Il branco

Questo romanzo ci proietta sin dalle prime righe in un mondo sia linguistico che sociale di estrema rudezza. Siamo oltre la periferia romana, in un pezzo di terra un po’ metropolitana un po’ infelicemente agraria come ce ne sono tanti in Italia. Abitato da contadini, pendolari, disoccupati, piccoli artigiani. Una landa di case sbilenche, officine circondate da rottami, bar con biliardo, campetti di calcio e qualche supermarket. È in questa terra di nessuno che Carraro ambienta la storia di uno stupro collettivo organizzato da un “branco” di giovani che passano le loro giornate a bivaccare tra un bar e l’altro, a sgommare col motorino, a parlare ossessivamente di calcio…

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Recensioni

  1. R. Montanari

    Trama: Nei pressi di un paese laziale non nominato, un gruppo di balordi sequestra due ragazze tedesche che fanno autostop e le violenta per tutta una giornata. Fra loro ci sono sor Quinto, padrone della baracca dove le ragazze vengono tenute prigioniere, Ottorino e i più giovani Pallesecche, er Sola, Brunello, il goffo Ciccio e Raniero, il protagonista. Raniero è un ragazzo a suo modo normale: gira in vespa, ha una fidanzatina, Ester, e una famiglia degradata con un padre violento, una madre remissiva e uno zio carabiniere che si è messo in testa di far entrare anche lui nell’Arma. Raniero difende Silvia, una delle due ragazze, dalla violenza bestiale degli altri, ma è proprio lui ad avere l’idea di prostituire a forza le due ad altra gente. Nella baracca finiscono per confluire diverse persone dal paese e l’altra ragazza, Marion, viene uccisa di botte per aver tentato di ribellarsi. Silvia scappa, Raniero la insegue e la vede soccorsa, finalmente, con un misto di angoscia e sollievo. Poco dopo viene a sua volta catturato dai carabinieri: per il branco è la fine. Osservazioni Narratore onnisciente ma quasi una finta terza su Raniero. Tempo presente, usato anche nei flash back (di cui uno a stacco su un incidente di caccia); lingua uno straordinario mix fra un dialetto “burino”, laziale-romanesco, e la prosa chirurgica del narratore, con splendide descrizioni d’ambiente livide, precise, visionarie nel rendere il degrado che investe uomini e cose. Nessuna digressione, nessuna concessione alla pietà: piuttosto una pietas universale. Movimento da noi al mostro (come faccio io) e non viceversa. Straziante e bellissimo.

  2. G. Quilici – recensione.blogspot.com

    L’inizio: un gruppo di ragazzi della periferia romana, aggressivi e sbandati, ammazza le giornate al bar tra partite di flipper e di biliardo. Un giorno due di loro caricano in macchina due ragazze tedesche che fanno l’autostop, con la complicità dello sfasciacarrozze, le conducono in una baracca dove le violentano… Leggo “Il branco” e mi colpisce da subito la forza che emana. Stranamente penso dapprima a Fenoglio (forse per l’intensità), poi naturalmente a Pasolini (per il sottoproletariato romano e l’utilizzo del dialetto) ed anche a Verga (per ragioni stilistiche). Leggo a fatica, è doloroso continuare di fronte allo scenario che pagina dopo pagina si lascia presagire e a cui immaginativamente non desidero partecipare: lo scenario di uno stupro, ispirato, come è noto, da un fatto realmente accaduto, diventato poi film omonimo di Marco Risi. Capisco pero’ che Andrea Carraro non ha alcun compiacimento, anzi sento un forte senso di moralità nel rappresentare quel mondo così come è, nei fatti e oltre di essi. La chiave del romanzo è innanzitutto Raniero, che non soltanto vede, partecipa, ma anche sente, pensa, ragiona, cercando, a volte, di oltrepassare, senza riuscirci, quell’universo, quell’ambiente. Raniero, con una famiglia (un padre magistralmente descritto nella sua autorità priva di ragione, una madre succube), senza lavoro, avendolo egli lasciato, perché lo riduceva stanco morto, con la schiena a pezzi e la polvere di travertino nei polmoni, con una ragazzina con la quale ha un tenero rapporto. Raniero, che soprattutto vive la ricerca spasmodica dell’identità, nel confronto-scontro con il branco dei coetanei con cui si vede al bar, va a ballare… Il “branco” è l’altro fondamentale protagonista del romanzo. Come in ogni branco che si rispetti c’è un capo con una serie di gerarchie sulla base dell’età, del carattere specifico, delle alleanze fluttuanti, ci sono dei codici a cui doversi conformare. Innanzitutto il bisogno di essere considerati “maschi” con la donna come preda e valore della propria mascolinità, in una perenne conflittualità per affermarsi nelle dinamiche contro l’amico-nemico e inversamente per non essere calpestati, derisi. Su questo materiale bruciante e difficile Carraro segue due direttrici, che continuamente si incontrano e si scontrano. Per un verso si fa voce collettiva, diventa, cioè, quei personaggi, quelle psicologie brutali e irrisorie, spietate e esaltate, minacciose e schiamazzanti. La sequenza dello stupro finale – visto a distanza dagli occhi di Raniero – è una scena infernale del più desolante e atroce spettacolo: la gente del paese, adulti e anche notabili, accorsa al richiamo dei ragazzi, che va e viene, chiacchiera e ride nel chiarore rarefatto dei fari delle macchine, mentre nella baracca la tragedia delle due ragazze picchiate, umiliate, violentate con la faccia stravolta dal terrore ‘ma anche con una febbrile volontà di resistere fino allo stremo delle forze’, sta raggiungendo il punto di non ritorno. Per un altro verso questi fatti sono filtrati da uno sguardo-pensiero fluttuante e contraddittorio di Raniero che è, suo malgrado, complice e nauseato, confuso e dolente, che desidera-vagheggia un’altra esistenza, ma che non ha esperienze, strumenti, parole, forza per opporsi, per fare scelte diverse. È, più di ogni altro, una vittima, la vittima, che, come spesso succede, paga e pagherà più di tutti. Ho ri-sfogliato due libri. Il primo, ‘Cento romanzi italiani (1901-1995)’, curato da Arnoldo Colasanti, il secondo, “Costellazioni italiane 1945-1999”, in cui tre (giovani) critici, Massimo Onofri, Emanuele Trevi, Silvio Perrella scelgono ognuno 50 libri della seconda meta’ del 900. Nessuno segnala questo romanzo. Non ho alcuna autorità, sono lettore senza regole. Tuttavia mi sorprende.

