Recensioni
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Questo libro – che ha il titolo ironico del «falso movimento» Da Roma a Roma, dove si spazia dal centro alle periferie della città alla ricerca dei nuovi portati di senso antropologico e delle trasformazioni urbanistiche – si apre e si chiude con il ricordo di Pier Paolo Pasolini, che, come scrive Carraro, della periferia romana «fu il primo cantore». Si parte dalla stele in memoria di Pasolini all’Idroscalo di Ostia e si finisce, dopo un lungo viaggio a zig zag, nella Torre di Chia, un rudere medievale, prossimo a Bomarzo, acquistato dallo scrittore nel 1970. In mezzo, le chiese di Centocelle, una scuola di Passo Corese, i tossici di Ostia e la Roma Bene dell’Olgiata e di via Due Ponti, oscure feste di piazza a Torvaianica e performance artistiche nel retroterra romano, e tanti altri luoghi nominati dalle cronache ma sconosciuti a molti di noi.Questi luoghi Andrea Carraro ora ce li fa conoscere con un racconto di prima mano; li attraversa con l’occhio curioso del viaggiatore, con quello impietoso del sociologo e quello visionario dello scrittore; li sviscera, rimettendo in circolo motori dell’immaginario come film, libri, fatti di cronaca; per ricomporre, infine, nel magma complesso di un mosaico, le trasformazioni avvenute in quella terra che sta ai margini di Roma, dove pulsa il cuore impazzito della contemporaneità.
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P. Romano – Incartamenti –
La vera Roma dei quartieri periferici non è quella patinata delle sit-com televisive, né quella esasperata e stereotipata dei luoghi comuni sui bronx metropolitani. Solo da un contatto diretto con essa se ne può avere un’immagine il più possibile vicina alla realtà. è proprio quello che fa Andrea Carraro, in un insolito libro-viaggio dove il reportage non affronta mete esotiche ma le borgate della Roma di oggi. Il suo è un reportage che potremmo definire ‘post-pasoliniano’, ed è proprio dall’autore di ‘Ragazzi di vita’ che Carraro parte per compiere un percorso nuovo e attuale. Da vero giornalista-scrittore, Carraro sa miscelare bene i due generi, dando luogo ad una prosa scorrevole, capace di captare l’attenzione del lettore, ricca di informazioni come un reportage, avvincente come un romanzo che ha per protagonista la vita reale ed i suoi personaggi colti dalla strada. Come Pasolini, il giornalista prende i suoi protagonisti sui marciapiedi e nelle case, ci racconta come si vive all’ombra della città eterna, senza tanti romanticismi. è una Roma per certi aspetti inedita e sorprendente, una città nella città, una metropoli dalle mille facce pullulanti di vita e di contraddizioni. Non è improbabile che da questo libro, come è già avvenuto per altri dello stesso autore, qualcuno possa trarre la sceneggiatura per un film.
D. Tomassi – Conquiste del Lavoro –
Descrivere Roma non è affatto un’impresa facile. è una città ricca di segreti, di sfumature, a volte calorosa e aperta; altre ermetica e impenetrabile. Conoscerla richiede tempo, pazienza, ma soprattutto amore. Molti libri sono stati dedicati all’urbs per eccellenza, ma la prospettiva che adotta l’autore di Da Roma a Roma – scrittore e giornalista, noto soprattutto per Il Branco, trasformato da Marco Risi in un celebre film – è quanto mai originale. Ogni capitolo parla di una borgata, di un quartiere o di un paesino limitrofo, e tutte queste descrizioni si incastrano come pezzi di un puzzle pieno di incongruenze e contrasti. Lo stile secco e asciutto descrive delle realtà ‘ai confini’, sconosciute non solo per chi a Roma non c’è nemmeno mai stato, ma anche per chi ci vive. Molti sono i quartieri esaminati: da quelli più ricchi, come l’Olgiata e Casal Palocco, a quelli più degradati come Centocelle e la Casilina. Ma anche l’hinterland diventa parte integrante della città: da Fiano Romano a Calcata si approfondiscono i legami di dipendenza e quelli di emancipazione. Oggi Roma è una città di corsa, piena di mutamenti, dominata dal suo stesso caos, comunque amata e riconosciuta in tutto il mondo. Ma ciò che interessa veramente all’autore non è parlare dei suoi pregi e delle sue bellezze, quanto porre l’accento su quelle zone meno conosciute e meno esplorate, che non vengono citate nelle guide. Per farlo si reca ai margini della città, nelle zone d’ombra, a raccogliere testimonianze dirette. Ma il libro vuole anche celebrare la memoria di Pasolini: si apre infatti con l’autore che si reca sulla sua tomba all’Idroscalo di Ostia, e si chiude con la visita alla torre di Chia, alle porte di Bomarzo, acquistata dal celebre scrittore e regista negli anni Settanta. Un viaggio dunque attraverso Roma e le sue periferie, nei luoghi meno pubblicizzati per darci uno spaccato assolutamente vero e autentico di questa città. Così, con l’occhio attento ed impietoso del reporter, Carraro ci accompagna al SerT di Ostia, alle grotte di Viale Tiziano, a Decima. I personaggi che si incontrano e che popolano il libro, fanno parte di un’umanità lacerata, sono parte integrante del luogo in cui vivono, e da esso sono continuamente influenzati. Ogni capitolo parla di una realtà specifica e a se stante, e quasi si fatica a credere che facciano tutte parte della stessa città, ma Roma è soprattutto questo, mille luoghi e mille anime. Non un insieme unitario, ma piuttosto frammentato e irregolare. Paesaggi stravolti, nuove infrastrutture, nuove abitazioni: è difficile farsi veramente un’idea di quanto questi spazi siano cambiati negli ultimi trent’anni se non hai vissuto quei mutamenti. Ciò che emerge è una città strettamente legata al suo suburbio, dove non sono più chiari e definiti i confini, e nuove realtà territoriali stanno crescendo. Una città in pieno sviluppo, di cui c’è ancora molto da raccontare.
