Recensioni
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Dario è diventato un noto e discusso “santone televisivo” che porta avanti una propria privata utopia evangelica e francescana. Andrea è uno scrittore. I due sono amici dai tempi dell’adolescenza, hanno condiviso libri, scoperte, viaggi, passioni e ragazze. Sono molto diversi tra loro. Andrea è un leader nato ma è timido e impacciato. Dario ha una personalità complessa ed esuberante. Eppure sono inseparabili, uno al fianco dell’altro, uno a sostegno dell’altro. La loro amicizia passa indenne attraverso gli anni, le incomprensioni, le difficili prove della vita, le profonde mutazioni sociali che attraversano il Paese. Come negli altri romanzi, racconti e reportage di Carraro l’ambientazione romana non è soltanto una cornice della storia. E non è accessoria neppure la circostanza che l’autore si chiami Andrea come uno dei due protagonisti e che il romanzo che egli scrive sia proprio il romanzo “Come fratelli”. La potente parabola dell’amicizia fra lo scrittore Andrea e il “santone televisivo” Dario Luciani getta una luce su questi nostri anni attratti dal sacro ma in balia di istanze irrazionalistiche e parareligiose che possono fondersi perversamente ai mezzi di comunicazione di massa (televisione, rete). Lo scrittore Andrea nel libro che va scrivendo sul suo vecchio amico racconta tutto questo, ma racconta anche se stesso, la propria adolescenziale e conformistica ferocia da “branco”, la propria cronica debolezza che neppure la letteratura è riuscita a riscattare.
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M. Fiormanti – edizioniconoscenza.it –
L’amicizia (con la Maiuscola), si sa, è una necessità spontanea di condivisione: Quando nasce e si consolida durante l’adolescenza potrebbe segnare per sempre, nel bene e nel male, l’intera esistenza. Nonostante Andrea compaia come uno dei protagonisti principali, è l’esuberante Dario (Luciani, l’unico di cui viene citato il cognome), di un paio d’anni più grande, che predomina l’intera scena, costellata di insuccessi. Dall’interno di questo microcosmo si dipartono innumerevoli tangenti che arrivano a curvarsi e ad avvinghiare il lettore come spire di boa, per trascinarlo nel vortice delle grandi questioni dell’esistenza e obbligandolo a un confronto serrato con se stesso. Questo l’obiettivo del romanzo. L’asse temporale dell’iter drammaturgico è quello diacronico che va dalla Roma anni Settanta ai giorni nostri. Il gruppo di cui i due amici fanno parte è quello ‘del Paris Bar presso il Liceo Giulio Cesare nel quartiere Trieste’: pariolini machisti e cazzaroni (vacanze in Grecia, ‘odore di nafta e di salsedine e di marijuana). Negli anni esplodono puntuali le ansie e le inquietudini dovute agli strappi generazionali e, come in un round point a più livelli, ognuno di loro è costretto a ipotizzare una potenziale uscita, e impersonare un proprio ruolo nel mondo. Sul versante femminile, Valeria e Patrizia, rispettivamente compagne di Andrea e Dario, sono la prova evidente dell’incomunicabilità di coppia a fronte di una disperata, vorace ricerca del senso della vita da parte dei due protagonisti. Mentre Andrea, iscritto a Medicina, si apre a un avvenire intellettuale (‘non studiava e leggeva romanzi su romanzi e scriveva poesie ingenue e disperate’), Dario segue gli istinti interiori (‘proveniva da una famiglia ipercattolica, quel cattolicesimo culturalmente arretrato, incistato di magiche credenze, di molta provincia non solo meridionale’), e quell’estrazione devastante e vischiosa gli segna dello stesso colore tutte le stagioni a venire. Un ritiro spirituale in un monastero, una visita a Padre Pio e infine una scritta apocalittica letta su un muro di Scampia mettono a fuoco il nuovo orizzonte portando Dario in un totale isolamento, anche nei confronti di Andrea. Il tempo corre veloce e il male di vivere cala implacabile per entrambi come una cataratta sul respiro. Dario non regge alo stress, elabora la sua crisi mistica dando vita a una setta religiosa in vista di un iperuranio salvifico di nome Xiva. La narrazione prende poi ad affollarsi di personaggi coloriti e bizzarri che ruotano attorno alla figura, sempre giganteggiante, di Dario, il quale si apre all’esposizione mediatico-televisiva per fare proseliti. Ad Andrea, scrittore consolidato, spetta l’ingrato compito di raccontare questa dissonante, irrazionale, bipolare esperienza, vissuta in prima persona e recitata nel ruolo di fratello.
A. Ottaviani – ilGiornale.it –
Andrea Carraro è uno scrittore ciclopico: i suoi romanzi emanano un’inquietudine da alba dei tempi, vibrano di forza giovanile e portano traccia delle scintille della creazione che solo gli dèi ulteriori, ossessionati dall’ordine, provvederanno ad estinguere. Di fronte all’energia che trasmette il recente Come fratelli (Barbera editore, pagg. 253, euro 16,90) diventa secondario il fatto che non vi sia niente di più lontano da un esercizio di bellettrismo: gli avverbi inutili si sprecano, la punteggiatura segue regole a dir poco personali e dei personaggi non si riesce nemmeno ad immaginare il volto. Come se ciò non bastasse – tanto per essere sicuri che il lettore comune, abituato agli sciroppi di Baricco, si tenga alla larga – Come fratelli è diviso in due parti pressoché indipendenti. Nella prima parte Carraro ci presenta gli amici fraterni Dario e Andrea. Beninteso, fraterni quanto si può esserlo in Italia, terra di fratricidi. Entrambi sono ‘pariolini di serie B, ma pur sempre pariolini’. Dario è un provinciale: il padre, un avvocato di Salerno, vuole che frequenti l’università a Roma e abiti nel quartiere della ricca borghesia capitolina. Andrea proviene da una famiglia piccolo-borghese: ‘odiava i pariolini, ma usciva con loro, si vestiva come loro, era snob come loro’. In fondo sono due fuoricasta, però frequentano i tavolini del Paris-bar, dove regna la goliardia greve di chi usa i soldi solo per perdere tempo. Il viaggio di prammatica in Grecia, un invito di Dario a passare qualche settimana nella sua villa in Campania, l’anno della leva interrompono la serie di giornate trascorse in una Roma ancora poetica, verso la quale Carraro è più indulgente di quanto non lo sia con i suoi eroi. Un giorno Dario subisce una crisi mistica e si trasforma in un santone televisivo che invita i telespettatori a suicidarsi; poi, quando la polizia gli fa capire che a dire certe cose si rischia la galera, finisce sulla strada. Vivrà per anni come un barbone. Andrea lo insegue, cerca di proteggerlo, scrive un libro su di lui: è la seconda (e gaglioffa) parte del romanzo, che ha fatto storcere il naso a più di un critico. Eppure Come fratelli resta uno dei migliori romanzi della stagione. Terminatane la lettura, mi è venuto in mente un aforisma di Arbasino: ‘Il romanzo sembra la forma artistica più perfettamente adleriana. Sopravvive e qualche volta trionfa solo attraverso gli sforzi fatti per rimediare alle deformità da cui è natò.
