Recensioni
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“Un ragazzo vuole darsi professionalmente al calcio: il padre glielo nega. Di qui la tragedia”: così Enzo Siciliano sintetizza la trama del romanzo. E prosegue: “Il racconto mette di fronte padri e figli: i primi vorrebbero che i più giovani avessero un senno tradizionale nelle scelte di vita; i secondi, invece, sono attratti irreversibilmente da quanto il linguaggio della comunicazione di massa rende o sembra rendere di facile conquista”. La tragedia che verrà fuori da tutto ciò è di quelle arcaiche, di quelle che sconvolgono i sentimenti più profondi, la natura stessa dell’uomo.
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M. Trecca – La Gazzetta del Mezzogiorno –
Dopo il successo del BRANCO, lo scrittore torna nei sobborghi di Roma. Sangue e miseria: quasi una inchiesta
‘Perché, perché, perché…’. Senza nemmeno il punto interrogativo. Più che una domanda, un’implorazione. Ma non c’è alcun dio pietoso ad ascoltare la voce dei vinti nei sobborghi di Roma dove Andrea Carraro ha ambientato L’ERBA CATTIVA (Giunti, pagg. 157, L. 20.000). Il romanzo, quindi, si conclude senza una risposta: con quel muto lamento sospeso nel nulla, come il messaggio in bottiglia di un naufrago. Disperato e solo, costretto infine a fare i conti con la propria e altrui violenza. Vera protagonista anche di questa nuova storia dell’autore del BRANCO, da cui due anni fa Marco Risi ricavò il film omonimo.
L’ERBA CATTIVA racconta, dunque, la disgregazione di una famiglia proletaria fino al conseguente e logico epilogo tragico. La narrazione di Andrea Carraro, nonostante il ritmo romanzesco, ha la robusta concretezza d’un’inchiesta sul campo. Tutti i personaggi sono, quindi, perfettamente credibili: presi di peso da una pagina di cronaca nera e (ri)messi in azione, seguiti passo passo dall’invisibile presenza dell’autore, che raccoglie ogni elemento utile per fornire al lettore un quadro obiettivo dei fatti. Sperando, forse, che qualcuno sappia dare una risposta a quel perché flnale di Agnolo, il cui padre – che egli stesso più volte aveva minacciato di uccidere – è stato infine ammazzato dal fratello minore Tonino, precipitato in un dirupo e morto a sua volta mentre era inseguito dalle forze dell’ordine.
La scintilla che fa esplodere il dramma è l’ennesima violenza del padre-padrone nei confronti della moglie. Per Tonino, però, è solo un pretesto, un comodo ma fragile alibi morale. Ad armare la sua mano, infatti, non è tanto la difesa della madre quanto la rabbia per il rifiuto paterno di accondiscendere ai suoi sogni calcistici. Lo vuole la Viterbese, ma Tonino e’ minorenne e il padre nega il proprio indispensabile consenso. Solo per ripicca, apparentemente: per invidia del successo del figlio. Per scaricare su qualcuno le proprie frustrazioni di alcolizzato disoccupato, alla merce’ degli strozzini e dei lazzi dei paesani. In realtà, però, nel cuore paterno, benché devastato dal rancore, agisce ancora il nobile sentimento della preoccupazione per l’avvenire del figlio. La sua alternativa è secca, brutale ma non priva di ragioni. Al calcio, dunque, egli oppone prima la scuola, poi il lavoro. Ma Tonino vuole tutto e subito, non c’è spazio nella sua testa per altri discorsi. Che, in realtà, neppure gli vengono fatti perché nel piccolo borgo selvaggio non si discute ma si grida, si offende, si ordina, si picchia.