ezrome.it –
Andrea Carraro, in Da Roma a Roma, pubblicato da Ediesse, ci porta in un viaggio che parte dalla capitale e ad essa ritorna, attraverso il suo sguardo sui quartieri, gli abitanti, i loro commenti, l’ieri e l’oggi. è una città che è continuamente capace di sorprenderlo, ma soprattutto è la sua città, di cui conosce bene, come tutto ciò che ci è intimo, i vizi. Presenza discreta quella di Carraro, grazie a un linguaggio scarno, che descrive ciò che vede senza mai giudicare, né volersi sostituire ai veri protagonisti. Lo si immagina camminare attraverso vestigia romane e borgate sterrate, parlare con gli abitanti di lussuosi residence e con chi la residenza neanche ce l’ha, e vive circondato dei pochi oggetti che è riuscito a raccattare per strada. La sua voce è sempre vera e le parole spontanee, che si tratti di riferire un fatto storico, oppure un’imprecazione urlata per strada. Parte dal luogo che vide gli ultimi momenti di uno tra i suoi più grandi cantori, il viaggio dentro Roma, l’Idroscalo di Ostia, con la sua stele a Pier Paolo Pasolini. è come un pellegrinaggio in sua memoria, fatto pestando la dura sabbia ferrosa. Gli occhi vanno dal cielo azzurro al mare grigio ferro, dalle piante selvatiche ai cocci e all’immondizia. I rumori sono quelli della risacca e dello scalpiccio dei propri passi, i soli, forse, che sarebbero adatti a fare da sottofondo all’ineguagliabile realismo delle parole dello scrittore. La mente va alle tante scene cinematografiche che hanno avuto nella stele il loro protagonista principale, come Amore Tossico, di Claudio Caligari, alle note di A Pà, di Francesco De Gregori, o alle pagine di Vita di Pasolini, di Enzo Siciliano, per poi tornare alla realtà. ‘Per terra, sotto la bianca stele di Pasolini, l’unico omaggio floreale: una bottiglietta della Coca Cola con alcune pianticelle rinsecchite dentro, su cui stanno aggrappate quattro lumache’. ‘Il quartiere non è più come una volta’, dice un vecchio che abita a San Lorenzo, e in effetti girando per le sue vie si incrociano studenti universitari, artistoidi fricchettoni, musicisti punk e pensionati anonimi. Nei suoi ricordi c’è ancora il bombardamento del 19 luglio 1943, in cui lui riuscì a salvarsi, ma perse la madre e la sorella. Nei giorni precedenti, gli aerei americani per ben quattro volte avevano lanciato nel cielo di Roma volantini in cui avvertivano la gente di mettersi in salvo, lontano da obiettivi militari come ferrovie, aeroporti e caserme. ‘Ma nessuno l’aveva presi sul serio… E alla fine ci furono 1486 vittime’. Un acquazzone che preannuncia l’estate, una donna che urla in un telefonino, due ubriaconi dagli occhi annacquati e i rintocchi delle campane di mezzogiorno dell’Immacolata. Anche questo è San Lorenzo, dove accanto a un palazzo cadente ne risplende uno fresco di restauro, e dove un ubriacone e un giovane impegnato nel sociale, camminano sullo stesso marciapiede. è un quartiere che non dà mai l’impressione di decadimento e abbandono. è rimasta come l’aveva voluta Pasolini, la casa nel complesso della Torre di Chia. Lo scrittore aveva scelto questa costruzione medievale a Bomarzo, non lontano da Roma, ma già in provincia di Viterbo, per poter scrivere e pensare. Attorniata da querceti, la casa è piuttosto essenziale, fatta di legno, di cemento, e del vetro delle grandi finestre, che guardano sul bosco vicino al quale scorre il torrente di Chia. Camminare per queste stradine, tra la fitta vegetazione e le acque del torrente, fa capire cosa intendeva Pasolini, quando diceva di voler abitare la natura. Qui, nel 1964, girò Il Vangelo secondo Matteo, in particolare la scena in cui Giovanni Battista battezza Gesù nelle acque del fiume Giordano. Sempre qui, scrisse alcune fra le più belle pagine di Lettere luterane, e cominciò a scrivere Petrolio, uscito postumo e incompiuto. Oggi la Torre di Chia è di proprietà di una cugina di Pasolini, Graziella, che custodisce la memoria di uno di uno dei più grandi scrittori, poeti e registi dei nostri tempi. Tra le tante, mostra una foto di Pasolini, ‘intento a scrivere a penna reggendosi la testa pensosamente’. Inizia e finisce con Pasolini, il viaggio dentro Roma, come un cerchio che si chiude, delimitando quello che è interno a lui e quello è esterno. Centro e periferia, scorci ed emozioni, bellezza e degrado, poesia e rabbia. Ma forse, proprio perché un cerchio non ha né un inizio né una fine, è impossibile definirne esattamente il percorso. Meglio, allora, come ha saputo fare Andrea Carraro, lasciarsi guidare verso un luogo dalla curiosità, imparare a conoscerlo attraverso le pagine di un libro, ricordarlo come la scena di un film. E soprattutto, sentire un paesaggio, vivere un quartiere, non coprire con la propria voce quella di chi ci cammina intorno. Insomma, meglio lasciar parlare Roma.
L. Cotrozzi – Tra Gli Scaffali –
Perché bisognerebbe leggere un libro che racconta d’una città? Non certo per poterla visitare, l’occhio sarebbe rivolto solo a quelle cose che nel libro sono raccontate, perdendone indubbiamente altre. Bisognerebbe avere la fortuna di averne uno che esplori luoghi che a nessuno verrebbe in mente di considerare come orizzonti di viaggio. La Ediesse ha avuto questo coraggio, facendosi mentore per il principio ispiratore di Da Roma a Roma, dello scrittore Andrea Carraro, già autore di libri come Il branco, la raccolta di racconti romani La lucertola, L’Erba Cattiva fino a questo Da Roma A Roma, che racconta lo stato attuale dei margini d’una delle città più antiche d’Europa e Capitale d’Italia. Un viaggio, che con quella ch’è la tradizione narrativa propria del giornalismo, usa il candore del curioso reporter per cantare la vita umana delle periferie romane. Fu Pier Paolo Pasolini, a tracciare quelle linee narrative che Andrea Carraro dimostra d’aver capito e assimilato così bene che ‘Da Roma a Roma’ non poteva certo iniziare il viaggio se non dal luogo in cui è posizionata la stele che i romani chiamano infame: una lunga curva scura sormontata da un bel cielo azzurro solcato da striature rossastre, e lambita dalla tavola del mare grigio ferro, quella stele che all’Idroscalo di Ostia è oggi solo la memore presenza della fine cruenta d’un uomo libero, per questo infame, perché segno dell’intolleranza verso il pensiero altrui. Così, in una sorta di quadratura del cerchio, alla fine si arriverà dopo un lungo viaggio, nella Torre di Chia, un rudere medievale, prossimo a Bomarzo, acquistato dallo scrittore nel 1970. Nel mezzo, le chiese di Centocelle, una scuola di Passo Corese, i tossici di Ostia e la Roma Bene dell’Olgiata e di via Due Ponti. Le magiche feste di piazza a Torvaianica saltando da Fiano Romano ai teatri sulla via Tiberina e tanti altri luoghi conosciuti magari solo dalle cronache ma sconosciuti ai più. ‘Non sono un critico, ma sono un uomo a cui piace moltissimo giudicare’, ammette Carraro. ‘Direi che esercitare il giudizio risponde a un’esigenza della mia anima. Qualcuno dice che il giudizio di valore sia il primo atto di ogni processo conoscitivo. Non so se questo è vero fino in fondo, ma vorrei che lo fosse’. Eccola dunque la chiave di lettura, unica per uno scrittore come Carraro, che in questo suo Da Roma a Roma è come francigena via. Carraro ha sempre affiancato la sua attività di romanziere a quella di reporter, osservatore impietoso della società italiana con uno stile dal registro rigidamente realista, eppure anche in questo suo lavoro editoriale, la sua poetica non si lascia sopraffare dal piglio giornalistico. Non di rado lascia andare la sua penna a tracciare scorci impossibili dell’animo umano, quei scorci che sono l’anima d’una qualunque città e che di Roma sono segno eterno. La povertà estrema come la ricchezza e la caparbia volontà d’essere città d’integrazione. Proprio nel capitolo dedicato a Torvaianica c’è l’esempio più poetico. Nel racconto d’una Torvaianica imperiale, artistica e della serata di quel Festival dei Sconosciuti che Teddy Reno ha inventato e presieduto da sempre, Carraro lascia che l’immaginazione racconti… ‘Chissà che avrebbe scritto su questa serata Pasolini, cerco d’immaginarlo. Mi chiedo cosa sia che attrae invece me in questo luogo. Questo posto pieno di gente – posso azzardarmi a dire – quel che un tempo era il popolò. Cos’è che ci spinge a leggere un libro che racconta d’una città dunque? L’infinita voglia d’imparare e capire il come si possa essere cittadini al di la dei preconcetti.