S. Iucci – Fuoriclasse –
Mi pare di poter affermare che la qualità migliore dell’Andrea Carraro scrittore sia la sincerità’. Non nel senso comune del termine, ovviamente impraticabile per la letteratura, ma in una sua tutta particolare declinazione estetica. La corrispondenza, cioè, tra quello che si vuole intendere e i mezzi impiegati per ottenere questo risultato. Proprio in questo senso ‘estetico’ sono radicalmente sinceri i suoi ultimi libri, pure diversissimi tra di loro, anche per il genere scelto: il romanzo Come Fratelli (Barbera 2013) e le poesie, direi espressionistico-narrative, di Questioni Private (Marco Saya Edizioni, 2013). Quella che segue non è una recensione, ma, invitando con convinzione a leggere i due libri, solo una breve considerazione su questo tema della verità in letteratura che mi pare essenziale per Carraro (un altro suo libro si intitola, tra l’altro, Il gioco della verità, edizioni Hacca). In estrema sintesi, Come Fratelli ripercorre l’amicizia, con i suoi esiti finali tragici, fra Dario, un ‘santone televisivo’ portatore di una sua disperata utopia e Andrea, scrittore caparbio e fedele a un’idea di amicizia che, tra incomprensioni e durezze della vita, troverà la sua consacrazione finale proprio nella scrittura. Andrea ha lo stesso nome dell’autore, naturalmente, ma è lui davvero? Lo è in parte? O non è un’astuzia, quasi una provocazione, utilizzata per creare una vicinanza utile a scartare poi in ogni direzione possibile? Difficile dirlo e probabilmente non è così importante. Anzi. Due passi del libro, secondo me, sembrano dare qualche utile indicazione su questo tema sghembo della verità del racconto. Nel primo un fotografo spiega a Dario ‘quello che si deve fare per ottenere un buon ritratto fotografico, ovvero cancellare il ricordo della persona, l’idea predefinita e dunque preconcetta di lui che hai nella testa. Solo con questo spirito, dice, si può fare un bel ritratto, un vero ritrattò. Insomma: la rappresentazione artistica parte da un atto iniziale di sottrazione radicale. L’altro passo importante, da ascrivere sempre all’universo di Dario, riguarda Xiva, misterioso luogo/non luogo utopico, l’approdo al quale è predicato da Dario stesso come risoluzione delle pene e dei conflitti della vita umana e a cui lui stesso si voterà con un estremo gesto finale. A Xiva non c’è il sole, ma gli esseri sono liberi e immortali. Nulla si corrompe, nulla si distrugge a Xiva, si muta d’aspetto come camaleonti per minare il senso d’identità, per abbattere il Narcisismo e si conoscono altri mondi e altre epoche storiche… Xiva è Sapere, Eternità, Rinascita. Per Dario ‘mutare d’aspettò è l’unica garanzia per conoscere ‘altri mondi’, distruggere quell’identità che, paradossalmente, corrompe l’essenza intima delle persone. Cosa sarà, dunque, realmente vero a Xiva? Nessuno sa se Dario è arrivato a Xiva, ma Come Fratelli racconta in fondo proprio questo tentativo, e il romanzo che ne scaturisce rappresenta l’estrema scommessa di preservare nel racconto – e dunque nella finzione – l’intimità di un’amicizia. Di più, forse, non si può.
G. Grattacaso – Giudizio Universale –
I protagonisti di Come fratelli sono Andrea e Dario, i due amici che il narratore segue, con occhio impietoso e sempre partecipe, dalla fine dell’adolescenza fino alla morte di Dario, fino a quando cioè lo scrittore Andrea comincia a raccontare la vita dell’amico in un romanzo biografico, che poi sembra essere proprio quello del quale noi lettori in quel momento stiamo per terminare la lettura. I due amici sono persone diverse per carattere ma egualmente inquiete, perennemente in bilico lungo i margini di un’esistenza che vorrebbero cogliere in tutta la sua pienezza, ma che crudelmente e inevitabilmente sfugge loro. Andrea è capace di trovare un proprio equilibrio, anche se questo comporta la rinuncia ai sogni e alle passioni, ma la smania inespressa continua a intravedersi sottopelle; Dario insegue aspirazioni sgangherate e illusorie, ideali tanto attraenti quanto posticci, fino a diventare un predicatore televisivo di una religione da lui stesso inventata, che guarda a Xiva come al luogo della beatitudine e della realizzazione di ogni utopia. Ed è forse proprio quello dell’utopia, dell’impossibilità anzi di realizzazione di ogni progetto di trasformazione del reale, per una generazione che ne aveva fatto il simulacro intorno al quale costruire le proprie azioni, il terreno sul quale si muovono le storie e le frustrazioni dei due amici. Andrea continua a seguire quasi con accanimento le vicende esistenziali dell’amico, anche quando la loro fratellanza si frantuma sotto i colpi di una età adulta che porta entrambi a non riconoscere l’altro, se non nel deragliamento fallimentare delle aspettative e nello sfilacciamento della confidenza che li aveva resi vicini. Attraverso lo sguardo ormai disincantato di Andrea e le azioni spesso caotiche che vedono protagonista Dario, Andrea Carraro ci porta all’interno delle vicende italiane degli ultimi anni, senza raccontarcele direttamente, se non in trasparenza, e senza emettere giudizi, ma facendone chiaramente percepire gli effetti. Gli ultimi decenni del Novecento e il primo scorcio del nuovo millennio conducono la società italiana a prodursi in una sorta di cattiveria maldestra e viscida, in una progressiva ricerca di soluzioni facili e di ideali comodi e sconclusionati, così come assurdo e senza costrutto è il percorso religioso che conduce Dario ad una notorietà che lo mette a capo di una schiera di seguaci inconcludenti e confusi, non si sa bene se tanto furbi da credere al loro disordinato messaggio solo per ricavarne un vantaggio, o tanto ingenui da cercare dio dove c’è solo falsità e sciocchezza. Nelle pagine di Come fratelli si intravede un paese cialtrone e ciarliero, schiavo di un delirio mediatico che colpisce indistintamente tutti e non permette più di vedere l’assurda realtà nella quale siamo precipitati. Ed è proprio la realtà con le sue incongruenze e i suoi legami sconnessi, con le sue fragilità, con la consumata e ormai abituale volgarità, a diventare il centro della narrazione di Andrea Carraro, che non mette ripari per il lettore, non lo difende, ma anzi lo lascia nel pieno del marasma di un paesaggio umano snaturato e senza più equilibrio. Anche per questo la lingua della narrazione non nasconde i mali comunicativi dell’epoca, ma li riproduce, lasciando campo ad un parlato ordinario e ostentatamente inelegante. Carraro racconta una società metropolitana, quella romana in particolare, con un proletariato che non sa più di esistere e una borghesia che non si concede alcuna possibilità di riscatto e vive con rassegnata indolenza la propria incapacità di offrire un senso all’esistenza, che non sia quello della fuga o della disperazione.