  3. Interruzioni – www.interruzioni.com

    La trama de Il branco, romanzo pubblicato nel 1994 da Theoria, dopo essere già apparso sulla rivista letteraria “Nuovi Argomenti”, si ispira a un fatto di cronaca realmente accaduto. Un gruppo di ragazzi della periferia romana, un po’ sbandati, ammazzano le giornate al bar tra partite di flipper e di biliardo. Un giorno due di loro caricano in macchina due ragazze tedesche che fanno l’autostop su un vicino cavalcavia e, con la complicità dello sfasciacarrozze, il sor Quinto, le conducono in uno spiazzo di sua proprietà, con annessa baracca di legno, dove le violentano. Avvisati gli altri, ha luogo un orrendo stupro di gruppo. Non sapendo poi che fare delle ragazze, un po’ per noia, un po’ per avidità di denaro, un po’ per diluire le responsabilità, decidono di spargere voce in paese e di invitare a partecipare all’orgia anche molti adulti del posto, che non tardano ad arrivare, creando uno scenario da bolgia dantesca. Purtroppo gli eventi precipitano. Uno dei ragazzi, forse il più aggressivo di loro, un certo Pallesecche, ad un rifiuto oppostogli da Marion, una delle due ragazze vittime della violenza, le dà una martellata in testa uccidendola. È un improvviso fuggi fuggi generale. Scappa anche l’altra ragazza, Silvia, che riesce a far allertare la polizia. Poco dopo due gazzelle, a sirene spiegate, catturano Raniero, uno dei ragazzi, mentre sta fuggendo con la vespa. Il bel romanzo di Carraro rappresenta con efficacia il degrado materiale, ma soprattutto culturale e morale di certe periferie metropolitane, dove i valori si costruiscono attraverso la televisione e i giornaletti pornografici. Colpisce la ristrettezza di orizzonti esistenziali dei ragazzi, l’assoluta mancanza di sentimenti umani, l’incapacità di provare pieta’ e compassione per le loro vittime. Nella loro miserabile vita trionfano i bisogni elementari e la voglia di prevalere anche con violenza all’interno del gruppo. Chi manifesta una qualche forma pur embrionale di sensibilità, che non sia funzionale al gruppo, viene considerato un debole ed emarginato. Il linguaggio che Carraro fa parlare ai suoi “coatti”, il romanesco delle periferie, svuotato di espressività e ridotto all’essenziale, esprime il vuoto e l’afasia, la povertà di interessi, la mancanza di sfumature e di emozioni, la limitatezza di chi non sa elevarsi oltre la povera materialità delle cose. Hanno identità monche, i ragazzi ritratti da Carraro, e neppure il desolato paesaggio circostante aiuta la loro crescita: neri palazzoni, muri franati, casolari abbandonati, strade sterrate e discariche costituiscono la realtà urbanistica che li circonda. Soltanto Raniero, il vero protagonista del racconto, ha qualche soprassalto di umanità, coltiva qualche dubbio, ha qualche moto di compassione, si pone delle domande, va in crisi, senza tuttavia raggiungere mai la soglia della consapevolezza e liberarsi cosi’ dalla grettezza che lo circonda. Carraro ci racconta lo stupro di gruppo senza compiacimenti erotici, ma in tutto il suo terrificante orrore. Mentre i ragazzi insultano, minacciano, picchiano, schiamazzano e ridono eccitati, le due vittime hanno la faccia stravolta dal terrore, ‘esprimono angoscia, panico, estenuazione, ma anche una febbrile volontà di resistere fino allo stremo delle forze, di non capitolare a nessun costo’. Nelle ragazze, contrariamente a quanto si raffigura certo immaginario maschile, nessuna traccia di partecipazione e di piacere. Anche la rappresentazione della folla che si raccoglie attorno alla baracca dello sfasciacarrozze, è in sommo grado inquietante. Composta principalmente da adulti, dà prova di ottusità morale, di ipocrita conformismo, di bestialità, di glaciale indifferenza. “Il vostro vicino di casa – sembra dirci Carraro – è capace di qualsiasi efferatezza”. Il sor Quinto, per esempio, non soltanto pianifica lo stupro, ma quando una delle ragazze viene assassinata, “non dà segni di alcun turbamento. Fa impressione quel suo modo pigro, indolente di masticare il chewing-gum e di guardarli annoiato”. Uno sbadiglio è il massimo della sua reazione emotiva a un omicidio. Il branco di Andrea Carraro è in sintesi la compiuta rappresentazione di una cultura basata sulla sopraffazione e sull’umiliazione della donna e di un mondo, quello contemporaneo, assediato e forse ormai abitato dal male.

  4. E. Casaccia – Corriere Adriatico

    Il ‘salotto’ degli incontri letterari organizzati dalla libreria Feltrinelli si è arricchito di due nuovi appuntamenti nei giorni scorsi, con Andrea Carraro, autore del ‘Il branco’ e con Alessandro Tamburini, autore di ‘La porta aperta’ Il primo libro (presentato da Massimo Canalini), da cui e’ stato tratto il film di recente uscito nelle sale cinematografiche, è la storia di uno stupro collettivo, visto però, m modo inusuale, secondo l’ottica del maschio, dagli occhi cioè di chi la violenza l’ha compiuta. Non c’è quel moralismo ormai retorico e consumato, ma una condanna nuova, forse più dura, attuata svelando la realtà psichica di una di queste anime perse. Ed è già significativo il titolo del libro, che non allude tanto alla accezione spregiativa del termine, ma al suo primo significato: ‘branco’ è innanzitutto un raggruppamento di animali della stessa specie, che ubbidiscono a determinali istinti, seguono la logica del gruppo e riconoscono in un capobranco la loro guida. Questa stessa tipologia si presenta nei protagonisti del romanzo, giovani che vivono ai margini della società prodotto di una sottocultura, senza valori e ideali; e se a volte qualche parvenza di valore sembrano possedere (come accade per Raniero), sono costretti a soffocarli perché l’unica realtà che hanno è il gruppo, che è per loro famiglia e società, luogo di vita e di confronto. Il racconto e reso vivo e reale dalle parti dialogate, stese in dialetto romanesco (per questo interesse linguistico il romanzo si può accostare a un certo Pasolini) in cui si insinuano monologhi interiori e flashback che rallentano la narrazione con un effetto di espansione del ritmo e di suspence. L’efficacia del romanzo si può individuare soprattutto in quei flussi di coscienza che riversano nel racconto un magma di richiami, associazioni di idee, sensazioni e ricordi che costituiscono il groviglio dell’animo umano. In questo, Carraro sembra molto vicino alla tecnica narrativa di Proust e le ultime pagine del romanzo, con quel monologo-delirio del protagonista, ci ricordano la chiusura dell’Ulisse di Joyce; strutture sintattiche spezzate, sinapsi, ricordi, pensieri e sensazioni che si accavallano senza più nessi spazio-temporali.