booksblog.it –
Un reportage che inizia e finisce nelle periferie di una grande metropoli Roma, esplorando luoghi che a nessuno verrebbe in mente di considerare orizzonti di viaggio da scoprire. è questo il principio ispiratore di ‘Da Roma a Roma’, dello scrittore Andrea Carraro, già autore de Il branco, che racconta lo stato attuale dei margini della Capitale d’Italia. Il viaggio inizia dal cantore per eccellenza delle periferie romane, Pier Paolo Pasolini, partendo dal luogo in cui è posizionata la sua stele, ‘una lunga curva scura sormontata da un bel cielo azzurro solcato da strinature rossastre, e lambita dalla tavola del mare grigio ferrò. Ci sono poi le chiese di Centocelle, quella cattolica di via Palmiro Togliatti e quella evangeliche pentecostali di via dei Ciclamini (dove la messa finisce facendo ‘un bell’applauso a Gesù’). Passiamo poi a conoscere realtà di accoglienza e solidarietà ai margini, come la casa per bimbi e ragazzi portatori di handicap di Grottaferrata ‘Villaggio Littà, gestita da padre Jacques, che è arrivato dal Burkina Faso per essere punto di luce per i giovani disabili del quartiere e non solo. Oppure gli ‘angeli con la siringa’ di Ostia, l’unità di strada Magliana 80, che fornisce ai tossici di zona siringhe pulite e profilattici in cambio di aghi usati, in modo da preservare dai contagi di Hiv chi non può fare a meno di bucarsi. E poi ti capita, in mezzo alla solita ‘vippata’ estiva di Torvajanica, di guardarti intorno e di pensare che la gente che siede sotto al palco allestito sul litorale sia diventata gggente, e non sia più popolo, come teorizzava Pasolini stesso, d’altronde. C’è anche tempo per una sortita dallo ‘zozzone’ sulla via Tiberina, un posto leggendario per come si mangia ma che è poco più ‘di un pollaio lercio e maleodorante, servito da due coniugi sdentati, una canotta ingiallita e tutta macchiata di sugo e un paio di pantalonacci lui, una vestarella stinta e ingozzita lei’ (e purtroppo la buona fama della loro cucina non si dimostrerà tale). C’è anche la divertente sortita ad un golf club di Due Punti, dove il nostro intravvede anche Piero Marrazzo circondato di pariolini, e viene poi scacciato via con l’accusa di scrivere per un giornale comunista (L’Unità). Ma la ricompensa verrà ottenuta perché l’autore farà pipì su un albero secolare col figlio di sei anni, per cui è anche riuscito a rubare una palletta. E che dire della crociera in battello sul Tevere, durante la quale ai turisti tocca guardare, oltre al meraviglioso profilo di Castel S. Angelo, anche i cumuli di immondizia e le baracche dei barboni sotto i ponti? Si prosegue la lettura con la curiosità di sapere cosa mai potrà scoprire l’autore sulle pizzerie di San Lorenzo (spartane, ma con i prezzi rincarati), o sul quartiere Africano. Visita negata, in un primo momento, anche al quartiere ‘sottochiave’ dell’Olgiata, mentre guida per l’area di Tor Vergata sarà il randagio Buck (‘si, proprio come il protagonista canino de Il richiamo della foresta di Jack London’) che lo ‘scorta’ a conoscere gli abitanti del quartiere che si prendono cura di lui.
D. Naibone – Liberazione –
‘Da Roma a Roma’, l’ultimo libro di Andrea Carraro, sono pagine in movimento. O ‘in falso movimentò, come spiega l’autore di questo viaggio ‘da Pasolini a Pasolinì attraverso le tante periferie della metropoli. Tutto ha inizio dall’Idroscalo di Ostia: un breve ricordo di quello che è stato il primo cantore delle periferie romane e un piccolo omaggio al Nanni Moretti di Caro Diario che, a bordo della sua vespa bianca, ha percorso la stessa via, con la stele di Pasolini sullo sfondo, dalla quale è partito Andrea Carraro. Di Pasolini, però, nel libro c’è ben poco. Il motivo è chiaro: oggi Roma è un’altra Roma. Di Pasolini c’è il ricordo. C’è l’Idroscalo, da dove ci si mette in cammino, e c’è la Torre di Chia, rudere medievale vicino a Bomarzo, che lo scrittore acquistò nel 1970. è qui che il viaggio finisce. In mezzo ci sono le tante Roma. C’è la Roma di Centocelle, il più pasoliniano dei quartieri dopo il Pigneto, con le sue chiese che si ergono subito dopo aver abbandonato via Casilina: qui l’autore ci accompagna attraverso il cuore del quartiere, piazza San Felice da Cantalice, ci mostra alcuni vecchi che chiacchierano e fumano e ci fa ascoltare la musica proveniente dallo stereo di una macchina parcheggiata alla ‘romana’, di sbieco contro il marciapiedi. Il capitolo su Grottaferrata, ricco comune alle porte di Roma, scorre via veloce: brevi descrizioni e una rapida storia, quella di Padre Jacques, sacerdote cattolico che presto tornerà nel suo Burkina Faso, ma che intanto vive e opera in un centro assistenziale per l’infanzia. Per qualche pagina ci spostiamo a Passo Corese dove incontriamo Amady J., ‘la figlia del vù cumprà’ e scopriamo quanto sia difficile integrarsi fra i suoi coetanei per una bambina il cui padre, immigrato anni fa, è uno ‘sporco marocchinò. Da Roma a Roma ha questa prerogativa: a volta ci catapulta, altre ci guida, in varie zone della e intorno alla capitale per mostrarci luoghi, presentarci personaggi, raccontarci storie che non passeranno inosservati. Nulla è lasciato al caso. Ogni capitolo è al suo posto. Ostia, con i suoi tossicodipendenti, accennati nella prima pagina del libro in omaggio al film ‘Amore Tossicò di Claudio Caligari, e le loro storie. Monte Sacro, ‘quartiere della media borghesia, non certo dell’Inghilterra vittoriana’, in cui Daniel, filippino, con la moglie Herminia facevano i domestici presso una ricca famiglia. Quindi Torvaianica. Il mare. La classica ‘estate romana’ dove un evento mediocre assume la valenza di grande momento culturale. Lungo la via Tiberina, ‘consolare anomala perché, manca, a differenza delle altre, di un’urbanizzazione periferica in prossimità di Roma’, seguiamo