quarant’anni ed è scapolo. Vive con la madre, che passa le giornate davanti allo schermo bluastro del televisore e, quando può, si lamenta di lui. Con gli amici condivide sempre meno; a volte è trafitto da ricordi; ricordi corporei, in primo luogo. È un uomo rabbioso e la sua rabbia si concentra nello sfogo fisico. Vuole una donna per se, ma non sembra cercare in lei consonanze esistenziali. Inoltre non si accontenta della povera virtualità di uno schermo o di una bambola gonfiabile. È per questa ragione che si decide a comprare Sonja. Le affitta un appartamento nella più squallida periferia e ingaggia con lei un triste gioco di equivoci. Il giovane e prorompente corpo di Sonja abbaglia Gregario e trasmette al suo racconto (è infatti lui a raccontarci la storia) il ritmo giusto: Mi siede in braccio. L’odore cosi vicino rinforza: il belletto dolciastro e l’alito caldo e i capelli e il debole sentore acido delle ascelle. Le sfilo la canottiera. Lei mi lascia fare e solleva anche le braccia per facilitarmi. La vista del seno a nudo mi taglia il fiato in gola. Le bacio quelle tette bianchissime, abbondanti e dure al tatto e le accarezzo e le stringo, una coppa per mano. E poi la faccio alzare e le tolgo con foga animalesca i pantaloni. In queste righe mi sembra che ci sia concentrato lo stile di Carraro. Sia tecnicamente: ad esempio, l’iterazione ternaria della congiunzione da lui amata, e nel complesso la ricerca di una prosa veloce e ritmica, fatta di inquadrature. Sia il suo modo di guardare al mondo: un modo crudo e scorticato, dove nelle immagini convivono differenti stimoli figurativi: il caravaggesco seno a nudo e il cinematografico e corsivo tette bianchissime. L’epigrafe, tratta da Celine, dice che: Esser solo è allenarsi alla morte. Gregario era già solo, ma quando Sonja si toglie la vita lo diventa ancora di più: il suo allenamento si fa insostenibile. Tenta di andare altrove, ma il richiamo della madre (il donnone) è più forte. Carraro non si sogna di dare spiegazioni, fugge il didascalismo, e fa bene. Non dà però il tempo alla storia di liberare tutte le sue tossine morali. Forse perché LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE e un libro dichiaratamente di passaggio, che conferma le qualità di questo scrittore, e allo stesso tempo ci segnala il desiderio di abitare un altrove narrativo forse ancora non ben chiaro. Come Gregario, anche Carraro sembra voler guardare avanti e non pensare a niente, condizione necessaria perché le storie si aprano davanti ai suoi occhi.
F. La Porta – Il Manifesto –
Uno spettro si aggira per l’Europa (benché di importazione), specie nella nostra sinistra; la febbre o mania del politicamente scorretto. Film, libri, canzoni, vignette satiriche rivendicano aggressivamente il diritto di ridere su qualsiasi cosa, anche su ciò che fino a ieri era tabù dal punto di vista morale. Il tutto sembra assumere una vaste insolitamente gioiosa. Ministri comunisti recuperano felici il cinema-spazzatura contro la noia del cinema d’autore, mentre semiologi finalmente liberati non esitano a sganasciarsi guardando in tv il linguaggio dei sordomuti (una volta qualcuno osservò che le persone meno represse non sono le più amabili…). Né davvero è il caso di condannare atteggiamenti del genere. Anzi, se la sensibilità di prima era vissuta come penosa coercizione ideologica, beh, allora diventa giusto liberarsi finalmente da questo peso intollerabile. Ma, a proposito della moda del politically incorrect (ormai un genere, con il suo pubblico e la sua fetta di mercato) e di esibito cattivismo vorrei segnalare un romanzo italiano uscito in questi giorni, che ci invita ad alcune riflessioni. Quando il protagonista di LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE di Andrea Carraro si rotola dalle risate di fronte ai peti sonori del vecchio su sedia a rotelle, con un filo di bava alla bocca, potremmo trovarci in prossimità di un film dei Vanzina o catapultati dentro qualche barzelletta televisiva. Eppure al lettore di quel passo non viene affatto voglia di ridere, e non certo per autocensura. Perché? Perché, credo, Carraro non