A. Pomella – Il Fatto Quotidiano –
Uno dei romanzi italiani più riusciti del 2013 è a mio parere Come fratelli, di Andrea Carraro (Barbera Editore), che racconta l’amicizia trentennale tra Andrea e Dario. Un legame formatosi ‘nell’evo mitico dell’adolescenza, quando le amicizie virili si stringono nel gruppo dei pari’. Un gruppo ‘pseudo-delinquenziale’ che si ritrova in un bar del quartiere Trieste a Roma, formato da ragazzotti nebulosamente di destra, trucidi coi Camperos e figli di buona famiglia, pariolini di seconda classe (‘Eravate i fratelli più piccoli dei mostri del Circeo. Loro però erano personaggi tragici, mentre voi ne rappresentavate una parodia ridanciana’). Andrea ha un carattere complesso, speculativo e fragile, nel corso della storia diventerà uno scrittore ma dovrà fare i conti con la percezione che tutto ciò che lo circonda è affetto da una sorta di invincibile mediocrità. Dario invece ha una personalità vivace, ai romanzi preferisce la filosofia e i saggi scientifici, il suo fervore nell’età adulta lo trasformerà in un mistico delirante che predica il suicidio collettivo. Come fratelli è a sua volta il racconto di come Andrea arriverà a scrivere Come fratelli, ossia il romanzo nel romanzo. ‘Sono anni che scrivi e riscrivi di me, pensi che non lo sappia?’, dice Dario a un certo punto della storia. ‘Certo, era un modo per esorcizzare la tua perdita’, gli ribatte Andrea. Narcisismo e ossessioni. Ma soprattutto un faro puntato sulle leve che muovono il sentimento umano più indecifrabile ñ l’amicizia ñ che è pur sempre uno dei temi più battuti dalla letteratura di ogni tempo, ma che Andrea Carraro ha il grande pregio di trattare scartandone tutta la retorica. Nel destino dei due protagonisti sembra condensarsi anche il senso più profondo della storia recente d’Italia. Andrea Carraro indica implicitamente quello che sembra essere il duplice destino del ceto borghese dopo le frantumazioni degli anni Settanta: una classe sociale che se da una parte implode su stessa, riducendosi a piccolo ceto impiegatizio, dall’altra esplode nell’esaltazione più allucinata di sé. C’è una città, Roma, che è colta in tutta la sua burbera indolenza, un’indolenza che tuttavia tiranneggia i caratteri delle persone. C’è uno sguardo retrospettivo sugli ultimi decenni che ha ben poco di nostalgico, ma che possiede una lucidità efferata e una fermezza quasi classica. E c’è soprattutto una straordinaria capacità di recuperare il senso profondo di intere esistenze, una qualità che, val bene ricordarlo, è propria solo degli scrittori più sensibili e capaci.
G. Giglio –
‘L’amicizia è il matrimonio dell’anima, e tal matrimonio è suscettibile di divorzio. è un contratto tacito tra persone sensibili e virtuose’, scriveva Voltaire. Ed è senz’altro un matrimonio dell’anima, quello tra Dario, un noto e discusso santone televisivo, che fonda la ‘setta dei Celestini’ e insegue un’utopia evangelica e francescana, e Andrea, uno scrittore nevrotico e tormentato, che proprio quest’amicizia – lunga quanto la vita (i due si conoscono fin dal tempo del liceo, negli anni Settanta, all’interno di un gruppo di ragazzi-bene pariolini: un branco edonista e dall’anima teppistica, che ha già inoculati i germi del conformismo, del machismo, della cattiveria gratuita) – racconta, dopo il suicidio di Dario, nei giorni nostri. Ecco ‘Come fratelli’ (Barbera Editore, 2013), il nuovo romanzo di Andrea Carraro, narratore graffiante e di razza. Quello stesso Carraro che soprattutto in romanzi come ‘Il branco’ (1994) e ‘Il sorcio’ (2007) aveva disegnato un’originale parabola del male: di un male grigio, familiare, strisciante nel quotidiano. E ritorna, quel male, anche in questa storia, in cui l’amicizia (con tutte le sue ambiguità e incrinature: quelle stesse che alla vita appartengono, e che la vita di Andrea e Dario più volte segnano) sostanzia una sottile filigrana, un mezzo di contrasto che scivola leggero, efficacemente illuminandoli, tra gli anfratti dell’esistere. è un romanzo severo come una tragedia antica, ‘Come fratelli’. Dove Carraro, affidandola ad una scrittura felicemente asciutta, declina una precisa idea di realismo, che subito mette in bocca ad Andrea, mentre dialoga con Dario: ‘è una cosa da cui non si può prescindere, un pò come per te la Fede. è un realismo che viene ineluttabilmente dopo, beninteso, dopo il naturalismo, dopo i moderni, dopo il neorealismo, dopo le avanguardie, dopo qualunque avanguardia’. Un realismo di natura squisitamente etica, che dà corpo e sangue a personaggi più veri della realtà stessa: nel ventre antico di una Roma cinica e cialtrona, di una città-teatro ove alligna la vera solitudine; quella che, pirandellianamente, si avverte proprio in mezzo agli altri; quella cui possono dare consistenza anche gli amici, i compagni di vita, i fratelli, e persino i genitori: quando si passa attraverso le loro ombre irrisolte, quando si attraversano le sabbie mobili che la famiglia può nascondere. Una Roma, questa di Carraro, che non difficilmente si fa metafora di una certa Italia: frantumata, slabbrata, lontana dall’amore vero (nelle sue tante declinazioni), nella quale la luce dell’intelligenza e l’aspirazione alla felicità continuamente si mescolano col torbido dell’esistenza, nell’impossibilità di una (e forse più) generazione di trovare un senso, una definizione del proprio stare al mondo.