L’ignoranza, infatti, e’ prima di tutto un difetto della comunicazione; è negarsi agli altri per rinchiudersi in se stessi come monadi rocciose, sempre più enigmatiche e oscure. Il dialetto non ha le parole per costruire ragionamenti complessi, non è una risorsa ma l’anticamera del silenzio e della violenza. Agnolo, per esempio, avrebbe bisogno di confessare la propria solitudine, il proprio dolore, la propria infinita miseria, resta, invece, murato vivo nello stereotipo del giovane forte e macho: tutti lo immaginano con chissà quali donne e lui, al contrario, il sabato sera s’aggira sperduto tra cinema porno e transessuali. Quasi una via crucis, compensata da atteggiamenti minacciosi da duro. Mentre l’afasia di Nicolò – il maggiore dei tre fratelli – ha il tono mellifluo e perbenista dell’integrazione piccolo borghese, agognata come un valore assoluto. Spetterebbe alla madre ricucire in unita’ tante diversità, recuperando il lessico familiare dei tempi felici di una volta. Ma anche lei è muta e parla solo in chiesa con il parroco.
Andrea Carraro racconta alternando i dialoghi in dialetto con i brani narrativi veri e propri in lingua. Le sue parole sono nude, essenziali; le situazioni emblematiche: perciò in taluni passaggi L’ERBA CATTIVA sfiora i toni metafisici di una tragedia classica.
M. Mondo – Letture –
La critica letteraria è tanto abituata (e annoiata) da romanzi evanescenti, vuoti di tempra e di impegno. Mancano storie, significanti di per sé, narrate con passione, per parlare della vita, dell’uomo. Non si deve aver paura di trasmettere scossoni ai lettori, magari di farli pensare, commuovere (ci si muove per quel che vale).
Se la critica letteraria fosse attenta, intelligente e onesta, riconoscerebbe la diversità e la novità di questo romanzo di Andrea Carraro, L’ERBA CATTIVA. È l’autore de IL BRANCO, reso famoso dal film di Marco Risi e da un tema, quello dello stupro, che con la recente approvazione della nuova legge sulla violenza sessuale ha suscitato discussioni e polemiche. Ma è questo il libro maturo del giovane scrittore romano, ‘nipote’ di Pasolini, si è detto, perché basta scrivere guardando alla realtà, servirsi di una lingua forte, impastata di dialetto, per essere ascritti al genere neorealista, schiacciati dal peso di padri imposti.
La storia de L’ERBA CATTIVA è forse una storia vera, di miseria, solitudine, sogni disillusi. Storia di una famiglia con un padre alcolizzato, disoccupato, dei suoi tre figli che rincorrono ognuno un pezzetto di vita, dignitosa e libera dalla ricerca del pane quotidiano, dai soffocanti e scoloriti giorni uguali e tristi di un paese povero e sbandato. Il più giovane spera nelle sue gambe di calciatore, nella maglia di una squadra importante. La violenza del padre ai suoi sogni, aggiunta alle ripetute violenze fisiche sulla madre, fa scattare la tragedia: l’assassinio, e un’altra vittima nell’incosciente assassino. Intorno, un paese di umiliati che guarda, si stringe nelle spalle, forzato a continuare, come prima, la fatica del vivere. La pietà li salva (pallida eco di un’altra Pietà?), li trasforma in testimoni scomodi, in voci forti che condannano l’ingiustizia e l’indifferenza.