  5. G. Marchetti – Il Giorno

    Un branco di sciagurati senz’anima. Pagine lugubri in cui non s’intendono brividi di pietà. Son quarant’anni ormai, da quando Pasolini ci narrò dei suoi ragazzi di vita, che la storia di errori e di orrori di questi criminali innocenti è penetrata tra i luoghi comuni della nostra narrativa. E periodicamente accade sempre che qualche scrittore specialmente alle prime prove s’impadronisca del delicatissimo tessuto per costruirvi dentro le proprie storie. Così è accaduto anche per Andrea Carraro, del quale Theoria ha di recente pubblicato IL BRANCO, un racconto lungo, penoso e pensoso dal quale Marco Risi ha tratto il soggetto per un suo film molto discusso. Già dal titolo si può avere un’idea della vicenda, dei suoi personaggi e dell’ambiente nel quale questa vicenda si svolge, se mai uno svolgimento essa possa avere. IL BRANCO, inoltre, com’è facile prevedere e poi accertare, è anche narrato con un uso linguistico del dialetto romanesco di borgata che non è certamente ne quello del Belli ne tantomeno quello del Trilussa, un dialetto denso e greve, fangoso e a tratti persino balbuziente, che ben rappresenta e traduce l’inconsistenza psicologica e morale, culturale e sodale di questi giovani che vivono (si fa per dire) in branco. Questo racconto lungo è stato largamente approvato da Enzo Siciliano, che l’ha ospitato – cosa assai rara – su Nuovi Argomenti, segno che l’opera doveva essere indicata al pubblico dei lettori quale risultato portante per poter comprendere la marginalità ossessiva e ossessionante di questo branco di ragazzi nullaessenti circondati quasi sempre da una squallida landa di periferie anonime, povere e vuote.
    Lo stupro che il branco organizza diventa allora l’avvenimento o quasi – staremmo per scrivere – la consolazione suprema di qualcosa di fatto, di ben fatto, per la compagnia e per il divertimento, e diventa inoltre il segno di gagliarda mascolinità che combatte la propria battaglia contro le ragazze inermi che hanno la sventura di finire tra i grandi e saputi maschi per i quali solo le donne e il calcio sono argomenti d’un certo interesse.
    Andrea Carraro diventa così il cronista quasi indifferente di questa banda di piccoli mostri violentati – come ha scritto Siciliano – dalle parole che hanno in bocca. Ma la nostra osservazione deve spingersi ben oltre. L’uso e l’abuso del dialetto, questo crogiolarvisi dentro cui lo scrittore ci fa assistere, non è soltanto la violenza o il compiacimento per un certo modo di parlare bensì la spia di un generale comportamento che sfugge a ogni regola di una società civile. Il branco è fuori di essa, non ai margini, ed è il risultato di una violenza che non è più soltanto esibizionistica e verbale, bensì animale, cruda e senza luce, senza il minimo barlume di ragione. È, insomma, una violenza che porta dritto dritto alla morte, all’omicidio.
    La pagina di Carraro è lugubre, anche i rari sorrisi diventano presto dei ghigni, anche i rarissimi momenti di abbandono amoroso e di sentimento subito rotolano nel fango di una costante amoralità. Che non vogliamo condannare, ma che certamente trascina il gusto del racconto in una perversa spirale di male fatto e vissuto senza alcuna emozione. Solo con la paura il branco ritrova una sia pur bestiale coesione e il problema di fare sparire il cadavere della bisteccona risulta più osceno che delittuoso. Ma senza pietà, senza alcun brivido di pietà.