A. R. De Vivo – ilpickwick.it –
I fratelli del romanzo di Andrea Carraro sono due amici che hanno percorso strade diverse, che si sono amati male forse, che non hanno mai saputo odiarsi, che hanno cercato il senso della vita l’uno nell’altro, perché ce ne sono di amicizie così simili all’amore, nate con una scintilla e protratte anche nell’assenza dell’altro. Andrea e Dario, i protagonisti del romanzo, hanno condiviso un brandello di esistenza, poi i caratteri spigolosi più che le contingenze della vita li hanno separati: Andrea si è affermato come scrittore, Dario è diventato il capo di una setta religiosa che predica il suicidio necessario a raggiungere l’agognata dimensione ultraterrena di Xiva. La parabola di questa strana fratellanza – che di parabola si tratta, perché a un certo punto si giunge a una separazione che separazione non può essere: i due continuano a seguirsi, a contare nella presenza l’uno dell’altro, fino a ritrovarsi, diversi, segnati dagli anni e dalle esperienze, distanti e indissolubili – è ben tracciata sull’ancora inestricabile piano cartesiano dell’Italia disfatta degli ultimissimi decenni, quella che permette per colmo di paradosso a un uomo di diventare capo di una setta religiosa, di trovare una certa prosperità economica e di raggiungere una fama televisiva, di cadere, di fare una vita da barbone e poi, ancora, di rifondare una setta e di ritrovare una fama televisiva. L’Italia è un Paese che perdona, forse, oppure, semplicemente, un Paese che tende a dimenticare. Carraro ci pone al cospetto di una realtà sinceramente brutta, banale, volgare, in cui il cinismo e la rabbia costituiscono i sentimenti dominanti, ed attraverso una sottile vena di sarcasmo, acidula, rende il tono della narrazione ancora più greve. Sovviene quanto dice Walter Siti del ‘realismo’: ‘La verità del mondo viene fuori controvoglia, affermando diritti e desideri che le convenzioni conculcavano: il diritto di parola per la povera gente, il diritto del sesso a esser preso sul serio, dell’infamia e della noia ad affacciarsi in primo pianò (Il realismo è l’impossibile, Nottetempo, 2013, p. 12). Questo realismo che urge per far emergere ‘la verità del mondò è forse ciò di cui parla Andrea, in maniera ambigua, a Dario: ‘Il realismo che intendo io va scritto con la maiuscola, – sentenziava – è quasi una categoria del pensiero, capisci Dario? è una cosa da cui non si può prescindere, un pò come per te la Fede. è un realismo che viene ineluttabilmente dopo, beninteso, dopo il naturalismo, dopo le avanguardie, dopo qualunque avanguardia’ (p. 37). Da un lato Dario ha una missione evangelica, dall’altro Andrea sembra avere una missione letteraria. Dario affida ad Andrea il compito di farsi evangelista scrivendo di lui, il profeta di Xiva. Il libro che i due progettano, non è un caso, reca il titolo Come fratelli, e ci si chiede allora se Carraro non mirasse, infine, a un ambizioso obiettivo tentato da molti e forse non ancora raggiunto: descrivere/decrittare l’ultima Italia. Come fratelli è un romanzo di formazione in cui i protagonisti, come l’Italia, mutano male adattandosi a un paese in declino sotto lo sguardo ipnotico della TV che guarda senza indurre disagio: fino a quando gli italiani saranno spettatori del disastro? Non è questa, però, la domanda che si pone Carraro, e ciò, per colmo di paradosso, rende più potente e inquietante la rappresentazione dell’Italia che crolla sullo sfondo.
N. Festa – Leggere e Scrivere –
Questa volta, il cruento e ruvido e soggiogante realismo della finzione del maestro della fiction documentaristica letteraria, Andrea Carraro, alle prese quindi con le primissime pagine ma anche fino ad alcune decine della prima parte dell’ultimo romanzo, pensavamo c’avrebbe risparmiato; perché, detto in tutta onesta, è proprio l’avvio di ‘Come fratelli’ che non ci convince e convinceva proprio: ché le pecche, gli inciampi son tutti qui: dove, per portare un esempio che sia d’argomentazione alla protesta, sentiamo che mancano perfino alcune attenzioni, solitamente assicurate nelle altre opere dello scrittore romano, allo scorrere dell’italiano di certi (alcuni) periodi. perché insomma sappiamo della ‘perfezione’ di Carraro, sia chiaro. Allora ecco che leggiamo, però, della formazione di due caratteri. Ed è solamente l’inizio. Quando gli amici – praticamente dall’infanzia – Dario e Andrea sono particelle elementari del microcosmo, ambiguo per intenderci, d’un piccolo bar pariolino della Roma tanto viaggiata dalla penna e con la letteratura del Carraro. E questo Dario Luciani, l’altra parte del futuro scrittore Andrea, per quanto inizialmente sembri meno aggressivo degli altri sfaccendati del Paris, sarà l’uomo più strano e inquietante del gruppo. Ma qui dobbiamo fare un inciso, spiegando che in Come fratelli non siamo, e verrebbe da dire in quanto si sarebbe trattato d’un ritorno alle origini per l’autore, alla narrazione della vita d’eccessi da branco. In verità, invece, Carraro sceglie d’illustraci il carattere d’Andrea, formatosi proprio nel rapporto d’amicizia intenso e appassionato con Dario. Tanto che Andrea, nel domani della storia, cercherà addirittura di comprendere o almeno ascoltare col contatto più importante possibile, l’assurda scelta vitale dell’amico. Allora del Luciani diventato ‘santo né – dopo aver lasciato la moglie che lo teneva a oziare – da tv e da setta rimedia-giornata Andrea vuole veramente capire. Premesso che già la confessione di Dario era stata motivo di riflessione, in un certo senso, dell’amico scrittore in divenire. Il titolo voluto da Carraro è lo stesso, alla fine, che Dario impone con la propria abilità di convincere cresciuta nell’acqua dell’arte del sedurre all’altro protagonista del romanzo. Da qui in poi, infatti, l’Andrea oramai scrittore di professione deve scrivere la biografia del santone originariamente preso dal culto di Xiva. Da donare ai posteri. Per la loro redenzione, evidentemente. E da questo momento in avanti, ma già prima di questo punto avevamo sentito la forza della trama farsi tutt’uno col la prosa divenuta scorrevole e intransigente, la verità dell’opera diventa avvincente e incalzante. Il romanzo si compie. La funzione dei luoghi è smascherata. Insomma i set televisivi e alcuni pezzi del Paese, specialmente come al solito vari frangenti di Capitale, spiegano la loro ragione. I rapporti d’amicizia e i valori sono discussi. I volti delle vicende dicono, oltre che rappresentano, i tempi moderni e i temi della società attuale. Attraverso lo sviluppo del racconto udiamo i territori materiali e immateriali del presente svelarsi a chi legge. Senza aggravare la nostra situazione psicologica, lo scrittore per l’ennesima volta ci pone davanti una serie di domande, e chiedendo valutazioni che noi lettrici e lettori potremmo sperimentare. E assecondiamolo, Andrea Carraro, giunti alla fine, nel provare a rilanciare, ponendoci il seguente interrogativo: se la puttanata della profezia dei Maya sulla fine del mondo ha fatto abboccare milioni di persone, senza scherzi almeno altrettante non potrebbero realmente in Italia suicidarsi – pervasi da un falso mito qualsiasi venduto dalla comunicazione di massa? Ed è soltanto uno dei dubbi che Come fratelli ci destina. Andrea Carraro è stato nuovamente privo di pietà. Spietato nel raccontare perché l’invenzione riflette la spietatezza del reale.