L. Federicis – L’Indice –
Nato a Roma nel 1959, Andrea Carraro ha esordito nel 1990 con A DENTI STRETTI; è diventato noto nel 1994 con IL BRANCO (e con il film che ha ispirato a Marco Risi); e ora, al terzo romanzo, ripropone la sua fisionomia e le sue scelte di scrittura. L’ERBA CATTIVA del titolo condensa in una metafora evangelica il succo e l’amara ironia della vicenda. Nel mondo di Carraro infatti si diventa cattivi, ma senza intenzione: è una fatale e meccanica casualità, è la violenza in sé delle circostanze, che trasforma in parricida un bravo ragazzo qualsiasi come Tonino. La domanda iterata di senso, ‘Perché, perché, perché…’, riempie l’ultima frase del libro: che è costruito con le due componenti – la esistenziale e patetica, la sociologica e antropologica – già costitutive non solo della materia di Pasolini (il modello di solito citato), ma di tutta una lunga e notevole tradizione del naturalismo meridionale. L’ambiente è un paese alle porte di Roma, con due bar, un fabbro, il prete, i contadini che sono diventati muratori, i piccoli affaristi che sfruttano, il gruppo dei ragazzi e a due passi l’autostrada e la megadiscoteca di Guidonia. La storia è di famiglia, con un padre padrone incattivito dal vino, una madre dolorosa e invecchiata, tre figli che hanno scuole malvissute e povere ambizioni, poveri impulsi d’amore e d’amicizia. Dei tre il più giovane e mite, sedici anni, è infine l’assassino, e l’erba cattiva che resta meglio in mente a lettura finita è quella dei colli dove va a morire in selvatica fuga. Si sarà capito che il tema del dissesto culturale nella degradata società contadina tende facilmente a tradursi in stereotipi e a sovraccaricarsi di valenze simboliche. Oggetto simbolico, di una persistente e tragica arcaicità, è la zappa che viene alzata sul padre e gli spacca la testa. L’altro e più felice tema riguarda invece il sentimento della vita, il rapido accendersi e spegnersi delle speranze giovanili, tanto più toccanti quanto più sono deboli e s’incanalano nel conformismo della (bramata) banalità popolana e borghese: un po’ di soldi e un po’ di sfogo, un matrimonio, una carriera da calciatore. La lingua, mista di dialetto e molto dialogata, s’accompagna bene all’evidenza fisica e alla gestualità spinta, espressionistica, dei personaggi.
C. Augias – Il Venerdì di Repubblica –
Pasolini aveva capito anni fa che i suoi ‘Ragazzi di vita’ sarebbero stati il tema del futuro. Andrea Carraro autore de IL BRANCO è, tra i giovani scrittori italiani (Roma, 1959), uno di quelli che più sente questo tema. Il suo ultimo romanzo L’ERBA CATTIVA (157 pagine, 20 mila – Giunti) è appunto una storia di giovani senza orizzonte. Dintorni di Roma, verso Est, uno di quegli agglomerati subito dopo il Raccordo anulare per metà abusivi, né campagna, né ancora città. Storia di una famiglia: padre ex muratore alcolizzato, madre brava donna impotente, figli che cercano e stentano. Uno lavora, uno gioca a pallone e sembrerebbe promettere. Una squadretta di Serie C lo vorrebbe nelle sue fila. II padre si oppone. Quel rudere d’uomo che s’aggira barcollando per la borgata vuole che suo figlio studi. Ha in mente il diploma. Povero fallito, conserva dentro di sé la fede cieca in quel ‘pezzo di carta’ che lui non ha mai avuto ed è da lì, pensa, che sono venute tutte le sue disgrazie. Dal suo rifiuto nasce la tragedia con la quale la vicenda si chiuderà.
Carraro racconta con grande abbondanza di mezzi. A tratti, per esempio nei dialoghi la sua scrittura si potrebbe definire naturalismo post-pasoliniano; in altre occasioni, per ricostruire tratti e percorsi di un’allucinata memoria, adopera dei lunghi monologhi, sul tipo di quello conclusivo dell’Ulisse, di grande efficacia: altre volte ancora il linguaggio è quello del narratore stesso, e allora la lingua si fa letteraria e alta. Non è vero che la nuova narrativa italiana manchi di nerbo. Non è vero che non sappia andare a vedere ciò che siamo diventati, andando a prendere le sue storie nel posto stesso in cui nascono.