vuole mostrarci tanto il mondo com’è, chiedendoci un’ilare complicità, quanto il mondo come precisamente deve apparire allo sguardo del suo io narrante; e proprio nella paziente, minuziosa costruzione di questo sguardo il suo romanzo, che pure ha qui e là alcuni passaggi narrativi troppo veloci (quasi più da racconto lungo), mi sembra perfetto. Si tratta, diciamolo subito, di un libro sgradevole come il suo protagonista (bancario romano, piccolo borghese frustrato e inetto, risentito verso l’umanità e aggrappato ad un sogno fragilissimo di purezza) e insieme fulminante per la sincerità con cui questi racconta a se stesso il mondo. Monologo interiore (quasi sempre adoperato con sapienza) e discorso indiretto libero impediscono all’autore di spiegare, di commentare, di estrarre messaggi e morali. Il rapporto tra Gregorio, impiegato in banca e con madre asfissiante (il donnone) e Sonja (la moglie russa comprata attraverso agenzia) appare subito difficile, convulso, con sospetti e voltafaccia. Nel finale, inesorabilmente tragico Gregorio non avverte pero’ neanche una lieve frattura dentro, ma solo un senso vago e opprimente di mollezza, instabilità (un’instabilità che si esprime consapevolmente nella sintassi), e si avvia solitario in macchina sull’autostrada verso il Sud con un’assurda ma quasi beata estraneità a tutto. Il tono narrativo appare a sua volta un po’ estraneo, impassibile e vitreo, eppure è assolutamente funzionale alla costruzione di quello sguardo cui accennavo. Gregorio non sopporta la variopinta umanità che gli sfila davanti e il suo disgusto si appunta spesso su dettagli fisici: le facce larghe e scimmiesche dei peruviani a Porta Pia, la voce sinistra del sordomuto collega di lavoro, le facce beote delle anziane turiste americane, il testone di capelli neri e corti dell’amico …Si muove perlopiù sotto un cielo che è una bassa, abbagliante volta di vapori e dice spesso vaffanculo. Lo calma quasi solo pronunciare delle imprecazioni sotto l’acqua gelida della doccia. Rare volte abbiamo incontrato nella nostra narrativa recente un personaggio del genere, quasi incarnazione angosciosamente attuale di una figura di borghese piccolo piccolo che ci viene da tanta letteratura. A volte l’autore sembra dargli un eccesso di autoconsapevolezza (come quando viene rievocato un amore adolescenziale poi sfumato e gli fa dire: …quel qualcosa di ineffabile e sacro che mi è passato accanto…). La sua sembra comunque una cattiveria molto ordinaria, ma soprattutto una cattiveria patetica, disarmante, quasi costretta a restare in superficie e così a implodere: ha voglia di prendere a pugni Sonja e poi mettersi a piangere. Il libro si apre con una citazione da Celine, a cui l’autore non è estraneo (benché, ovviamente non possiede, direi per ragioni storiche, quella prosa incontinente): Esser solo è allenarsi alla morte. Ma il protagonista non risulta affatto allenato alla morte proprio perché non è mai solo (c’è sempre la madre o qualcun altro). Certo, prevale la ragione del più forte. Ma qui chi è il più forte? Gregorio, che crede di condurre sempre il gioco, che ha i soldi e una posizione sociale. O Sonja che almeno ha la forza di interrompere in un punto il cerchio della menzogna, dell’inumano? In mezzo all’ultimo, violento litigio, lei esclama: Ma tu sei esistito! Sei esistito!. Lei è infatti l’unica persona che poteva certificare l’esistenza di lui. Ma lui la rifiuta, la caccia via e così ripiomba nell’irrealtà (benché un’irrealtà morbidamente protetta dall’aria condizionata e dal bancomat). Come negli altri romanzi dello scrittore l’utopia della felicità (qui racchiusa negli occhi celesti di Sonja o anche nella frase melensa di un bigliettino) appare stravolta, sbiadita come l’intero paesaggio di fuori, dove la gente accorsa intorno ad una macchina del delitto subito si gioca al lotto i numeri della targa. La virtù di Carraro consiste nel mostrarci con precisione romanzesca (anche spietata), senza però inseguire la moda del politicamente scorretto, come lo sguardo cattivo e molle del protagonista sia la conseguenza coerente della sua irrealtà priva di sbocchi.