M. Onofri – L’Avvenire –
Il modo più facile di affrontare l’ultimo romanzo di Carraro – e qualcuno l’ha già fatto – sarebbe quello di leggerlo come un’esplicita dichiarazione di poetica, che Andrea, il protagonista scrittore, enuncia quasi all’inizio in questi termini, in gloria d’un nuovo realismo come ‘categoria del pensiero’: ‘è una cosa da cui non si può prescindere, un pò come per te la Fede. è un realismo che viene ineluttabilmente dopo, beninteso, dopo il naturalismo, dopo i moderni, dopo il neorealismo, dopo le avanguardie, dopo qualunque avanguardia’. Una lettura che può contare anche sul fatto che, chi ricostruisce la storia, si chiama, appunto, come Carraro stesso e ha affilato sin da subito ‘le armi della sua nevrosi e della sua misantropia che avrebbero alimentato i suoi primi libri’ (ve lo ricordate Il branco?): i libri che, nella scena finale, in un festino per i 55 anni d’un amico (Manuel, uno del gruppo del Paris-Bar del quartiere Trieste), una delle sue ‘vecchie fiamme incartapecorite’ avrebbe definito ‘sempre duretti’. Modo facile, dicevo, e del tutto corretto però, purché non si ometta una questione cruciale: che Andrea, personaggio e autore proprio del romanzo che stiamo leggendo, Come fratelli – scritto per trattenere la storia del vecchio amico Dario, impiccatosi in una camera d’albergo del Villaggio Olimpico – quella poetica la vuole mettere alla prova d’un valore invisibile, e carico di tutte le ambiguità possibili (le stesse della vita), come l’amicizia. Andrea, del resto, per quanto possa condividere qualcosa di sé con Carraro in carne e ossa, non ne è di certo la replica, è, semmai, la proiezione di quel che Carraro rischiava di poter essere, o che, da sempre, profondamente aborre e combatte: l’istinto gregario da branco e il conformismo, la cattiveria gratuita, il risentimento sociale di chi frequenta amici di altra e più ricca classe sociale, aspirando ai loro valori mentre li disprezza. Ci resta da dire, ora, chi sia Dario: attorno al cui mistero ruota il romanzo: di due anni più grande di Andrea, esuberante e carismatico, perenne fuori corso all’Università, in furioso e costante conflitto col fratello maggiore con cui è costretto a condividere una casa ai Parioli. Con Andrea frequenta i pariolini del Paris-Bar che, tanti anni dopo, avrebbe definito ‘i fratelli più piccoli dei mostri del Circeo’. Inizia da qui – dal branco di cui Andrea è il leader – un percorso che porterà Dario a fondare ‘la setta dei Celestini’, dentro una specie di utopia neofrancescana e new age, fino a diventare un famosissimo ‘santo né televisivo molto acclamato ma anche assai discusso. In questo – che è il romanzo della sua maturità- Carraro ribadisce le qualità che gli abbiamo sempre riconosciuto: e – dentro i nostri anni di totalitarismo mediatico e di mercimonio superstizioso del sacro – si riconferma abilissimo nell’avvertimento dei meccanismi di aggregazione e gerarchizzazione all’interno dei gruppi soprattutto giovanili, ma anche nella comprensione profonda dei processi di disgregazione sociale. Stiamo attenti, però, alle approssimative riduzioni sociologiche: per Carraro realtà e socialità significano innanzi tutto esistenza. E Come fratelli, grande e implacabile indagine sull’amicizia, rivela, in modo direi definitivo, la natura etica del suo realismo.
N. La Rocca – Cabaret Bisanzio –
Andrea e Dario sono molto amici: pur partendo da basi diverse (Andrea da una vaga tensione civile, Dario da un anelito religioso), nonostante indoli opposte (carismatica e nello stesso tempo schiva, per il primo; esuberante e intemperante, per il secondo), si ritrovano accomunati da un’esistenza fragile e incerta, fatta di travestimenti e aspirazioni confuse, di smanie che non trovano mai un approdo. Andrea Carraro, raccontandoci la profonda amicizia tra Andrea e Dario, ci lascia intravedere, in trasparenza, i fatti e le idee dell’ultimo scorcio del Novecento, consegnati alla cronaca prima e alla Storia poi, ma esauriti nella loro stessa narrazione. E lo fa raccontandoci le varie età dei due amici. La loro gioventù si caratterizza per l’adesione a modelli sociali simil-delinquenziali; somigliano a dei piccoli mostri del Circeo, ma non sono intimamente altrettanto cattivi, in quanto si limitano a collezionare solo piccole scaramucce da teppaglia di terz’ordine, più che altro facendosi del male a vicenda con crudeli dispetti; la prima età adulta sfugge loro di mano, non trovano nell’università una sponda certa, un perimetro all’interno del quale placare le proprie inquietudini; l’età matura, infine, li coglie distanti: quasi rassegnato Andrea; ancora alla ricerca disperata di un senso, Dario. Spesso Carraro è accostato a Pasolini, per la sua lingua mimetica, interessata alla quotidianità più schietta e grezza, ma anche per una visione dolorosa dell’esistenza, frutto di uno iato tra l’identità delle vite ordinarie e il contenitore sfavillante fornito dalla società post-industriale giunta al suo stadio finale. Ma Carraro, al contrario di Pasolini, scrive in una fase storica nella quale sembrerebbe non esserci più spazio per una contestazione del processo di imborghesimento del proletariato, per una denuncia degli effetti omologanti dei mass-media e per la lotta di classe. Così, mentre i proletari di Pasolini incarnavano comunque una possibilità rivoluzionaria, uno scarto e uno scatto rispetto all’omologazione della società industrializzata e mediatica, i personaggi di Carraro, vivendo nella fase finale del processo di industrializzazione, in quel brodo terminale profetizzato da Pasolini (‘l’odierna devastazione del senso causata dall’assolutizzazione di un potere senza più schermì, come ci ricorda Marco Revelli), non possono fare altro che prendere atto dello stato delle cose, rassegnandosi o impazzendo. Infatti Andrea e Dario, nella loro battaglia esistenziale, scomposta e disperata, imboccano quelle che Carraro sembra prospettarci come le uniche strade possibili: ad Andrea non resterà che guardarsi vivere e narrare le vicissitudini di Dario; quest’ultimo diventerà un santone televisivo, nel disperato ed estremo tentativo di dare una forma, seppur parossistica, iperbolica, al suo bisogno di senso. Ma è difficile trovarlo, un senso, se non, sembrano suggerirci i due amici, nell’estremo gesto tragico e assoluto che un essere umano possa compiere. ‘Ho fatto quello che potevo’, sarà il testamento di Dario, che Andrea potrà solo raccontare. Carraro ci fa stare gomito a gomito con i suoi personaggi, con una narrazione dal basso, ad altezza d’uomo, facendo ricorso ad artifici linguistici che riproducono l’immediatezza della comunicazione orale, per portarci forse dentro noi stessi, stremati rappresentanti di questo tardo occidente.