F. La Porta – Il Manifesto –
‘Mi dispiace, mi dispiace tanto, a Nico’… . Durante l’abbraccio trattiene il fiato pur non ispirare quell’aroma forte di acqua di colonia che gli dà alla testa. In questa scena da un funerale (tratta dal suo ultimo romanzo, L’ERBA CATTIVA), di una moltitudine di paesani venuti a Roma con gli abiti buoni per la cerimonia, si riflette la virtù principale dello scrittore Andrea Carraro: uno sguardo lucidamente asentimentale (ma non cinico), impudico, capace cioè di catturare dentro i sentimenti il loro risvolto buio, avvelenato o incandescente (e la lava ritorna nelle descrizioni del paesaggio).
Ma perché proprio una vicenda di paesani, di abitanti di un paesello vicino alla capitale, esattamente come nel precedente romanzo IL BRANCO? In verità le analogie tra i due libri sono molte e a tratti si ha quasi l’impressione di un autorifacimento. Appunto: lo stesso setting (forse nessun altro scrittore ci descrive questo territorio ibrido, né rurale né urbano, tra cascine e megadiscoteche, che pure sarà, probabilmente, il nostro scenario futuro), poi il delitto e il castigo, e la corsa disperata in vespa dell’autore del delitto per le stesse campagne; e, soprattutto, la contrapposizione tra immagini di una felicita’ domestica e domenicale, e di una realtà straziante, luttuosa.
Dunque, L’ERBA CATTIVA. Unde malum?, si interrogavano caparbiamente i teologi. ‘Perché, perché, perché ‘…, così si conclude il romanzo (ricordiamo il piccolo Useppe della Storia morantiana). Le pagine di Andrea Carraro, con quel parricidio cruento e quella esecuzione quasi guidata dal fratello maggiore che invece non la compirà materialmente (i Karamazov?) si affidano alla parabola della mietitura.
Cosa spinge Tonino, il più piccolo dei fratelli, ad ammazzare il padre con una pala da giardiniere? La visione della madre con l’occhio pesto, picchiata per l’ennesima volta dal coniuge ubriaco? II divieto oppostogli dal padre a fare il calciatore professionista? No, la risposta che indirettamente offre il romanzo di Andrea Carraro rifugge, credo, dalla psicologia e dai condizionamenti dell’ambiente (che pure ci sono), e si infila invece in una zona tenebrosa dell’animo, umida e fangosa, come quella grotta delle streghe qui evocata. E, ci avverte l’autore, l’azzurro limpido del cielo convive con la neve sporca e le case miseramente scalcinate.
Forse l’erba cattiva si potrà separare da quella buona il momento della mietitura (della maturità), però la mietitura della parabola coincide con la fine del mondo. La salvezza dipende certo dai sentimenti, dalla felicita’ di vivere, di cui prova nostalgia il padre quando si siede, dolorante, sulla montagnola per veder arrivare, in religiosa concentrazione il treno di mezzanotte. Ma quel ricordo prezioso di gioventù ormai passa via veloce, senza lasciar traccia, come il fulmineo e roboante locomotore.
Rispetto al precedente BRANCO questo romanzo conferma alcuni talenti sicuri del suo autore (anche se con qualche ripetitività). Una prosa referenziale, meticolosa, che si impenna in qualche lirismo cromatico (in verità trattenuto) nella descrizione del paesaggio. Una mano felice nel tratteggiare i momenti corali (come il già citato funerale sul sagrato di San Lorenzo, o le scene nell’interno familiare) oppure le scene di movimento (la scorribanda in moto a Roma il sabato sera). Poi un lavoro scrupoloso, appassionato, fatto sulla lingua parlata di questi inafferrabili, accidentati soggetti sociali (non ragazzi di vita, non ceto medio), con un orecchio molto attento a incroci e innesti inediti: ‘Non ne vole sape’!’ (e non: ‘nun ne vo’ sape’!’). Nelle espressioni e nei borbottii gergali (ai limiti dell’afasia) si nasconde come una scandalosa, totale inconsapevolezza di sé.