i Teatri di Strada. Paesi come Gallese, Montebuono, Vescovio, Filacciano, Calcata, Fiano Romano saranno scenario di spettacoli itineranti. Il ritorno a Roma non sarà, visivamente, dei più semplici: Tor Vergata, infatti, non è una normale periferia ma un mega quartiere universitario modernissimo, eretto in mezzo a tre borgate: Torre Angela, Tor Bella Monaca e Giardinetti. Qualche segno delle proteste studentesche e una serata al Barrio Latino, fra un mojito e una pina colada, ci faranno respirare l’aria di una ex borgata trasformata in un’unica, redditizia, residenza universitaria. In poche pagine, Andrea Carraro racconta venti anni di ceti popolari espulsi per lasciare il posto a remunerativi studenti fuorisede. è il fenomeno della gentrification: nel libro non se ne parla, ma si sente nell’aria. Da qui in poi inizia un vero e proprio ‘reportage nascosto’ fra le borgate: da una parte Fidene, ‘vestigia di plastica’, immensi palazzoni e muri imbrattati da slogan fascisti, dall’altra Due Ponti, con le sue ‘palline da golf’ e i suoi circoli sportivi esclusivi. Mentre ci si avvia alla fine di questo viaggio ‘in finto movimentò si rimane ammaliati dalle maestose rovine del Parco Appio Claudio, ipnotizzati dai ricchi viali dei Parioli, rapiti da un San Lorenzo, oggi centro della movida romana, ormai lontano parente del quartiere unicamente popolare di una volta ma rimasto comunque con lo stesso humus: ‘quello die davvero non vedi a San Lorenzo è il manager rampante, ne alcuno che cerchi di imitarne l’abito e i modi’. Tutto il contrario rispetto all’Olgiata: qui non ci sono scritte sui muri ma guardie giurate che controllano l’accesso alla zona residenziale. Nessuno può entrarvi, neanche uno scrittore-giornalista per fare un reportage. Bisognerebbe avere un permesso impossibile da ottenere. perché, ‘l’Olgiata è una proprietà privata. Ha capito? PRI-VA-TA. Lo scriva nel suo libro. PRI-VA-TA’.
G. Rispoli – Rassegna Sindacale –
Da Centocelle all’Olgiata, con qualche escursione fuori città – Fiano, Grottaferrata, Torvaianica e via elencando – questa raccolta di reportage romani di Andrea Carraro – tra suburbi deprimenti, centralissime grotte albergo di barboni, periferici fortilizi per i più ricchi – non casualmente si apre e si chiude con Pasolini: l’idroscalo di Ostia, luogo del suo assassinio, nella prima tappa, e la torre di Chia, un passo da Bomarzo, che lo scrittore-poeta-regista friulano aveva eletto a buen retiro, in quella conclusiva. Diciamo ‘non casualmente’ per il sentimento di devozione, certo, che Carraro nutre nei confronti di Pasolini, ma anche perché qualunque indagine che riguardi ‘mamma Roma’ ai lavori di Pasolini, e alla sua mitologia, è obbligata a ritornare. Non per misurare la distanza da un’età dell’oro mai esistita – la miseria, presente o passata che sia, sempre miseria rimane – ma semplicemente per capire cosa e come sia cambiato: nella geografia urbana e in chi l’attraversa, a Roma e più in generale nel paese. Esemplare, in tal senso, il resoconto di una rimpatriata tra compagni di scuola (Montesacro. La favola dei Servi-Padroni). Una coppia di nuovi ricchi, la cena nel loro attico a Talenti – ‘quartiere residenziale’, come usa definire un posto dove non c’è nulla tranne palazzine e palazzoni a seconda delle tasche, ma il chi è degli abitanti risponde storicamente a un canone ferocemente classista (e tanto più classista, nel caso di cui si narra, quanto più lontano il miraggio dei funerei bunker fuori città) – e una parte di Roma, e dell’Italia di adesso, riassunta tutta in una serata: nel compiaciuto esibizionismo degli ospiti, nella mobilia stile Ad dell’appartamento e soprattutto nei filippini, marito e moglie, assunti a fare da contorno (alla mobilia). I filippini: ‘la coppia’, come li chiamano i padroni di casa nel gergo demenziale che li fa sentire arrivati, costretti nel rigatino blu e nero, immobili dietro i commensali e pronti a precipitarsi a ogni sbadiglio; la coppia, poi in ossequio alla dialettica servo-padrone finalmente ‘liberà – con risvolti un pò sordidi, più Losey che Hegel se vogliamo scherzarci su – insediata nella villa di un ultraottantenne a Città Giardino, cuore antico di Monte Sacro, e inseguita dalla signora di Talenti che, perduto il personalissimo sogno neocoloniale e il posto al sole in cui aveva trasferito il subconscio, comincia a dare visibilmente di matto. Il racconto – asciutto, perfetto – proprio a Pasolini, al suo profetismo amaro sembra alludere: alla riflessione sull’Italia nuova del benessere e su un ceto medio che al sanfedismo dei padri aveva sostituito un edonismo solo in apparenza progressivo. Così accade, tornando all’oggi, che quando scoppia il temporale e piatti e calici e fiorellini debbono essere sgomberati dal terrazzo, e qualche commensale accenna ad aiutare la coppia ormai zuppa, un perentorio ‘vengono pagati per questo’ blocchi immediatamente ogni umano moto di soccorso. Nessuno muove un dito, anche chi magari professa convinzioni che l’altra coppia – quella in borghese – sicuramente non condivide. ‘Ancora oggi mi chiedo come mai nessuno di noi abbia accennato una sia pur pallida protesta. (…) Di più: fra noi quella sera c’erano diversi squattrinati che tali sarebbero rimasti anche negli anni a venire, e altrettanti, me compreso, che professavano idee tutt’affatto progressiste. Eppure nessuno fiatava. (…) Eravamo tutti irretiti da una sorta di delirio d’agiatezza’. Nel suo girovagare per Roma l’autore racconta poi di altri luoghi e di persone meno orrende. Ma la scoperta più forte forse è proprio nella serata di Talenti: in quel lasciar correre, nella parola non detta per non guastare la festa. Un mettersi comodi che le facciate grigie di Centocelle non disturba più. ‘Degrado sopportabile alla vistà, come scrive Carraro.