A. Guglielmi – L’Espresso –
Andrea Carraro è un ragazzo onesto. Continua a raccontarci pezzi della vita violenta che ci vede vittime e colpevoli. Qui è la volta di un giovane che nel tentativo di vincere il proprio conformismo di fondo e la pesantezza della madre finisce per raddoppiare la propria confusione e dolore. Vive a Roma, in una casa piccolo borghese, con una madre possessiva (un donnone); pia per ragioni di rango; che lo costringe (ancora bambino) con gli schiaffi a piangere di fronte al corpo del padre morto; ha un modesto lavoro in banca; frequenta amici già carichi di moglie e figli; ancora adolescente ha un amore travolgente con una coetanea (debitamente stroncato dai rispettivi genitori); poi, da grande, piccoli e incauti incontri fino a quello con Clara, una zitella quarantenne che la madre vorrebbe sposasse. Cupo e scontento, il giovane pensa di trovare un’uscita comprando l’amore di una bellissima ragazza russa scelta nel catalogo di una equivoca agenzia matrimoniale. E di qui ha inizio la storia di un rapporto turbinoso, nutrito di sospetti e di spirito di rivalsa, che si conclude con il suicidio della giovane russa. Si, tutto bene: è una storia che valeva la pena di raccontare per la sua verità di fondo. Ma Carraro aveva (ha) gli strumenti stilistici e la lingua in grado di renderla letterariamente credibile? O non piuttosto, come a me pare evidente, tutto i| dettato si aggira tra il risultato di un articolo di giornale (l’orrore del quartiere romano di Bella Monaca), quello di una sceneggiatura televisiva (la visita in casa dell’amico sposato) e l’ardire di un troppo facile monologo interiore (il ricordo dell’amore con Flaminia)? Peccato, perché l’epigrafe celiniana in testa al volume ‘Essere soli è allenarsi alla morte’ autorizzava a sperare che la storia potesse sollevarsi oltre la soglia della verità cronachistica.
G. Fofi – Il Messaggero –
ANDREA Carraro, in LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE, racconta la storia di un amore impossibile, causa la mediocrità del protagonista-narratore. Gregorio è un trentacinquenne impiegato di banca afflitto da una grossa madre ipercattolica in una Roma-Tor Bella Monaca più indifferente che odiosa; la sua nevrotica e aggrovigliata solitudine lo spinge a far venire tramite un’agenzia dalla Russia una ragazza, Sonja, ventiduenne, che in realtà ha un misero passato da puttana, il costo della sua fuga verso il paradiso italiano. Gregorio si fa geloso e oppressivo, un essere meschino incapace di chiedere e di accettare amore, di fronte a una ragazza piena di vita ma già avvilita dalla vita che di amore e di vita ha bisogno quanto lui. L’incomprensione di Gregorio porta alla tragedia, al suicidio di Sonja. Rapida, dura storia di un amore negato, La ragione del più forte coglie grumi di solitudine e di sofferenza inutili, nella grande città di scarsa anima, ma più a fondo sembra rifarsi al breve capolavoro di Dostoevskij La mite nel confronto tra uno scostante ma normalissimo maschio del nostro tempo e una ragazza scoperta e fragile di fronte alla cattiveria dei tempi e del mondo. Quarantenne e romano, già autore de IL BRANCO. Carraro ha scritto un romanzo triste e crudele, il suo migliore, cui manca forse soltanto un’intensità di scrittura pari a quella del sentimento.