  6. G. Rugarli – Corriere della Sera

    IL BRANCO di Andrea Carraro registra impassibile la violenza carnale e un delitto di teppisti da borgata. C’è talento nell’autore, però difetta la vera fantasia. Turpiloquio, stupri, oscenità: ma questo non è un romanzo. Non ho mai usato violenze sessuali. Al di là della ripugnanza che una simile eventualità mi suggerisce, vi è una circostanza oggettiva: sarei materialmente incapace di consumare l’aggressione, perché un blocco mentale me lo impedirebbe. Se io sia un uomo civile o un uomo inibito è questione priva di interesse: sconcerta invece che qualcun altro, altrettanto vulnerabile psicologicamente, si lasci coinvolgere in uno stupro collettivo, diventi involontario partecipe in un assassinio e, a dispetto di costi tanto pesanti, vada in bianco. Il qualcun altro cui alludo è Raniero, protagonista de IL BRANCO; secondo libro di Andrea Carraro. Carraro, romano, trentacinquenne, ha uno sponsor autorevole in Enzo Siciliano (che, in anteprima, ha proposto IL BRANCO su Nuovi Argomenti); si aggiunga che Marco Risi ha tradotto in film la vicenda raccontata, che il film ha suscitato chiasso, e si capisce subito che stiamo discutendo di un testo giornalisticamente rilevante. Lo stesso testo è anche letterariamente significativo? Difficile quesito, specie a botta calda; impervio quesito, ove si consideri che il libro ripudia l’etichetta romanzo e tuttavia accetta di inserirsi in una collana intitolata Letterature. Quanto dire: romanzo no, letteratura si. Una scelta che non e’ casuale e che ha grosse implicazioni teoriche.
    Prescindiamo per un poco dalle idee e guardiamo da vicino i materiali maneggiati da Carraro. Raniero non è che uno del branco; la sua presenza serve a individuare l’angolo visuale che inquadra la sequenza degli avvenimenti.
    In realtà la vicenda è corale: un gruppo di borgatari sequestra due autostoppiste che, in quanto tali, si presumono donne facili. Nella logica della torma: sgualdrine, e quindi carne da macello. Le due infelici vengono imprigionate in una baracca, e quivi sottoposte a ogni angheria sessuale; appena il branco placa i suoi appetiti, vengono associati al gioco altri amici, contro pagamento di un ticket. Una delle due schiave, la meno accorta, si rifiuta di irrumare uno dei pretendenti, e viene accoppata a suon di botte (Carraro mi scuserà se il mio linguaggio è meno esplicito del suo). Con un cadavere addosso, la situazione precipita. Ora si tratta di far sparire le tracce non solo di uno stupro ma di un omicidio: un duro cimento per criminali incalliti, figuriamoci per il branco! Alla precedente esplosione di furia bestiale, i nostri eroi aggiungono delirio e stupidità. Le ultime battute del dramma sorprendono Raniero che corre lungo una ferrovia. Dovrebbe acciuffare l’autostoppista sopravvissuta che è in fuga, ma è in fuga anche lui: da se stesso, dalla famiglia, dalla povertà, dalla vita. L’abbraccio dei carabinieri lo affranca dai suoi affanni: gli garantisce in modo definitivo il suo statuto di reietto. Che dire? Le vecchie signore pudiche non leggano II branco: resterebbero sconvolte per il turpiloquio, per la volgarità e per la oscenità che pesantemente stagnano e impregnano ogni pagina. Non saprebbero cogliere la vena deamicisiana che affiora da tanta lordura; non capterebbero il messaggio fabiano sulla iniquità dell’aggregato sociale e sulla innocenza dei diseredati. Quanto a me, sono vaccinato e, nonostante Carraro ce la metta tutta per nauseare, ho l’obbligo di segnalarne la capacità di affabulazione, il talento e la maestria con cui risolve delicati momenti narrativi (per esempio il gusto delle sigarette scroccate, lo stordimento di Raniero colpito da una sassata, la luce livida della luna, impassibile spettatrice). Certo Carraro, fra i troppi giovani che si sono affacciati alla ribalta letteraria, e’ uno dei più dotati, dei più convincenti.
    La mia perplessità non involge lo strabocchevole ritornare della parola katzo, secondo la traslitterazione di Ennio Flaiano; la mia perplessità investe la filosofia sottesa, a ogni esasperata riproposta del credo realista.
    Carraro ha l’aria di chi il de profundis per la letteratura d’invenzione (per il romanzo) lo ha recitato interamente: non crede all’orco o al lupo mannaro, e non crede neppure al faulkneriano Popeye, al massimo si azzarda a testimoniare su un angolo di mondo, scelto tra i bassifondi che sono più autentici dei quartieri alti. Coerentemente con questa impostazione, scrive fotografando o, se si preferisce, filmando (attento a non sporcare la sua sintassi con il passato remoto): di qui la puntigliosa attenzione su giubbotti, jeans, maglioncini, motorette, strade assolate, montarozzi di folle; di qui il furore filologico, inteso a restituire un vernacolo che è il romanesco dei burini, striato di ciociaro e di molisano.
    Si penserebbe che tanto scrupolo di verità non conosca pause. Non è così. In un arco di ventiquattro ore se non meno, l’orizzonte spazio-temporale include: la brina, le messi dorate, la raccolta delle olive, gli orti con i cavoli e i finocchi, gli olmi che spandono ombra, le prime comunioni eccetera eccetera. Non occorre essere un contadino per rendersi conto che sono state mescolate situazioni e stagioni incompatibili tra di loro; un qui pro quo di cui rendo lode a Carraro, che, nel descrivere la scena circostante, si e’ preoccupato di sintonizzarla non con il calendario ma con il proprio cuore. In altri termini: ha smesso di testimoniare ed ha inventato, a conferma della scarsa attendibilità di ogni messa a verbale, costretta ad aggiustare i conti con umori e sentimenti del verbalizzante. A questo punto – quando ci sono stoffa e sensibilità perché non spendere qualche katzo in meno e non provarsi a inventare tutto il resto? Piuttosto che un suggerimento, è un augurio per il prossimo romanzo.

  7. A. Guglielmi – L’Espresso

    IL BRANCO ha la pretesa di essere un romanzo d’invenzione e insieme un documento sociologico. Diciamo subito che come documento sociologico è qualunque. Ci presenta il solito gruppo di ragazzi che vivono appena oltre la periferia romana, in un luogo di nessuno, dove la morte della cultura agraria non è stata ancora sostituita, se non per i suoi feticci più vistosi, dalla cultura metropolitana. Un luogo in cui la violenza, che marca i comportamenti di chi vi abita, è figlia della mancanza di cultura, di educazione, di lavoro, di prospettive. Allora i mariti picchiano le mogli, che se reagiscono piangendo… giù… altre botte, i figli non conoscono la scuola, oltre le prime classi elementari, pure queste malfatte, e poi, appena un po’ più grandi, si trascinano da un bar all’altro, trasportati da rumorosi motorini. Il loro sogno più ardito è diventare carabinieri. Questo è il ritratto, di per sé convenzionale e risaputo; senonché troppo accesi sono i colori, fuori misura i movimenti dei personaggi che appaiono continuamente messi in scena piuttosto che colti nel loro vivere reale. Pur sapendo che dal romanzo e’ stato tratto un film, in realtà, contraddittoriamente, il film che non abbiamo bisogno di vedere per figurarcene le immagini gridate e impietose, pare venir prima del romanzo. Ma se questo è vero, ed è vero, questo non è tutto il romanzo. Tra battute qualunque, gesti scontati e situazioni viste si fanno spazio un paio di scene cui sarebbe ingiusto negare un certo pregio letterario. Ci riferiamo alla scena dello stupro, dove alcuni ragazzi abusano a turno di due tedesche; e alla visione da luna park che si apre a uno di loro che intanto si era staccato dal gruppo quando, qualche tempo dopo, accingendosi a riunirsi agli altri, scopre che il luogo dove era stato consumato lo stupro si era nel frattempo trasformato in un bordello per tutti gli abitanti del paese. Qui, nell’una e nell’altra scena, vince un orrore che non ha più nulla di facile, il cui valore testimoniale e’ solo poetico. Qui la violenza si libera da motivazione di convenienza, si fa gratuita, assoluta, metafisica. Incede con la stessa incomprensibile irresistibilità che preme dietro l’accadere della vita. E qui anche il dialetto, che altrove stona per il suo eccesso di cromatismo, diventa povero, essenziale: le parole diventano, per i personaggi, un arto in più, con cui fare più che parlare. Un tale uso del linguaggio avvicina Carraro più che al Pasolini di “Ragazzi di vita”, a Salvatore Bruno, per chi lo ricorda, de “L’allenatore”.