L. Canali – Il Riformista –
Una frase di Raffaele Manica, nella sua prefazione dell’aspro ma bellissimo libro di Andrea Carraro, Da Roma a Roma, viaggio nelle periferie della capitale, (Ediesse, 2009, pp. 170) – lontano mille miglia dalle classifiche dei libri più venduti – è la migliore definizione di questa recente opera (e non solo) di uno dei migliori scrittori italiani, e forse il più autentico di essi. Ecco la icastica frase: ‘Andrea Carraro è affamato di realtà’. Ma bisogna capirsi: non si tratta dunque del tanto stupidamente vituperato realismo, cioè di un’aristotelica imitazione della realtà, bensì di una realtà divorata e metabolizzata da una superiorità intellettuale e sentimentale che ce la restituisce coinvolgendoci con una simpateticità tanto più emozionante e sublimata nella sfera dell’arte, quanto più espressa da uno stile che si potrebbe definire ‘disadorno’, caratteristica essenziale di ogni testo di Carraro. è opportuno soffermarsi brevemente su questo concetto. Stile ‘disadorno’ significa scrittura priva della sofisticazione effettistica di cui fanno sfoggio non pochi attuali narratori italiani e di ogni compiacimento per il gusto d’una superflua brutalità lessicale di cui fanno strumento di autopromozione altri scrittori, e purtroppo anche alcune scrittrici. La scrittura di Carraro sembra la registrazione di un ‘parlato mediò, ma assolutamente privo di luoghi comuni, chiarissimo anche se a volte apparentemente ‘trascurato’ come quello di chiunque parli correttamente ma senza curarsene troppo. Ma diamo alcuni esempi di questa autenticità tanto più espressiva quanto più ottenuta con assoluta semplicità di mezzi linguistici: il capitolo Ostia. Gli angeli delle siringhe, un luogo dove un medico generico, uno psichiatra e un infermiere volontario ex tossico (Unità di strada Magliana 80) danno siringhe nuove, e quindi non infettanti, ai ‘tossicì che vengono a ritirarle con l’obbligo di restituirle dopo l’uso, che talvolta avviene al riparo d’una siepe, a cielo aperto, ma spesso lontano e il tossico non si cura di restituire la siringa che diventa così un pericolo mortale per se stesso e per gli altri. Qualche riga: ‘i passeggeri dell’Ape sono già presso il pulmino. Si tratta di due fratelli sui vent’anni… sono piuttosto malridotti, specie Mimmo, il più estroso ed eccitato del gruppo, che si annuncia con un Daje Roma! …Indossa jeans sforacchiati, un camicione a righe, una vistosa sciarpa giallorossa. Al medico: ‘Niente sigarette, eh?… Niente caffè. Me dai la mano che pare che c’ho la lebbra’. Il medico: ‘Avete riportato le siringhe?’. ‘Ce l’avemo, ce l’avemo’. Si rivolge al fratello: ‘Ahò, a Albè, ‘ndò cazzo l’hai messe?’. Splendido ma agghiacciante il capitolo Una stele di sabbia all’Idroscalo. Ne riporto le ultime righe: ‘La sabbia è umida e bruna e i miei passi vi lasciano vistose impronte. Non c’è anima viva, tutta la vasta spianata dell’Idroscalo è deserta e posso sentire mescolato allo scalpiccio dei miei passi il rumore appena percettibile della risacca. Via via che mi avvicino la sabbia ferrosa indurisce. Poi diventa terra, sparsa di cocci e immondizie e rare pianticelle selvatiche. Avanzando ancora la vegetazione infoltisce. Ormai cammino nell’erba alta e bagnata, zuppo fino ai polpacci. Ed eccola la stele, in un punto miracolosamente senz’erba alta né terra, né rena dura e nera, né pezzi di vetro, né marmi di cessi corrosi. C’è anzi un bel manto d’erbetta fresca e pulita che si calpesta volentieri. Per terra sotto la bianca stele di Pasolini, l’unico omaggio floreale: una bottiglietta della Coca Cola con alcune pianticelle rinsecchite dentro, su cui stanno aggrappate quattro lumache’. Congesto e insieme gelido il capitolo Quartiere africano. Sotto la circonvallazione: c’è stato un omicidio durante una sparatoria tra rumeni e altri migranti. è sera, il traffico è intenso, i clacson suonano a distesa. La gente commenta malevola. Due uomini al bancone consumano cornetto e cappuccino caldo e commentano. Uno recrimina, l’altro aggiunge: ‘finché se sparano fra de loro io me ne sbatto i cojoni’. Carraro non giudica, le sue parole secche contano più di dieci prediche morali. E giustamente Raffaele Manica conclude così la sua prefazione: ‘si tratta soprattutto di questioni civili e morali presentate in quelli che sembrano universi chiusi, ma che non potrebbero essere rappresentati così senza la massima disponibilità all’osservazione e all’ascolto, che Carraro persegue con la tenacia e la risolutezza che hanno gli esploratori di terre ignote. L’ignoto, si sa, il più delle volte è appena fuori la porta di casa’. Ma continuiamo a comprare Carofiglio, De Luca che pesa le farfalle, e persino Volo che incanta tutti con le sue innocue banalità.
Mario Pellegrini –
Le periferie di Roma, attraverso le quali Andrea Carraro, in veste di reporter, ci conduce nel suo recente libro (Da Roma a Roma. Viaggio nelle periferie della capitale, Ediesse 2009) evocano subito P. P. Pasolini, il cantore delle borgate romane. Ma dagli anni di Pasolini tutto è cambiato: non più casupole, orti, strade sterrate, marane, tricicli e carretti degli stracciaroli, non più botteghe di artigiani, né biciclette, né quell’umanità così disperata sulla quale è ormai passato il rullo compressore di un’omologazione di atteggiamenti, di costumi, di aspirazioni, che sta trasformando tutto e tutti in un’indifferenziata melma urbana. Nelle periferie, un tempo sinonimo di emarginazione urbana, ora – come le descrive l’autore – sono sorti enormi centri commerciali dalle luci sfavillanti, palazzoni, sale di videogame, discoteche, mercati coperti, palestre, ristoranti cinesi e multietnici, ma anche chiese, ‘cuori pulsanti dei quartieri’. Tuttavia non è scomparso il degrado ‘a volte sopportabile alla vista’, altre volte inimmaginabile perché a Roma, la città abusiva per eccellenza, mancano ancora in molte zone servizi e adeguati mezzi di trasporto, palazzoni di dieci piani incombono uno di fila all’altro sui margini di strade sempre intasate di traffico e affogate dallo smog, e spesso cumuli di immondizie o di motorini abbandonati sono disseminate lungo le strade o nelle scarpate; dove un tempo c’erano prati ora si allineano capannoni di lamiere, depositi di materiali edili, o di rottami, spiazzi cementificati divenuti parcheggi disordinati di automobili. Con lo sguardo a 360 gradi, Carraro ci conduce attraverso questi scenari con la sua prosa asciutta, tra descrittiva e narrativa, potata dai rami superflui della retorica e del moralismo. Pur essendo attratto dalla gente che popola questi luoghi topograficamente e antropologicamente interessanti per scrittori e sociologi, l’autore li racconta senza eccessivo compiacimento, quasi con distacco, ma la sua voce diventa stizzita e decisamente malevola o di malcelato fastidio alla vista di ‘punk attempati e un po’ patetici con cinturoni neri, borchie, una striscia di capelli colorati sul cranio rasato’, o di due naziskin contro un muretto, ai quali avrebbe voglia di dire: ‘ma a che servono quelle mutrie canagliesche, quella ridicola mascherata da teppisti impenitenti, tempo una decina d’anni e sarete spiccicati a noi con la chioma, le smorfiette, gli attimini e tutto. Tanto vale che cominciate subito!’