D. Matronola –
Certe volte dei fratelli si dice, ‘si trattano come estranei’, peggio, dei consorti si sente spesso dire, ‘convivono come estranei’. Nel più recente romanzo pubblicato da Andrea Carraro con l’editore senese Barbera nella Collana CentoCinquanta, troviamo la storia di due amici che per tutta la loro vita restano uniti ‘come fratelli’, smentendo anche la diaspora verificatasi via via di famiglie e comitive. più che di una storia, cominciamo col dire, il romanzo sempre più distintamente realizza la sintesi della parabola, è più che mai il caso di dire, ‘apostolica’ di uno dei due fratelli del titolo: Dario; poi testimoniata dall’altro dei due, Andrea, alla fine suo biografo. Nella comitiva di quando erano adolescenti, Dario era l’irriducibile, quello che non soggiaceva ai dettami del gruppo, che non si abbassava alla volgarità e all’indifferenza per esempio sbandierate in massima misura dal Miccia, il più trucido di loro al Paris Bar, ai Parioli; Andrea invece schiattava dentro, lui figlio di padre comunista e comunista egli stesso, quando il gruppo del Paris Bar si lasciava andare alle sue triste manifestazioni fasciste. Soprattutto in questa parte del libro, Carraro riprende la sua ‘poetica negativa del brancò, ripropone la sua denuncia del gregarismo soprattutto maschile. Cioè riprende la tematica efferata del suo primo libro importante, Il Branco, che in realtà fu il suo secondo in assoluto e all’inizio fu pubblicato col titolo La Baracca da Nuovi Argomenti nel 1994 in un numero della rivista con la copertina nera occupato per metà proprio da questo bruciante romanzo breve, o violentissimo racconto lungo. Soprattutto nella parte iniziale di Come Fratelli, ci troviamo di nuovo, con terrore, difronte alla violenza banale dei rapporti di amicizia, meglio sarebbe dire ‘di sodalità’, tra maschi, intersecati raramente con presenze femminili che sono semmai lì giustificate solo dal fatto d’essere ‘le donne di’ o ‘le sorelle di’,come nelle società eroiche. Ciò che decisamente prevale è il metabolismo sociale maschile: i maschi sperimentano la gara per la supremazia, l’esercizio del potere, il gusto vertiginoso delle alleanze, il sadismo nelle contese, il consenso e la guida del gruppo: è una fase del libro in cui la lingua non può che dare voce a un’asprezza, a una crudezza, che segnano e deformano le relazioni. Ed è qui anche chiaro ciò che Carraro vuole dire – raccogliendo nella voce, nel tono, negli echi della scrittura, il testimone lasciato cadere molto tempo fa da Pier Paolo Pasolini e mai raccolto da nessun altro (forse giusto dal Claudio Camarca di Il Sole è Innocente, negli anni Novanta), Carraro qui ripropone il proprio terrore per l’antropologia del maschio cui nessuno, lui compreso, è in grado di sottrarsi. Dunque torna qui Carraro sul temibile tema del branco ñ indizio di pasolinismo profondo, di parentela rinnovata con l’autore di Ragazzi di Vita e Una Vita Violenta, con la poetica negativa di Pasolini che riconduceva l’abbrutimento insensato al fenomeno incorreggibile e precipitoso dell’inurbamento borghese e fascista. Avvertiamo questa filiazione fin nei nomi che identificano i personaggi del romanzo, tra nomi propri e soprannomi. Ma rispetto a ad essa come rispetto alla poetica di La Baracca (poi diventato Il Branco nel film di Marco Risi che portò anche all’edizione in volume separato), Carraro ha decisamente messo una distanza attiva: un buon numero di opere tra raccolte di racconti e romanzi e reportages o saggi. Eppure in questo nuovo romanzo, prima di abbandonare definitivamente la propria primigenia, cruciale fase poetica, Carraro non può non indulgervi ancora. Non può non soffermarsi ancora un momento sulla faccenda chiave del teppismo di gruppo, che è anche la tipica epica maschia. Tant’è che Carraro chiude il primo capitolo con questa battuta di dialogo: ‘Voi del Paris eravate i fratelli più piccoli dei mostri del Circeo. Loro però erano i personaggi tragici, mentre voi ne rappresentavate la parodia ridanciana’. Il vero punto, qui, è la dolente ammissione che il contesto ha dettato, per ciascuno il testo: l’autore non può negare che quella situazione di gregarismo giovanile trucido ha sfiorato anche lui, e seppur per sola tangenza lo ha macchiato, e avrebbe potuto farlo suo, travolgerlo, trasformarlo inevitabilmente in mostro ordinario. è proprio da lì, da quella controversa partenza, che lentamente, anche per fortunato allontanamento, l’amicizia tra Dario e Andrea è individuata e diventa elettiva. Prende il volo e diventa il cuore vero del romanzo. Ciascuno dei due peraltro prende una propria strada. La strada di Andrea è più conformista, sicura. Anche nel matrimonio e nell’assetto familiare, a prescindere dal tormentato rapporto con suo padre, Andrea ha una moglie con cui non viene mai meno il sodalizio, e ha un figlio con cui ha un rapporto stretto. Dario anche nel matrimonio non può non rinunciare a una relazione rischiosa, per finire in una separazione livorosa dentro la quale sua moglie lo odierà fino infondo. Ma ciò che veramente dà da pensare è la sua scelta di diventare predicatore televisivo. Una svolta pynchoniana del romanzo, questa sua triste militanza apostolica vissuta su reti di quart’ordine in una dimensione televisivo-sacerdotale folle e avvilente. Per ragioni forse note solo a me, e neppure poi tanto, anche se Dario si dà alla