Debenedetti parlò della calata dei brutti nel romanzo contemporaneo. Qui ad essere brutta e’ anzitutto la lingua che parlano (e che li definisce interamente). Ma perché insistere nel ritrarre l’epopea cruenta e miserabile dei paesani, dei burini? Forse perché in questa specie di periferia sterminata, che parte dalla città e si perde nello spazio e nel tempo, dentro una memoria quasi arcaica, ritroviamo delle passioni che certo nascono dalla tristissima omologazione piccolo-borghese, ma che conservano ai nostri occhi una nudità, una natura quasi ferina.
A. Guglielmi – L’Espresso –
Di Andrea Carraro avevo letto e apprezzato ‘II Branco’. Il romanzo che, dopo un esordio per cosi’ dire clandestino, lo aveva rivelato. Raccontava la storia di uno stupro, che si concludeva con la morte della vittima, compiuto da un gruppo (folto) di ragazzi (quasi adulti) residenti in un piccolo paese alle porte di Roma; Di quel romanzo non apprezzavo il valore documentario e di testimonianza che pure possedeva (sa fare meglio il cinema e la televisione) sul degrado delle periferie urbane (complice l’ignoranza e lo spirito di rapina) e la deriva giovanile a quel degrado connessa; piuttosto apprezzavo quel senso di ineluttabilità tragica che il romanzo mi comunicava e che sembrava avere a che fare, prima ancora che con una particolare congiuntura di miseria e di abiezione, con la ferocia dell’esistenza e il suo (misterioso) male.
La violenza dei giovani stupratori come il dolore della vittima superavano ogni limite (ragione) in grado di giustificarli e si ponevano come un grido assoluto (e altissimo) che squarciava ogni possibilità di pur irragionevole motivazione. Niente di tutto questo in L’ERBA CATTIVA, secondo romanzo di Andrea Carraro intanto diventato un valente giornalista e un buon osservatore (e descrittore) di fenomeni sociali. E a dire il vero anche L’ERBA CATTIVA non va al di là di una evidenza per così dire giornalistica, anzi manifesta rispetto a un reportage (quelli che dell’autore leggiamo sull’Unità) un che di più sciatto e allentato, dovuto alla necessità di accogliere un dato di realtà (materialmente accettabile) in una finzione narrativa che, alla prova dei fatti, si rivela un raccontino qualunque.
Una famiglia con una madre paziente angelo del focolare, un padre alcolizzato che la picchia e tre figli: uno buono e lavoratore (fidanzato con la più bella del paese); uno brutto e cattivo (frequentatore di cinema a luci rosse e di viados), il terzo, il più piccolo, alto, maleducato e sognatore. Il paese in cui la famiglia abita è (ancora) uno dei tanti intorno a Roma, in cui durezza del lavoro e ignoranza si mischiano con gli ingannevoli miraggi della grande città. Il padre perde il lavoro (di muratore) perché sempre ubriaco, si incattivisce, e’ manesco con moglie e figli. Un po’ per amore e un po’ per odio impedisce al figlio più piccolo (e più sensibile) di avere un futuro di calciatore: preferisce che cominci a lavorare nella bottega di un artigiano amico. Il figlio perde se stesso e la testa e uccide il padre. Ci saremmo aspettati che a farlo fosse il figlio brutto e cattivo. Ma è l’unica sorpresa che il romanzo ci riserva.
N. Fano – L’Unità –
II nuovo romanzo di Andrea Carraro (L’ERBA CATTIVA, Giunti, pp.158, L.20.000) rappresenta un azzardo e una novità nella nostra narrativa: usa lo sport al pari di una metafora classica. Ulteriore azzardo e ulteriore novità: quest’uso è funzionale alla costruzione di una tragedia che, nell’era televisiva della morte virtuale e industriale, sembrava operazione impossibile. La storia è quella di tre fratelli e dei loro genitori. Il padre è un uomo introverso e alcolizzato che ha perso dignità e stipendio a causa del proprio vizio (è rimasto vittima di un incidente sul lavoro in stato di ubriachezza). La madre è la prima vittima delle frustrazioni del marito, che la umilia e la picchia ogni sera. I tre figli cercano come possono di difendersi da questo clima sinistro: il più grande facendo progetti per sposarsi e abbandonare la famiglia, il secondo affogando tra cinema a luci rosse e travestiti, il più piccolo (ancora minorenne) sognando un futuro da calciatore. Proprio nel momento in cui per quest’ultimo si prospetta la possibilità di un ingaggio da professionista, le contraddizioni della famiglia esplodono nell’estrema violenza: il padre vieta al figlio di continuare a giocare al calcio perché il mediatore del trasferimento nella nuova squadra è proprio l’uomo che lo ha licenziato, e il figlio, dopo l’ennesima aggressione alla madre, scioglie l’ira nel parricidio.