  8. F. La Porta – LA FIGURA – Il manifesto

    Azzurra e scintillante di Nostra Signora di Fatima si erge sopra un mare di rigurgitante mondezza: infinitamente buona ma lontana, inafferrabile. Questa immagine, che affiora dal delirio finale del protagonista. Raniero, teppista e bambino buono, è il centro poetico del libro di Andrea Carraro. Un romanzo prima apparso integralmente su Nuovi Argomenti, dopo innumerevoli rifiuti editoriali, e che poi ha trovato un editore, parallelamente alla sua traduzione in film ad opera di Marco Risi. Si tratta di un libro aspro, di lettura a tratti insostenibile: storia vera (basata cioè su un fatto di cronaca recente) di uno stupro e di un assassinio perpetrati da un gruppo di balordi, Coatti di periferia e di paesello (siamo ai confini di Roma), ai danni di due giovani turiste tedesche. Alla fine tutto il paese, o quasi, è chiamato a partecipare alla violenza carnale in una scena notturna di efferatezza collettiva. Credo che oggi l’orrore sia in sé irrappresentabile. Mostrare su un giornale la foto di un bambino ammazzato in Bosnia non comunica più nulla: non aggiunge alcuna informazione a quante ne abbiamo, non accresce la nostra coscienza civile o la nostra sensibilità morale. Anzi, in quanto il mostruoso diventa ovvio, produce assuefazione: per poterlo anche solo sopportare ci abituiamo ad esso (da Dylan Dog al noir americano, dall’enfasi ironica ad una gelida spettacolarizzazione, la cultura contemporanea sperimenta in proposito una ampia gamma di modalità rappresentative). L’orrore può invece comunicare qualcosa se ne mostriamo la relazione o somiglianza (magari non evidente) con altre cose, se evoca universi interi, se pur nella sua nuda fattualità riesce a conservare ai nostri occhi qualcosa di insondabile. Ho l’impressione che Andrea Carraro sia riuscito in questo intento grazie ad un linguaggio preciso e spaesante, cronachistico e visionario. La sintassi aderisce bene al ritmo della narrazione: all’inizio ordinata, scandita da dialoghi concisi, frasi brevi, poi concitata, quasi franante. La lingua che parlano i personaggi è un attendibile calco del dialetto neoromanesco più apporti burini più gergo giovanile, prodotto ibrido di immigrazioni varie. E poi parole miseramente contratte, quasi fino all’afasia, ad un mormorio inespressivo o animale: nun m’o chiede più. Il paesaggio appare livido, disfatto: cumuli di immondizia, muri scalcinati con scritte razziste, fango e depositi di rottami; ma anche improvvise schiarite del cielo e la macchia d’oro dei campi di grano. La pagina di Carraro, a volte dura e altre volte insolitamente vivace e polifonica, rinuncia al lirismo e e al colorismo pasoliniani. IL BRANCO appare meno poeticamente ispirato del suo esplicito (e non imitabile) modello, RAGAZZI DI VITA, ma più motivato dal punto di vista narrativo. Ben ricostruita è proprio la psicologia del branco, con le sue feroci dinamiche di gruppo che si rovesciano improvvisamente e misteriosamente. E, d’altra parte, come ci ricordano i versi di Caproni posti a epigrafe, niente di quella violenza, per quanto repulsiva, ci e’ davvero straniera, davvero estranea all’immaginario maschile. Se potesse tornare indietro …andrebbe a prendere Esterina …una domenica normale, Raniero, che da piccolo piangeva di fronte all’immagine maestosa della Madonna, è a ben vedere un personaggio atrocemente contemporaneo ma con tratti dostoevskijani, vittima del genocidio culturale e insieme di un destino tragico individuale: attratto dal Bene, dalla Normalità, dalla felicità domestica e conformista delle domeniche, … però spinto irresistibilmente a fare il Male (e in lui il conflitto morale agisce solo a livello subliminale). Merito di Carraro è di aver incrociato, quasi sempre in modo equilibrato, una sensibilità realistico-documentaria con una disposizione drammaturgica, con una invenzione linguistica molto personale. Avrebbe potuto perfino evitare del tutto la cronaca dello stupro: era forse sufficiente guardarlo di lato, comunicare la sorda vibrazione, la eco spezzata nella lingua dei personaggi. Eppure la sua spoglia, straziante fenomenologia del male si offre alla nostra non distaccata meditazione.