. Ironica invece la presentazione della ‘fauna’ che popola Calcata (l’autore si spinge anche in luoghi vicini alla città e di particolare interesse), ‘vetero-hyppies, molti dei quali, vista l’eta’ stagionata, risultano un po’ patetici nei loro look… un’umanità decisamente retrò, ancorata a un decennio, gli anni settanta, i cui valori e le cui ideologie altrove hanno potuto sopravvivere soltanto aprendosi ad altre istanze, come ad esempio la New Age. La prosa di Carraro da distaccata e quasi impersonale diventa timidamente lirica quando con lo sguardo, levandosi oltre le miserie umane, osserva ‘il cielo grigio piombo gravido di pioggia’ o avverte che ‘le ombre della sera calano come corvi dalle cime degli alberi’, o quando lungo la Casilina ‘il tramonto dipinge di viola la striscia dell’asfalto e le baracche degli sfasci del campo nomadi’, o in macchina, avvicinandosi al tramonto all’Idroscalo, scorge il lungomare di Ostia che ‘si staglia in tutta la sua ampiezza con un nitore geometrico: una lunga curva scura sormontata da un bel cielo azzurro solcato da striature rossastre, e lambita dalla tavola del mare grigio-ferro’. Il suo disincanto di fronte agli uomini si tramuta invece in infantile sorpresa e commozione quando in ‘una scintillante mattinata’, camminando lungo le mura turrite a San Lorenzo, osserva una ‘moltitudine di piccioni che assaltano una torre merlata’, o scopre ai piedi della porta Tiburtina ‘una nidiata di gattini che miagolano con gli occhietti ancora cisposi e semichiusi’, ma diventa aperta commozione ed emozione davanti la stele bianca di Pasolini all’Idroscalo, sotto la quale, annota Carraro con sottaciuta delusione ‘l’unico omaggio floreale: una bottiglietta della Coca Cola con alcune pianticelle rinsecchite dentro, su cui stanno aggrappate quattro lumache’.
M. Onofri – Avvenire –
Per la collana ‘Carta bianca’ dell’editore EDIESSE interamente dedicata al reportage, e diretta da Angelo Ferracuti (che come pochi altri, considerando Io scrittore che è, pare possedere l’intelligenza e la sensibilità per assumersi un impegno del genere), arriva ora in libreria Da Roma a Roma. Viaggio nelle periferie della capitale di Andrea Carraro, uno dei più importanti e convincenti narratori dell’età di mezzo, introdotto da notevoli pagine di Raffaele Manica, che mirano – per forza di cose, aggiungerei – al ritratto. Carraro, in effetti, è l’indimenticabile autore del Branco (1994, poi Gaffi 2005), il romanzo per eccellenza dell’hinterland romano degradato e imbastardito (nella lingua, prima ancora che nei costumi): quale occasione più ghiotta di questa, allora, per andare a verificare, diciamo così, le premesse di realtà che lo hanno poi condotto a scrivere uno dei libri più violentemente visionari – ma d’una violenza e d’una visionarietà che sono, ormai, nelle cose stesse – degli ultimi vent’anni? Un libro, dunque, che vale doppio: per le autonome qualità dei reportages inclusi (in parte rielaborazioni di pezzi già pubblicati su ‘II Messaggerò, ‘L’Unità’, ‘Diario’ e ‘La Repubblica’); e, poi, per la sua natura d’antefatto trascendentale e, in qualche modo, di laboratorio ideale e perenne, dove poter approntare la materia grezza che poi sarà lavorata dall’immaginazione narrativa. Scrive Carraro: ‘Dovendo parlare oggi di periferie romane mi pare d’uopo partire da colui che ne fu il primo cantore, Pasolinì. E nel nome di Pasolini, appunto, il libro anche si chiude. All’inizio: una specie di pellegrinaggio alla ‘stele di sabbia’ che lo ricorda all’Idroscalo di 0stia, dove fu barbaramente assassinato. Alla fine: una gita alla torre di Ghia, nel viterbese, che Pasolini acquistò per trascorrerci gli ultimi anni di vita. In mezzo tante stazioni: la Tiberina e San Lorenzo, Montesacro, la Casilina e i Paridi, Ponte Milvio e Talenti, Borgata Fidene e Tor Vergata, Ostia e Torvaianica, Gallese e Orte, e molto altro ancora. Sorprende, nella citazione, quel ‘d’uopo’: che mai Carraro impiegherebbe nei suoi racconti e romanzi. Si direbbe una specie d’improvvisa nobilitazione della sua sconciata e straordinaria lingua di narratore che, forse, segnala un’ammirazione e una nostalgia per il grande maestro Pasolini: ma anche il segno d’una discrasia, d’uno scarto di registro che non giova. Se è vero che in questi reportages resiste talvolta – prendete le pagine dedicate a uno spettacolo cui assiste a Calcata – un Carraro conciliato, come in contraddizione con il narratore impietoso e lucido che conosciamo, a pagare forse dazio a certe convenzioni giornalistiche cui il pezzo, forse, avrà dovuto rispondere. Il vero Carraro – leggete le pagine esilaranti dedicate a Fiano Romano per un conto di ristorante non pagato, o quelle scritte dopo un’escursione agostana all’Olgiata dei ricchi – è e resta un altro: quello che beve pessimo vino rosso in una bettola vicino Casal Palocco o fuma un Toscanello dopo una ricca cena, che ciondola attratto dalle improvvise effusioni d’un cane, subito pronto ad indossare le lenti del notomizzatore per un’umanità ricondotta a fauna. Ecco: quando Carraro ritorna a inforcare quelle lenti, non ce n’è davvero per nessuno.
S. Clerici – La Repubblica –
Quante volte ci è capitato di ascoltare frasi di questo tipo: ‘La vita è proprio un romanzò; ‘la realtà supera la fantasia’; ‘quel che è accaduto va oltre ogni immaginazione’. Quante volte le abbiamo lette in un libro o sentite al cinema o in teatro? E magari le abbiamo fatte nostre. E forse le abbiamo anche ripetute e divulgate. Anche se ciò di cui si parlava non veniva da una osservazione diretta, ma era in fin dei conti solo un sentito dire, un tam-tam nato in definitiva da una fonte considerata ‘al buio’ affidabile. Andrea Carraro non ha solo il ‘sacro fuoco’ del narratore, ma ha anche, prorompente, l’istinto del cronista. Egli è – come si legge nella prefazione di Raffaele Manica – uno dei pochi scrittori d’oggi ‘affamati di realtà’. L’ultima dimostrazione è questo suo Da Roma a Roma, un viaggio nelle periferie della città che – non a caso – si apre e si chiude con un ricordo-omaggio a Pier Paolo Pasolini, colui che di queste periferie è stato il primo ‘cantore’. Che questo viaggio (che si spinge fino in provincia) sia stato scrupolosamente compiuto, ne sono testimonianza le accurate descrizioni delle vie, dei palazzi, dei luoghi d’incontro di chi vive in quelle realtà. E dei personaggi che le animano. Al di là di ogni stereotipo. Con la forza di una fotografia che diventa scrittura. Centocelle, Ostia, Montesacro, Borgata Fidene, Due Ponti, Piano, Passo Corese, la Tiberina… Un ‘film’ da non perdere.