LA PERIFERIA ROMANA
L’ambiente è quello della periferia romana (già descritta dall’autore nel precedente romanzo, IL BRANCO) ma l’intreccio di passioni represse, miserie morali e violenza diffusa e’ tipico ormai di una gran parte della società del cosiddetto benessere ben al di là dalle singole periferie: come se la parte ricca del mondo fosse ridotta a grande periferia degradata di se stessa che confonde la realtà con la sua più conciliante rappresentazione televisiva. Noi tutti, ormai, si vive come in un telefilm, eludendo ogni possibile concretezza con mille trucchi: sicché i romanzi di Andrea Carraro, benché paiano descrivere all’apparenza le sole, proverbiali ‘periferie degradate’, finiscono per allargare lo sguardo ben oltre.
Un loro primo obiettivo è separare la realtà da qualunque sua rappresentazione, accompagnando il lettore di volta in volta dentro il punto di vista dei singoli personaggi. Cosi, per esempio, per raccapricciante paradosso, pare spiegabile tanto che un padre umiliato dalla miseria possa cedere all’alcolismo, quanto che un figlio possa uccidere il proprio genitore perché gli ha negato di diventare un divo del calcio. C’è, in questo atteggiamento narrativo, un tratto pasoliniano. Andrea Carraro non giudica i suoi personaggi. Si limita a descrivere con passione letteraria il loro punto di vista, che se dovesse giudicarli non potrebbe far altro che assolverli. In ciò i suoi romanzi (fin da quello d’esordio, A DENTI STRETTI del 1990) vanno precisando una poetica politica che ne L’ERBA CATTIVA si delinea definitivamente nella prevedibilità sociale della tragedia.
LA LEGGE DEL ‘CAPO’
Le serate al bar, le notti in città, le cene mute davanti alla televisione che ronza bestialità, gli scherzi atroci fra amici, il lento affermarsi di uno spirito comunitario aberrante per cui si è responsabili di se stessi solo di fronte e rispetto all’etica e alla morale (all’assenza di etica e di morale) del ‘capo’: questi sono gli ingredienti del coro ordito da Carraro. Tanto fedele al modulo classico, che l’epilogo cruento non è descritto direttamente ma raccontato dopo che s’è consumato dietro le quinte. Ma non è solo un romanzo su un mondo messo ai margini e incattivito: e’ un libro che narra colpe e ragioni di ciascuno facendo intendere che il problema non è assolvere o condannare ma capire.
E’ un brutto mestiere, capire: al limite dell’opzione impossibile, giacché va sempre a finire che il segreto è che non c’è segreto, specie in letteratura dove tutto accade dietro lo schermo rassicurante di personaggi nei quali il lettore può comodamente nascondersi. Portare in scena il destino (o il FATO, alla maniera classica) rischia di apparire quasi ridicolo, ma effettivamente l’azzardo di Andrea Carraro sta nella scelta di far parlare più gli ambienti e la correlazione fra essi e i fatti, piuttosto che non i personaggi in senso stretto. La lingua stonata (ex-romana o neo-romana a seconda che sia parlata da indigeni o immigrati) segna di se’ solo in parte le pagine di questo romanzo; è meno stilisticamente significativa di quanto non lo fosse, per esempio, nell’opera precedente dell’autore. Nel BRANCO, anzi, la lingua (ex-romana o neo-romana, ancora una volta) era l’unico schermo tra il lettore e la violenza dei fatti descritti. Da questo punto di vista, Carraro ha fatto un passo in avanti: la visibilità della mediazione letteraria è ridotta al minino. E la realtà si manifesta perse stessa.