  9. L. Colonnelli – Amica

    Le due ragazze che si sono trovate a correggere le bozze del romanzo di Andrea Carraro, intitolato IL BRANCO, in uscita a settembre da Theoria, non hanno retto. A metà libro hanno abbandonato il lavoro, sconvolte da quello che erano costrette a leggere. La stessa scena si è ripetuta con il regista Marco Risi, che dal libro ha però tratto il film omonimo, presente al Festival di Venezia. Quando ho letto il manoscritto per la prima volta, ha confessato Risi, a un certo punto mi sono fermato e quasi non riuscivo a proseguire, perché mi provocava un disagio terribile. Ecco, forse è stato questo disagio il primo motivo per cui mi sono deciso a farne un film, per cercare di capire quale logica porti a fare qualcosa di così terribile. Il fattaccio di cui si parla è lo stupro di due ragazze da parte di un “branco” di balordi. Siamo in un paesino alle porte di Roma, in quel territorio desolato al margine della cultura contadina e di quella metropolitana. Qui, tra orti spelacchiati e discariche abusive, tra case fatiscenti e straducole battute da motorini e motociclette, un branco di ragazzi trascina le proprie giornate nei bar, sgommando col motorino, parlando in modo ossessivo di calcio. Un giorno, due di loro, Ottorino e il Sola, rimorchiano due ragazze tedesche che fanno l’autostop, le portano nella baracca di un vecchio pregiudicato e le violentano insieme a lui. Poi chiamano gli amici del “branco” e li fanno partecipare al “festino”. E non contenti ancora, decidono infine di vendere le due ragazze, peste e terrorizzate, agli uomini dell’intero paese. La più giovane, che si rifiuta di compiere un atto orale, viene presa a martellate in fronte e ammazzata. L’altra scappa e riesce a denunciare i torturatori.
    Ci sono pagine di una violenza insostenibile. Eppure lo stupro non e’ mai raccontato direttamente. Il lettore non entra mai nella baracca. Rimane fuori, al buio, insieme a Raniero, il ragazzo più sensibile del ‘branco’, ma non per questo il meno cinico. A rendere intollerabile la lettura è il linguaggio. Carraro usa un gergo burino, violento, incosciente, infarcito di turpiloquio. Che tuttavia non fa parte della sua cultura. Lui e’ un trentacinquenne biondo e delicato, lavora in banca, vive in un quartiere borghese di Roma insieme a una biologa che ha sposato sei anni fa. Per scoprire questo linguaggio – racconta – sono andato nel paesino dove avviene lo stupro. Un luogo a un passo dall’appennino abruzzese, ma al tempo stesso ancora stretto nei tentacoli della città. Mi sono messo un piccolo registratore acceso in tasca e mi sono seduto nei bar in mezzo ai ragazzi. Il paesino, nel libro, si chiama Castellina, ma è un nome inventato. Ho dovuto cambiarlo – rivela l’autore – a causa delle proteste e delle minacce del sindaco. Perché Il branco era già stato pubblicato, nel gennaio scorso, sulla rivista “Nuovi Argomenti” con il titolo LA BARACCA. E là, il nome del paese era quello vero. Carraro l’aveva trovato in un altro libro, “L’avvocato delle donne”, di Tina Lagostena Bassi, dove ci sono dodici episodi di stupro raccontati dalle donne. Un libro di fredda cronaca degli atti processuali che mi ha lasciato di stucco, ricorda Carraro.
    A uno di questi episodi si è ispirato per scrivere il suo romanzo. Nella realtà, una delle due ragazze non era morta, c’era stato il processo e i ragazzi del ‘branco’ erano stati presi. Anche gli uomini dell’intero paese erano stati denunciati, ma poi assolti per mancanza di prove.
    Ma il tema della violenza collettiva – continua Carraro – mi mulinava in testa da prima. In parte era già annunciato nell’ultima parte del mio romanzo precedente, intitolato A DENTI STRETTI, pubblicato quattro anni fa da Gremese. Lì, un gruppo di adolescenti sottopongono un bambino più piccolo a un rito sessuale violento, costringendolo a masturbarsi davanti a loro. IL BRANCO nasce soprattutto dalla mia vergogna di maschio per questa esibizione violenta e collettiva della virilità. Esiste nei maschi una forma di complicità ripugnante, da stadio, da spogliatoio, che si nutre di una sorta di disprezzo verso le donne. Perché questo tema mi colpisce cosi’ profondamente, non so dirlo. Forse ci sono motivi autobiografici.
    Di più non rivela. Racconta invece che ha cominciato a scrivere dieci anni fa. Facevo il militare, il vigile del fuoco e ho cominciato a buttar giù i primi racconti. Come mi sia venuta l’idea non saprei dirlo. Forse è nata dal fatto che mi piaceva il calcio e lo seguivo abbastanza. Poi un giorno mi sono detto, ma cosa ti cambia nella vita se l’Italia vince o perde? Da allora ho capito che c’era qualcosa di più importante. Ma questo, intendiamoci, è stato negativo, non positivo. Perché da allora vedo le cose in modo più complicato e anche i rapporti con gli altri si sono fatti più difficili. In compenso ha cominciato a leggere. Celine e Proust. Moravia e Domenico Rea. E Pasolini poeta. Nel risvolto di copertina del BRANCO, l’editore ha voluto scrivere che i personaggi ricordano quelli di Pasolini. Io non sono d’accordo. I miei personaggi riflettono quello che li circonda, non la mia ideologia o la mia cultura. La mia vera fonte di ispirazione sono le cronache dei quotidiani. Il prossimo racconto, che esce a settembre ancora su “Nuovi Argomenti”, si intitola IL BALCONE DELLA VERGOGNA ed è anch’esso la storia rielaborata di un fatto di cronaca. Narra di una donna esposta nuda sul balcone, d’inverno, dai parenti, perché aveva tradito il marito. E il prossimo romanzo racconta di un parricidio. Ma questa volta ho usato un linguaggio meno crudo, più poetico, assicura Carraro con la sua voce soave.