F. La Porta – Il Messaggero –
Proprio nella società dell’informazione sembra che la realtà, anche quella cronachistica, si rappresenti meglio attraverso le tecniche della fiction (invenzione di una storia, costruzione di personaggi), come ha ben dimostrato Gomorra di Saviano. Prendiamo Roma. Probabilmente i due libri che nell’ultimo decennio l’hanno descritta in modo più esatto e penetrante appartengono a due scrittori: 19 di Edoardo Albinati e Senza verso di Emanuele Trevi. Il primo attaversa la città sul tram a più lunga percorrenza (il 19), il secondo passeggia svagato per via Merulana e viale Manzoni in un’estate afosissima. Il loro è un girovagare affettivo, scandito da stupore e malinconia. Così ora Da Roma a Roma di Andrea Carraro (Ediesse, prefazione di Raffaele Manica) ci aiuta a esplorare il cuore – di tenebra e luce domenicale – della nostra città, da Centocelle e Fidene a San Lorenzo, da Casal Palocco all’Olgiata e a Fiano Romano. L’originalità del punto di vista nasce dal personaggio che descrive, dall’autore stesso o da quello che finge di essere. Dovete immaginarvi un Oblomov che diventa inviato speciale! Carraro è un flaneur stanziale, che si trascina nei vagabondaggi metropolitani la propria accidia contemplativa. Si muove ma sta fermo. Il libro comincia e finisce con Pasolini. Carraro è lontano anni-luce dal suo estremismo esistenziale, dalla sua ‘disperata vitalità’, eppure ne condivide una adesione assoluta al corpo, alle sue urgenze e idiosincrasie. Quando può si cerca una trattoria per mangiare una pizza al taglio, degli spaghetti all’amatriciana, e per bere un bicchiere di vino, benché inacidito. Il suo personaggio ha perfino dei tratti involontariamente comici. Registra i borbottii sordi e gli umori incarogniti della ‘ggente’ con un mix di disgusto e di pietas, ma ne è incuriosito. E soprattutto appare sempre un pò fuori posto. Una vecchia in chiesa vedendolo prendere appunti lo rimprovera (‘Qui ci si viene per pregare!’), lo guardano spesso con diffidenza, altre volte lo invitano a giocare a bocce ma lui declina. In genere sembra attratto da un paesaggio dickensiano di rifiuti e monnezza, forse più vicino alle viscere della metropoli. Nella Torre di Chia, dove si conclude il libro, l’ultima immagine è quella di un elefantino comprato da Pasolini in Nepal. Un oggetto banale e misterioso. Questo reportage, come tutti gli altri, finisce in un modo brusco, quasi tronco. Come nei racconti di Cechov qui il finale conta pochissimo. Il lettore resta con davanti quell’elefante in legno policromo. Un dettaglio insignificante o, chissà, il geroglifico di un destino. Ma, come si sa, l’immaginazione degli scrittori è attratta proprio dai dettagli, dal loro potere di rivelazione.
G. Di Stefano – Corriere della Sera –
‘Da Roma a Roma’ è il titolo dell’ultimo libro di Andrea Carraro, appena giunto in libreria per le edizioni Ediesse. Libro che avrebbe potuto intitolarsi ‘Da Pasolini a Pasolini’, perché è proprio dal luogo della morte violenta dello scrittore-poeta-regista che l’autore de ‘Il branco’ avvia la sua scoperta delle periferie romane. Periferie è un termine che Carraro usa in senso allargato, non limitandosi a raccontare storie vissute a ridosso del Grande raccordo anulare, spingendosi invece il suo viaggio fino alle propaggini della provincia con sconfinamenti nel Viterbese. ‘Dovendo parlare oggi di periferie romane’ ribadisce Carraro in apertura del libro ‘mi pare d’uopo partire da colui che ne fu il primo cantore, Pasolini’. E allora eccolo nel pellegrinaggio in vespa all’Idroscalo di Ostia, luogo di emozioni, con la bianca stele che mostra ‘un solo omaggio floreale: una bottiglietta della Coca Cola con alcune pianticelle rinsecchite dentro, su cui stanno aggrappate quattro lumache’. Inizio e fine. Il viaggio, dopo una serie di reportage, si conclude con la visita alla torre di Chia, il complesso acquistato dal poeta nel 1970, a Soriano nel Cimino, dove scrisse ‘alcune vibranti pagine delle Lettere luterane e il romanzo postumo (incompiuto) Petrolio’. Carraro si muove da cronista tra palazzoni e campi aperti, tra vicoli e tangenziali, annota ogni particolare, registra ogni sussulto del cuore, ogni cedimento dell’anima, come stesse scrivendo un diario intimo, nel quale appare sconveniente bluffare. Gli incontri che fa sarebbero straordinari se non fosse che non ama enfatizzare, tende a ricondurre alla normalità anche la più disperata delle emarginazioni, racconta senza bisogno di spiegare, senza ricorrere a trattati sociologici o di psicologia. Con una concretezza giornalistica cerca di scavalcare i muri dell’incomprensione e dell’indifferenza che circondano i protagonisti delle sue storie. Vedi l’avventura umana di padre Jacques, prete del Burkina Faso, che opera in un centro di assistenza a contatto con i ragazzini portatori di handicap a Grottaferrata. Vedi il dramma della piccola Amady, la figlia di un vù cumprà marocchino insultata e derisa dai compagni di scuola. Vedi ‘Gli angeli delle siringhe’, i tre operatori dell’unità di strada della Magliana che forniscono ai drogati siringhe e ‘accessori quali garze, kleenex inzuppati di spirito o di acqua ossigenata, raccoglitori di siringhe usate’. Tossici che corrono a bucarsi dietro la siepe più vicina: ‘dal ragazzetto con tutta la famiglia che lo aspetta in macchina, nonna compresa’ al meccanico in tuta da lavoro. Sospettosi, diffidenti. E uno di loro stringe la mano al cronista: ‘Si è pulito e disinfettato’, annota Carraro ‘pure mentre stringo quella mano gelida e rasposa non riesco a censurare un senso di angoscia e quasi di terrore’. Il diario continua.