predicazione addirittura del suicidio, e poi sempre e solo di Xiva che è la sua versione del Paradiso, mi aspettavo leggendo che a ogni pagina anche Dario per ‘fare notizia’ si dedicasse allo sfondamento delle vetrine con un pick up, non prima d’aver allertato le televisioni locali, come accade in Vineland di Pynchon appunto… Sono molti i piani che si affollano in questo romanzo che pure è narrato con un moto oscillatorio uniforme tra una ‘realtà’ spesso bassa e deteriore e una lingua oltre che esatta spesso preziosa ma sempre asciutta e certe volte irrinunciabilmente greve. Qualcuno ha anche insinuato un sistema non del tutto ammesso di auto fiction. Non credo. Che nel romanzo un autore di razza utilizzi ciò che sa e ciò che la pagina stessa gli permette di scoprire e ammettere, è un fatto. Ma è un fatto anche che lo scrittore di razza riesce a sapere e conoscere, e accondiscende a raccontare, anzi finisce per non poter rinunciare a raccontare, proprio solo attraverso la scrittura: attraverso il romanzo, che come in questo caso si nutre di tutte le forme della scrittura, e non solo romanzesche, lo scrittore di razza riesce a conoscere più cose su di sé di quante ne abbia mai sentite dentro di sé, proprio perché nel romanzo, nella scrittura romanzesca, compie un accurato lavoro, lento e profondo, di traduzione in immagini, servendosi di un dispositivo infallibile, rivelatorio senza sconti. Questo poi è ciò che capiamo alla fine. Dei due, Dario è quello che si è davvero speso, in modo incosciente e imprudente. Andrea deve raccontarne la biografia se vuole vivere davvero una propria vita autentica, meno prudente, meno riparata dietro l’amico che si è sempre molto più esposto. Viene da credere che Dario sia la parte inconfessabile di Andrea, il lato pubblico che Andrea non è in grado di esprimere arroccato com’è in una situazione molto più sicura e controllabile, anche se potenzialmente dirompente. Dario non solo predica una religiosità tra l’ascetico e l’affaristico, ma ha diverse fasi di popolarità e caduta in disgrazia. Diventa per ben due volte una specie di barbone santo, si brucia in una sfrenata avventura profetica da mattatore televisivo della predicazione. Una figura attraente e respingente. Andrea non può non dedicarsi a raccontarlo.
R. Minore – Il Messaggero –
Inseparabili, sempre, pur tra incomprensioni e fraintendimenti, in mezzo alle profonde mutazioni degli ultimi decenni che hanno stravolto il paesaggio sociale ed esistenziale. Due vite che continuamente si sfiorano e s’intrecciano, si cercano nel momento in cui stanno per perdersi, sono quelle sulla scena di ‘Come fratelli’ di Andrea Carraro. Una accanto all’altra, da sempre, dai giorni di una assai germinativa ‘confidenza inaspettata’, durante gli erotici furori adolescenziali confidati l’uno all’altro. Nella Roma che dagli anni settanta arriva fin quasi a oggi, Dario e Andrea hanno vissuto il tempo di una continua, talora tormentata, amicizia che li ha portati a muoversi tra esperienze spesso condivise di ogni tipo. Di vita, di sentimenti, di passioni, di disagi. E in mezzo ad un gruppo di ‘pariolini di seconda scelta, ma pur sempre pariolini’: è la comunità, il ‘brancò dove maturano i sentimenti gli stili di vita, le scelte, i riti collettivi, i caratteri, le violenze e le sopraffazioni che Carraro rappresenta con sguardo potente e assai acuminato. Entrambi appartengono alla generazione segnata dalla crisi, dall’assenza di ‘valori’ etici o politici, perduta dietro simulacri eudemonistici e altri surrogati di una ricerca (impossibile) di assoluto, la letteratura o la sperimentazione anche misticheggiante. Dopo tanti lavori, Dario alla fine è diventato un piccolo guru, conosciuto e discusso, predica la fantasiosa idea di una piccola trasgressione religiosa, a suo modo anche ‘spettacolare’. Una delle molte, in tempi di religiosità zuccherata e di New age (la satira di Carraro possiede corrosivi tratti grotteschi) che ha tra l’altro come tema simbolico il suicidio collettivo (ma qualcuno lo trasferisce nella pratica). Andrea è uno scrittore; è l’Andrea che, prendendo come oggetto privilegiato il suo amico d’infanzia, sta scrivendo un romanzo che proprio si chiama – in un incastro inevitabile di vita e scrittura – ‘Come fratelli’. In esso racconta non solo l’amico che ha avuto sempre di fronte, le sue peregrinazione alla ricerca di un impossibile ubi consistam, ma anche se stesso, la propria adolescenziale e conformistica ‘ferocia da brancò. Racconta un’intrinseca, cronica debolezza ‘che neppure la letteratura è riuscita a riscattare’. Carraro è ancora una volta assai abile nel dimostrare che (come osserva Andrea Caterini nel saggio a lui dedicato nel suo eccellente ‘Patna’, pubblicato da Gaffi) ‘la debolezza, la fragilità umana è continuamente umiliata e presa di mira da un qualunque ‘brancò d’occasione’. Connessa con quella di Andrea che la pedina e si affonda in essa come una lama affilata, la parabola di Dario è seguita nel suo mix di inerzie, riprese, cadute, piccole resurrezioni e catastrofe finale. Carraro a sua volta la rincorre disseminando i tempi del racconto senza vera progressione narrativa, ma a raggiera, senza effetti speciali né particolari coloriture gergali, con la laconicità della sua scrittura secca e penetrante che, sfiorando il reportage, approda al nudo referto di una ‘verità’ di dolore e sconfitta.