  10. S. Onofri – l’Unità

    Il romanzo di Andrea Carraro, IL BRANCO, sembra essere segnato da un destino di complicazioni e di fraintendimenti. La vicenda, come è noto, ha visto dapprima il rifiuto alla pubblicazione da parte di alcuni editori italiani, quindi ha rappresentato un caso nella storia editoriale (il secondo, col solo precedente di “Le parrocchie di Regalpetra” di Leonardo Sciascia) essendo stato pubblicato integralmente sulla rivista Nuovi argomenti, col titolo LA BARACCA. Adesso finalmente vede riconosciuto sia il proprio valore letterario (appena uscito in libreria, edito da Theoria) sia quello che gli deriva dall’immersione dell’autore nei meandri profondi, al di là e oltre la consapevolezza dei protagonisti, di un mondo di cui si parla spesso, quello dell’emarginazione e della violenza delle grandi metropoli italiane, nella fattispecie di Roma. Non solo: tanta è la forza espressiva e l’abilità con cui Carraro ha raccontato la sua storia, che Marco Risi ha deciso di farci un film, presentato proprio in questi giorni alla Mostra del cinema di Venezia, con lo stesso titolo del libro. Paradossalmente però, si rischia adesso di cadere in un altro equivoco: i giornali hanno già anticipato la storia e hanno parlato del libro da cui Risi ha tratto il suo film, ma ne hanno parlato, appunto, come del soggetto del film. E il valore del romanzo in sé sta di nuovo passando in secondo piano. Se tutto questo continuasse, sarebbe un’ingiustizia, e anche un peccato. IL BRANCO di Carraro è un branco di ragazzi scellerati e vuoti, che vivono le loro giornate insieme disperate e noiose in uno dei tanti quartieri che circondano la capitale. La loro vita si riempie di continue sfide al niente, di gare col destino, e di rare ma puntuali mascalzonate, grandi e piccole. Un giorno due di loro, Ottorino e il Sola, rimorchiano due turiste tedesche che stanno facendo l’autostop, le conducono con una scusa nella baracca di un certo Quinto, sfasciacarrozze che tira avanti facendo anche il ricettatore, e le violentano. Quindi, spinti da un impeto di generosità e di megalomania, vanno a chiamare i loro amici alla sala giochi, li invitano ad andare alla baracca e a farsele anche loro, “quelle due”. Qui comincia un crescendo di violenze, di complicità e di reciproci sospetti che diventano con lo scorrere delle pagine una vera e propria ossessione. Tutto, ogni elemento della trama e dell’ambientazione, insistito e reso parossistico: Carraro scrive al presente, appiccicando la narrazione ai fatti, senza possibilità di fuga. È sempre buio, e i personaggi urlano, e si insultano, si aiutano e nello stesso tempo si tradiscono. Ogni scena è illuminata solo da luci fioche, da torce e dai fari delle macchine posteggiate fuori alla baracca, o semplicemente dalla luna. I corpi martoriati delle ragazze sono visti sempre di sguincio, e sempre parzialmente, così come si possono vedere da dietro il finestrino di una vettura, o seguendo il fascio stretto di una lampadina tascabile, che sale dai piedi al pube come fosse la lama di un coltello. Non c’è mai sole ne pace, il ritmo della lettura e’ quello sincopato delle rabbie dei protagonisti. IL BRANCO si può forse considerare uno dei pochissimi esempi di noir italiano, che evidentemente non deve, per esistere, scimmiottare temi e modi della narrativa anglosassone, ma inventarsene di nuovi e tutti suoi, legati alla nostra sensibilità. Come ha fatto appunto Carraro. Ogni elemento di questo libro è piegato alla forza della situazione. La lingua usata dall’autore è una sorta di dialetto sfatto, così come è parlato alle porte di Roma, un misto di romanesco e di burino, che lo scrittore addolcisce nei monologhi e abbandona decisamente nelle descrizioni. Ma dietro questa scelta linguistica non c’è un’intenzione naturalistica, che sarebbe stata senza dubbio fuori luogo. La lingua scelta da Carraro è semplicemente l’unica lingua possibile per raccontare questa storia. Di più: le parole si fanno esse stesse attrici della storia, sono figlie e insieme madri dei fatti. Carraro è bravissimo a recitare l’afasia di questi personaggi che conoscono pochissime parole e suppliscono con interiezioni continue, con dei versi animali, alla loro apoplessia lessicale. Litigano per niente, gli sale il sangue al cervello per un’offesa alla Roma se sono romanisti o alla Lazio, se sono laziali. Lo stesso turpiloquio non ha mai quella forma di consapevolezza semantica per cui si è in grado di discernere quando è il caso di ricorrervi e quando no: quel che conta per questi parlanti sono i suoni duri di un’imprecazione o di una bestemmia, che da parola si fa semplice rumore dello stomaco, musica di rabbia. II libro di Carraro è un libro sintomatologico. Mai, nemmeno una volta, l’autore è tentato di spiegare i motivi che stanno dietro gli atteggiamenti e gli atti dei suoi personaggi. Il suo occhio è sempre attaccato ai loro movimenti di dita, di braccia, di faccia, e solo attraverso quelli descrive la tensione che attanaglia per meta’ del libro il lettore. Dietro quello che si può considerare il personaggio principale, Raniero, c’è indubbiamente un percorso psicologico tortuoso e disperato, che Carraro segue fedelmente e in cui si immerge in due riusciti monologhi. Eppure quando Raniero, dopo l’iniziale titubanza a aderire allo stupro collettivo, diventa improvvisamente il più feroce seviziatore delle due povere ragazze, il passaggio è risolto in due righe. Perché così avviene in quel mondo, la ferocia e la traduzione simultanea della paura della delusione. Non so quanto di tutto questo possa essere rappresentato nel film. Un romanzo ha sempre qualcosa di meno rispetto a un film. Ma quella mancanza, quell’impossibilità, come siepe leopardiana, trattiene in se’ dei significati che, fuori dalla lettura, vanno persi per sempre.