R. Manica – Introduzione –
Si conoscono pochi scrittori, nella letteratura italiana di oggi, così affamati di realtà come lo è Andrea Carraro. Si prenda uno qualunque dei suoi libri, a partire da quello che gli ha dato risonanza e fama, Il branco, o, più recenti, i racconti di Il gioco della verità. Questa fame è molto speciale: sa discernere in ciò che mangia e, in ciò, diventa un fatto di stile. Fuori di metafora, la scelta negli argomenti trattati è sempre importante in sé, ma sa sporgersi per diventare significativa in un tacito rimando fuori della pagina, diventando esemplare anche se preferisce rifuggire dal simbolo. Ciò si deve all’altro aspetto della questione: lo stile adottato da Carraro. Che costantemente rifugge ogni enfasi anche di fronte alle situazioni che la vita o l’esperienza gli presentano in maniera esclamativa. Uno stile (una lingua) rasciugata, portata al suo tratto ultimo, necessario e funzionale. Che terrebbe come somma ignominia la decoratività. Tutto, nello scrivere di Carraro, deve essere messo al servizio della realtà, fino al punto che la sua scrittura è essa stessa la realtà di cui parla: aderente, tesa a un’oggettività lancinante e tanto più cruda quanto più sembra lontana dall’io che la porta (ma, quando c’è, questo io entra a far parte della stessa sintassi delle cose lontane: un io che abbandona o tenta di abbandonare ogni relazione con l’io anagrafico che si chiama Andrea Carraro per farsi parte della voce di una comunità il più delle volte – o, senz’altro, sempre – disagiata). Eppure Carraro non sta alla mera cronaca né semplicemente registra, come hanno notato i suoi critici migliori. Può partire dalla cronaca o dalla registrazione: ma il suo sguardo non è mai neutro. Intriso di tutte le sofferenze, diventa duro per poter esistere, lasciando sulla scrittura, intatte eppure senza compiacimento, le tracce di quelle sofferenze, come fossero tracce di memorie, di esperienze, di lotte e sconfitte (tutta le esistenze narrate da Carraro vanno verso la sconfitta: non si compiacciono né si lamentano di questo: ne prendono atto, come fosse uno stato naturale dell’umanità, che solo finge vittoria dove decide di essere artificiosa, nascondendosi sotto le maschere dell’ipocrisia: ma Carraro sa e lascia intendere che quella finta vittoria ha una forma particolare, forse al momento lascia spazio a qualche compiacimento: ma pur sconfitta è). Naturale, in un certo senso, che l’esito di tale scrivere possa essere il reportage, come nel caso del libro che qui segue; ma, a guardar bene, quando scrive Carraro sembra non scrivere altro che reportage: scritture che derivano da un’immersione totale nella vita e nella realtà circostante. Il problema è allora la distanza. Nei suoi romanzi e racconti, Carraro si tiene a una distanza ideale dall’oggetto, lo inquadra sicuro del fuoco e senza che la parte alta e quella bassa dell’inquadratura (il paesaggio, la base, i contorni) siano costretti a sprecare. E, come nel libro che segue Carraro mette a tema delle sue pagine la periferia urbana, così la periferia è, in una certa, consistente misura, la forma – e la sostanza – del suo narrare. In altri termini: la periferia, in quanto luogo, è tema centrale per Carraro; e, in quanto non-luogo, come vuole talvolta la sociologia (ovvero luogo senza identità), è per Carraro un universale: un punto del mondo dove saggiare in estremo ciò che si annuncia nel centro. Dunque, la periferia è un punto di osservazione da dove il mondo si vede per diritto e per rovescio, in tutte le sue pieghe: un punto in cui si annunciano il baratro, il rischio di disfacimento e insieme una forma di disperata speranza, come la serenità che talvolta arriva dopo che le ansie si sono estenuate, consumando fino alla cenere corpi e casamenti. Un punto di estinzione e di rinascita, come una moderna o postmoderna araba fenice. L’erba cattiva, il romanzo seguito al Branco, prima ancora che a tema, metteva la periferia in copertina, lasciando che il lettore identificasse il libro come ‘romanzo sulla vita nei sobborghi metropolitani: degrado urbano, sfiducia nell’esistenza, una gioventù violenta e disperata’. Lì, con l’orecchio esercitato su Pasolini, Carraro coglieva non solo il dialetto romano, ma anche le lievi o meno lievi differenze e sfumature che marcano il solco tra i parlanti del centro (tra gli alti: i colti che sanno che cos’è il dialetto romanesco verace e lo usano come un principio di identità, un riassunto della storia ad uso e consumo dell’attuale e del quotidiano) e appunto quelli di periferia (soprattutto i più giovani che non sanno che cos’è il dialetto romanesco, lo usano quasi come un gergo che permette di riconoscersi in gruppo ma che non ha contatti con la storia e si spende nell’attuale e nel quotidiano come fosse costituito di pura superficie). Un’immigrata, Sonia, fa i conti con la lingua delle periferie in LA RAGIONE DEL PIÙ FORTE, il ‘melodramma sociale’ che segue nell’ordine di pubblicazione L’erba cattiva. In più, Sonia si incontra con un uomo solo; e se è vero, come dice il Cèline in epigrafe che ‘esser solo è allenarsi alla morte’, è anche vero che l’uomo solo è colui che ha lasciato cadere (o è stato costretto a lasciar cadere dagli eventi) la propria facoltà di comunicare: ha cioè smesso di usare la propria lingua o il proprio linguaggio per andare a deporsi un una vita senza sfumature, piatta, arresa fino al punto di cercare di sopravvivere cercando una ragazza nel catalogo di un’agenzia matrimoniale. Sonia sta in periferia: che dunque è periferia materiale, ma anche un luogo laterale e obliquo dello spirito, dove quasi c’è la costrizione a tacere o a urlare, senza vie di mezzo. In brevità, quasi come in un paradigma, i rapporti tra centro urbano e periferia sono delineati in un racconto in questo senso esemplare del libro più recente di Carraro. In Il gioco della verità il racconto Il parroco e il monsignore dice di un matrimonio che s’ha da fare tra una cattolica e un ateo. Quale sarà il rito più opportuno? Il buon parroco di periferia rimanda la controversia a un elegante e profumato e dotto (troppo dotto ed elegante e profumato) monsignore di curia (chissà perché, riecheggia qui, in chi legge, l’apologo classico del topo di campagna e di quello di città: ma la campagna è un’altra cosa dalla periferia). I due punti di vista sono portati dalla scrittura di Carraro con la precisione che gli è consueta, quasi sospendendo il giudizio e lasciando parlare i fatti, gli eventi, i paesaggi: lasciando che quella distanza si dichiari da sola come infinita, ma anche lasciando capire che non c’è certezza di giudizio che possa fare a meno della relazione tra quei due punti così distanti. Sono le ascisse e le ordinate di un modo di far letteratura davvero dentro i punti cruciali del tempo: freddo quanto basta e caldo quanto serve, che ritrae le cose e non emette giudizi (ma i giudizi diventano imponenti a partire da tali silenzi): in misura di stile e dalla passione smisurata almeno quanto la fame che si diceva all’inizio. Non si tratta solo di questioni letterarie; si tratta soprattutto di questioni civili e morali presentate in quelli che sembrano universi chiusi, ma che non potrebbero essere rappresentati così senza la massima disponibilità all’osservazione e all’ascolto, che Carraro persegue con la tenacia e la risolutezza che hanno gli esploratori di terre ignote. L’ignoto, si sa, il più delle volte è appena fuori della porta di casa.