R. De Marco –
‘Come Fratelli’ di Andrea Carraro (Barbera Editore, 2013, 256 pagine) è uno di quei romanzi che hanno il potere di riconciliare con il puro e semplice gusto della lettura. Questo autore ci ha mostrato, nel corso della sua carriera, di essere in grado di raccontare la realtà con un taglio narrativo che sa essere coinvolgente e convincente al punto da riuscire in quella impresa che solo pochi altri grandi scrittori italiani sono stati e sono in grado di realizzare: avvicinare il grande pubblico alla letteratura vera, quella che ti fa gioire del piacere di leggere. Mi viene naturale fare un parallelo con Giuseppe Pontiggia e penso che quest’ultimo romanzo di Carraro possa essere accomunato a molte delle opere del grande scrittore lombardo del quale, quest’anno, si commemora il decennale della scomparsa. Nel narrare la storia di Dario e Andrea, due amici prima inseparabili, poi divisi da varie vicissitudini e, alla fine, riuniti dalla vita in maniera casuale e disperata, Carraro ci regala una riflessione disincantata ma non forzatamente cinica del concetto di amicizia. E c’è spazio anche per tematiche che vanno dal trascendente alla religiosità al fenomeno della new age spirituale (tema che qualche anno fa aveva affrontato anche Luca Doninelli senza riuscire a mantenere lo stesso opportuno distacco). La Roma che fa da sfondo al romanzo, poi, è quanto mai lontana dagli stereotipi a cui siamo abituati. Non è la Roma ladrona e coatta che scaturisce dallo sguardo miope e limitato di certa cinematografia mainstream o dalla supponenza degli ambienti politici o pseudo culturali milanesi. Ma nemmeno la Roma onirica, sfuggente, francamente inesistente inventata a tavolino dal regista Sorrentino. No, è un luogo reale, vivo, la cui disgregazione sociale e culturale rispecchia uno stato dell’anima che, inevitabilmente, si riflette sulle persone che la vivono e viceversa. è una Roma senza scorciatoie, senza mediazioni, per questo più viva e convincente che mai. è difficile raccontare un’opera simile perché la letteratura vera, quella alta, non ha bisogno di essere raccontata e non può essere spiegata. Va solo vissuta, attraverso la lettura! E leggere Andrea Carraro, per me, si è dimostrata ancora una volta esperienza preziosa e sublime.
F. La Porta – Il Sole 24 Ore –
In genere simpatizzo con chi si impegna a scoraggiare il romanzo nel nostro paese: è diventato un genere quasi solo commerciale, parassitario, ossessionato dall’intrattenimento. Però non scoraggerei mai Andrea Carraro, che della tradizione romanzesca custodisce soprattutto un elemento: l’arte di connettere (di cui parlava Forster). In Come fratelli (Barbera) connette tra l’altro il bisogno genuino del sacro – che si forma nelle viscere della nostra società – e l’immensa spazzatura mediatica che quel bisogno produce. La trama è articolata, provo a riassumerla in modo sommario. Andrea, futuro scrittore, meditativo e ipocondriaco, e Dario, salernitano, socievole e dotato di verve affabulatoria, vitale e al tempo stesso disarmato, si conoscono ‘nell’evo mitico dell’adolescenza’, entro un gruppo di ragazzi-bene, ‘pariolini di seconda scelta’ vagamente delinquenziali, che frequentano il bar Paris davanti scuola (Miccia, Kater, Manuel…), e che si confrontano con riti di iniziazione piuttosto feroci. I due ‘si crogiolano parecchio nelle loro giovanili tristezze e nei loro travagliati amori’, e ciascuno è attratto da ciò che non ha: Andrea dalla autenticità e immediatezza di Dario, questi dalla personalità intellettuale dell’amico scrittore di cui è orgoglioso. Dario la vita la vive, anche in modo irriflessivo, confuso, mentre Andrea – sempre sull’orlo della depressione (l’unica persona capace di mitigarla è la devota Valeria…) – si limita a trascriverla. Poi, dopo una rottura drammatica i due si incontrano di nuovo. Dario nel frattempo è diventato un santone televisivo un po’ cialtrone e un po’ ispirato, che auspica una apocalisse purificatrice, ma che ripropone lo stesso narcisismo cui voleva sottrarsi. Dopo un tentativo di suicidio cade in rovina. Alla fine si impicca in un appartamento. Forse uno degli archetipi è L’educazione sentimentale di Flaubert, storia di una amicizia adolescenziale e ritratto di una generazione smarrita nel proprio vuoto. Flaubert finiva con i due amici che ricordano l’esperienza per loro più formativa: una visita al bordello che si concluse in una fuga. Andrea rievoca un episodio che gli riferì Dario a 16 anni, il ‘rimorchio’ di una ragazza sulla spiaggia, che pero’ gli dice ‘E statte attento, accidenti, me fai male’. Non un atto mancato, stavolta. Però quell’incontro, con la vergogna che provò Dario a raccontarlo, testimonia la nostalgia e il sospiro di una pienezza amorosa mancata per poco da tutti i personaggi. Sbaglia chi appiattisce Carraro su un realismo naturalistico. La sua narrativa è – sorprendentemente – più espressionista che mimetica. Non gli interessa tanto imitare la realtà (anche se lo studio antropologico di ambienti e dinamiche di gruppo è puntiglioso e ricorda il cinema di Scorsese). Piuttosto attraverso la lingua – fatta di ruvido slang e aggressività afasica, sul filo del discorso indiretto libero (molto pasoliniano: ‘ci ha una vagonata di pidocchi…’) – crea una realtà nuova, che diventa una allegoria dell’esistenza (specie degli aspetti dissipativi, insensatamente febbrili dell’esistenza). Il suo punto di vista è – celinianamente – quello del basso, di chi sta in basso e si mescola a cose e persone. E anche il lettore viene trascinato giù, a quello stesso livello di osservazione: quando ad esempio vanno a comprare il ‘fumo’ in un’area degradata dell’ex Mattatoio di Roma sentiamo di camminare anche noi per quella strada illuminata da pochi lampioni, incisa da buche e gobbe. Nel libro sono poi inseriti degli accurati micro reportage (su Scampia, su una gita in pullman a San Giovanni Rotondo), che ci informano dell’esistenza di un mondo esterno, lacerato e contraddittorio, che pur si muove intorno all’immaginario autoreferenziale dei protagonisti. Rispetto a Walter Siti Carraro non ha alcuna tentazione ‘decadente’. Non ritiene cioè che la verità si esprima soprattutto a partire dagli aspetti torbidi, infetti, del reale. Inoltre è un autore tragico, che però al tragico perviene anche attraverso la commedia, che affiora specie nei dialoghi del quotidiano.