  11. M. Trecca – Gazzetta del Mezzogiorno

    Un romanzo di Andrea Carraro, rifiutato da molti editori, pubblicato in rivista. Anche quando è tra le infinite possibilità che gli sono date è un romanzo si propone semplicemente come testimonianza, documento e cronaca, decisiva sempre la lingua adottata e la sua congruità con la materia trattata perché fatti e cose parlano solo se l’autore indovina la loro lingua. Andrea Carraro ne LA BARACCA è riuscito a trovare quella giusta (il tiburtino, variante del romanesco) per dare voce alla miseria materiale e (quindi) morale del proletariato d’un sobborgo dei dintorni di Roma (Marcellina), teatro alcuni anni fa d’un grave episodio di stupro a danno di due turiste tedesche. Il romanzo racconta molto liberamente quella vicenda ma soprattutto, come in un rosario, implacabile sgrana sotto gli occhi del lettore tutto il repertorio dell’abbrutimento in cui maturano certi episodi di violenza. Uno spaccato di vita sociale, dunque. Una domenica bestiale condensata del volgare vuoto di sempre: dal penoso pranzo domenicale che è amara parodia d’una serenità perduta con il nonno ammalato trascinato a tavola a forza perché armeno de domenica se deve magna’ tutti assieme e scorre veloce tra solite grida e rancori e tv accesa sui miraggi consumistici alla altrettanto convulsa digestione al bar tra biliardo, rutti, scorregge e parolacce con la radiolina sintonizzata sui campi di calcio a carpire nuove occasioni per sfottere gli amici. In questo frastuono che ottunde la mente, sbattuta tra il sogno della divisa e il terrore del cantiere, come un grido di vittoria: ‘Ci ho quarcosa da divve! Quarcosa de grosso! Aho, a proposito, a Lazio ha vinto?… Amo rimorchiato… du’ tedesche… io er Sola…’. Dimenticato in fretta il tenero approccio della mattina davanti alla Chiesa con la propria fidanzata Esterina, insieme agli altri Raniero si slancia sulle prede. E sarà proprio lui, che non abusa delle ragazze, a proporre di venderle agli uomini del paese ‘per raggranella quarche sordo’. La violenza diventa cosi’ massacro. Ma la rappresentazione naturalistica di Andrea Carraro, intercalata da incursioni in prima persona nel mondo inferiore di Raniero, personaggio principale e perno del racconto, non chiede facili e ovvie condanne, propone invece inquietanti interrogativi e apre interessanti squarci sulle dinamiche di gruppo e i delicati e sotterranei meccanismi che – fra traumi infantili, frustrazioni e viltà e alimentano certa perversa volontà di potenza. La quale esplode inevitabilmente in sopraffazione quando all’impossibilita’ d’azione determinata dalla miseria e vero nume tutelare e spettro della vita dei protagonisti e s’aggiunge il continuo scacco della parola e i pensieri non trovano modo di dispiegarsi e quindi confrontarsi e chiarirsi ma, sempre compressi nella camicia di forza della stantia e rituale battutaccia dialettale, inaridiscono consegnando l’anima al silenzio e la voce alle urla. Primo stadio della violenza. Forse il più brutale: tanto grave da esimere pudicamente l’autore da raffigurarne il seguito. Alle smozzicate frasi dialettali dei vari personaggi Andrea Carraro ha preferito, infatti, affiancare nella narrazione ampi periodi di lucidi approfondimenti introspettivi in lingua e in questo contrappunto, filologicamente e stilisticamente rigoroso, il tiburtino acquisisce dignità letteraria di congrua metafora e parabola dell’assoluta impotenza dei protagonisti: poveri e ottusi fantocci sbattuti dalla miseria come dalla violenza i corpi straziati delle loro vittime. LA BARACCA, secondo romanzo di Andrea Carraro, è un libro aspro e ciò spiega le difficoltà editoriali incontrate dall’autore e l’insolita presentazione del suo lavoro nelle pagine della rivista ‘Nuovi Argomenti’. Un tempo diretta da Alberto Moravia. Ma LA BARACCA anche un’opera coraggiosa e necessaria e perciò avrà una meritata rivincita con il film che sta girando Marco Risi e che sarà presentato a settembre a Venezia e una nuova e autonoma pubblicazione per i tipi di Theoria.

  12. S. Giovanardi – la Repubblica

    L’ultimo numero della rivista Nuovi Argomenti contiene – caso davvero raro nei nostri archivi letterari – un intero romanzo. Beneficiario di tale insolita decisione redazionale è LA BARACCA di Andrea Carraro, preceduto da una brevissima nota introduttiva siglata da Enzo Siciliano che spiega come il romanzo sia stato rifiutato da alcuni grandi editori nonostante la sua indiscutibile qualità: a ulteriore dimostrazione, se ce ne fosse bisogno, che le logiche editoriali vanno sempre più divaricandosi da quelle letterarie. L’affermazione è sacrosanta, e purtroppo facilmente verificabile sul valore medio della produzione corrente. In questo caso tuttavia, se è lecito sognare, la ripulsa potrebbe avere delle motivazioni di ordine addirittura culturale. Supponiamo, pur sempre in sede onirica, che svariati direttori editoriali abbiano a cuore le sorti della letteratura italiana in questa difficilissima fine secolo, e diamo per scontato che siano ben consapevoli delle infinite peripezie della narrativa novecentesca. Ora, come avrebbero dovuto reagire direttori di tal fatta di fronte a un romanzo spiccatamente naturalista, sia pur in accezione pasoliniana? Mettiamoci nei loro panni: LA BARACCA si ispira a un fatto realmente accaduto, come Zola insegna (un terribile stupro collettivo, addirittura con stupratori a pagamento e morte di una delle due vittime, avvenuto alle porte di Roma); è segnato da una fittissima trama di dialoghi in dialetto, iI dialetto bastardo tra romanesco e laziale che si parla nelle campagne tiburtine; le parti in lingua spesso appaiono come pure didascalie, e quando non lo sono fanno largo uso di un discorso indiretto libero che lascia riemergere moltissime forme dialettali (e in questo Carraro dimostra un’indubbia perizia linguistica ed espressiva). Pubblicare un simile romanzo avrebbe insomma significato aderire in qualche modo a quell’inespresso ma serpeggiante manifesto del neo-neorealismo la cui più recente traccia è reperibile nelle dichiarazioni depositate da Goffredo Fofi sull’ultimo Tuttolibri (Guardiamo alle nostre lettere: i libri-testimonianza hanno un valore straordinario. Primo Levi o Carlo Levi valgono più di un Vittorini o un Pavese). E allora, chissà, quei direttori potrebbero aver avvertito quanto sia patetico e implausibile oggi questo richiamo dei letterati alla realtà bruta: oggi che quella stessa realtà bruta è costantemente sovraesposta, visibile in diretta fin nei minimi dettagli e proprio per questo sempre più incomprensibile, sempre più confusa, sempre più riottosa a un qualsiasi senso minimamente generalizzante; e magari si sono detti che no, i romanzi da pubblicare sono altri, sono quelli che un mondo, anziché registrarlo o interpretarlo, se lo inventano di sana pianta, e sono persino capaci di riverberare sull’oggi il senso di quel mondo parallelo, riuscendo infine a farci capire qualcosa di più in ciò che stiamo vivendo… Ma questo è un sogno, appunto, e certo ha ragione Siciliano nel ravvisare in puri calcoli mercantili – sofferti quanto si vuole, ma comunque nemici della letteratura vera – le ragioni del rifiuto. Eppure quel sogno si dovrà ben sognarlo, prima o poi. Altrimenti chi si diverte più?

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