L’EQUIVOCO DELLO SPORT
II nodo, come sempre, è accordarsi su quale realtà. E Carraro ha scelto (in anticipo sui tempi, si direbbe, come anteveggente fu l’idea di descrivere uno stupro nel BRANCO) l’equivoco dello sport. Uccidere o morire di calcio significa uccidere o morire per un’illusione: L’ERBA CATTIVA racconta che tale illusione è indotta dall’esterno. E non è ormai certezza che esso ha pervaso delle sue abitudini potentati economici e partiti politici modificando con ciò l’impatto giocoso che aveva sempre avuto sulla società? È diventato una metafora della sottomissione dei destini ai poteri, il calcio. E come tale Andrea Carraro lo ha usato nel suo nuovo romanzo.
M. Capuano – LIBERTÉ –
“La storia privata di uno dei ragazzi del Branco”. Così Andrea Carraro parla del suo nuovo romanzo “L’erba cattiva”. Dopo le polemiche suscitate dal suo precedente libro che ha ispirato a Marco Risi l’omonimo film “II Branco”, il giovane scrittore romano torna a raccontare la violenza di un ambiente sociale ultradegradato, quello dell’hinterland di Roma, ma sposta il punto di vista all’Interno della famiglia. “Ho cercato di mettere al centro del romanzo – dice Carraro – un tema che negli altri miei libri faceva da sfondo: il rapporto conflittuale tra padri e figli. Questo mi ha consentito un maggiore approfondimento psicologico del personaggi”. “II genitore in questione – continua l’autore – non è iI classico padre-padrone anche se conserva queste caratteristiche. È un alcolizzato che precipita in un isolamento voluto trascinando in questa spirale i suoi tre figli”. Uno di questi vuole dedicarsi professionalmente al calcio e da qui si scatena la tragedia che Enzo Siciliano definisce, nella nota editoriale, “di quelle arcaiche, che sconvolgono i sentimenti più profondi, la natura stessa dell’uomo”. II confronto è tra più voci in un dramma, comunque, al maschile. “Nel “Branco” – dice Carraro – tutta l’azione era vista solo da Raniero, iI protagonista. Ora la visuale è allargata a più persone”. Altra differenza sostanziale di questo libro rispetto al precedente sta nell’uso del dialetto. “In questo caso – afferma Carraro – uso forme dialettali un po’ imbastardite dell’hinterland romano con minor attenzione al rigore filologico e un maggiore utilizzo in chiave emotiva. Lo adopero soltanto quando voglio avvicinarmi alle situazioni più dure della realtà che sto documentando”. La violenza – continua lo scrittore – “non viene rappresentata ma affidata al dialetto soltanto nei dialoghi fra giovani, nei momenti di cameratismo o nei litigi. Non in tutto il libro”. Un linguaggio più misurato appartiene alla madre; figura femminile di grande importanza ma in secondo piano. “Mi concentro sui personaggi maschili soprattutto – spiega – perché Ii conosco meglio e mi sembra più onesto parlare di quello che so”. Anche “L’erba cattiva” si ispira lontanamente a un fatto di cronaca accaduto però in una zona del Napoletano. Nel romanzo l’ambiente resta comunque quello dei confini di Roma in una zona un po’ metropolitana e un po’ contadina. “È qui che il più buono e conformista dei tre figli – racconta Carraro – incontra uno strozzino che gli dice di aver conosciuto il protagonista del “Branco”. Ho voluto far esplicitamente riferimento al mio romanzo precedente – dice – per non negare una certa continuità fra i due libri”.