Il Sorcio (2020)

Nicolò Consorti, quarantacinque anni, sposato con un figlio, è uno scrittore di discreta fama che si mantiene con un lavoro anonimo in un istituto di credito romano. Nello «zoo aziendale» la bestia più sordida è Eraldo Martelli detto “il Sorcio”, un collega sfrontato e insolente che prende di mira Nicolò e lo vessa con insulti e provocazioni quotidiane, fino al crollo psicologico. A dodici anni dalla prima edizione, Carraro riprende e sviluppa ulteriormente uno dei suoi libri più importanti e apprezzati, una riflessione d’autore sul bullismo e la prevaricazione negli ambienti di lavoro.

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Recensioni

  1. Bruno Elpis – i-libri.com

    Eraldo Martelli – Il sorcio di Andrea Carraro – è un personaggio veramente odioso: va fiero del suo nomignolo e della sua grettezza (“Non è mica casuale quel soprannome che gli hanno affibbiato, di cui lui si pregia: davvero, nel suo rimediato ufficietto di responsabile del Cral aziendale ha appiccicato sulla porta ‘dott. Sorcio’”), pratica bullismo e mobbing nei confronti di Nicolò Consorti e sconfina nella violenza fisica (“La sua Daewoo Nubira… è graffiata sul fianco, una lunga striscia prodotta con delle chiavi probabilmente. È stato il Sorcio, non ci sono dubbi”).

    L’odio bidirezionale tra persecutore e vittima ha come teatro la banca, ove Nicolò è stato demansionato (“Comincia da quando è stato di fatto declassato, trasferito dal Centro Elaborazione Dati della banca al Back Office”) ed esercita la sua passione per la scrittura, non senza senso di colpa (“Scrivendo a sbafo” durante l’orario di lavoro). La banca con i suoi grotteschi rituali esalta la frustrazione del protagonista: le festicciole per l’esodo (“Si tratta di una collega ancora giovane, ficcata nel fondo esuberi e spedita in prepensionamento”), le patetiche gratificazioni (“La busta… malgrado l’esiguità della somma, sono proprio gli impiegati che sbavano e si scannano per ottenerla”), le denunce alla direzione del personale, il trionfo della cultura piccolo-borghese…

    In questa cornice Nicolò coltiva il proprio malessere che canalizza nel risentimento contro il nemico e decide di interpellare una maga (“Morto! scandisce Nicolò”) per un inutile rito voodoo (“Il Sorcio è protetto dal malocchio come un blindato”), salvo poi commissionare un efficace pestaggio ai danni dell’odiato antagonista (“Gli faremo abbassare la cresta… vorrei assistere…”).

    La tecnica espositiva del romanzo è avvincente e variata: i ricordi e gli eventi – alcuni dal sapore pubblicamente autobiografico, come la partecipazione alla mostra cinematografica di Venezia e la finale del premio Mondello, altri da interpretare, come il reportage al Cocoricò di Riccione, il rapporto edipico con il padre, un misto di amore, rivalità e rimorso (“Quanto ancora vuoi fartela fruttare questa storia, che incolpando lui in qualche modo ti assolve?”), l’avvicendarsi delle amicizie con Gabriele, Gigi (“Gigi incarnava per lui lo spirito d’avventura, tipicamente adolescenziale, la trasgressione”) e Dario, gli effetti di una scrittura che si ritorce sull’autore (“Gabriele… negli ultimi anni il rapporto si è definitivamente guastato… Si è riconosciuto in uno dei personaggi del libro e, cosa assai più grave, ha riconosciuto la sua famiglia”) – si alternano ai dialoghi con lo psicoterapeuta (“Nello studio spartano del suo analista… Certo, c’è la parcella, ma non può essere soltanto per il danaro che il dott. Monaco mostra tanto interesse per i suoi casi. Ha il sospetto che lo stia analizzando come caso clinico emblematico in qualche suo studio”). Sì, perché Nicolò è affetto dal Male oscuro proprio come Giuseppe Berto (“Nicolò era tiranneggiato dal suo male, che gli impediva di fare qualunque cosa, di allontanarsi dalla sua città…”) e il suo disagio psichico viene rappresentato con dosaggio di ironia, cinismo, autobiografismo adattato al romanzo e scompigliato nella sequenza temporale, in uno stile originale (“Del resto continua a praticarla, quel genere di scrittura aggressiva, avversativa, violenta”) che si staglia nitido e provocatorio sull’omologazione dilagante della narrativa coeva: “Io volevo castigare… il lettore medio piccoloborghese… mi sentivo scorrere nelle vene il sangue di un genio maledetto, di un Lautréamont, di un Baudelaire, di un Rimbaud, di un Céline, di un Pasolini corsaro, un fustigatore…”

    Nell’osmosi pericolosa tra vita reale e scrittura (“Il suo primo libro… non se ne parlava, era un tabù assoluto. Per non dire del secondo sullo stupro, dottore… Era quasi come se lo stupro lo avessi compiuto io…”), il finale è in crescendo e non risparmia capovolgimenti di fronte: l’insperata occasione per consumare la vendetta sul Sorcio secondo la terribile legge del contrappasso, la diagnosi clinica (“Lei si troverà sempre nella vita dei sorci, io temo… Allora sono un masochista”) e la fine del rapporto – oramai di dipendenza – con lo psicanalista (“Le oltraggiose immagini di me contenute nei suoi romanzi”), una scena conclusiva in Umbria alla vigilia di Natale che consegna definitivamente il lettore guardingo al brivido e al beneficio del dubbio…

  2. P. Vanacore – Succede Oggi

    La nuova edizione del romanzo di Andrea Carraro, a più di dieci anni di distanza dalla prima, ci rivela i segreti della sua scrittura e la capacità di rinnovare e approfondire il suo rapporto drammatico e fecondo con la realtà
    La premessa, doverosa, è che ho amato e amo Il Sorcio, uno dei migliori di Andrea Carraro se non addirittura il migliore in assoluto. Personalmente, lo ritengo meritevole di una trasposizione cinematografica proprio come avvenne in passato per un altro romanzo di Carraro, Il branco (Theoria, 1994) da cui è stato tratto il celebre film di Marco Risi (e del resto il regista Francesco Cordio era andato vicinissimo alla realizzazione di un film dal Sorcio). Quando l’esistenza del protagonista mi è nuovamente esplosa tra le mani (grazie a una nuova edizione del romanzo pubblicata da Elliot) mi sono innamorato per la seconda volta di questo libro non solo per la storia di Nicolò, che oggi sento ancora più affine alla mia, per una serie di motivi che sarebbe inutile e deprimente raccontare in questo contesto, ma anche per il ritorno allo stile ineguagliabile del suo autore.

    Il sorcio, per chi non l’avesse ancora letto, è la storia dello scrittore Nicolò Conforti e della sua ordinaria vita da impiegato di banca dove tra l’altro è costretto a subire i torti e le angherie del collega Eraldo Martelli, detto appunto il sorcio, che non perde occasione per provocarlo, insultarlo, umiliarlo e vessarlo fino all’inevitabile crollo psicologico. In mezzo a tutto questo c’è il racconto della vita di un uomo piccolo e inetto che durante le sedute di psicoterapia, necessarie alla cura della sua depressione, ricorda con nostalgia una gioventù movimentata e tenace, racconta di un tiepido ménage familiare, la paternità, le scappatelle coniugali, insomma una calma e piatta vita piccolo-borghese nella quale sembra essere approdato suo malgrado, tutto quello che lui (non) è si alterna a ciò che vorrebbe essere (stato) in un continuo avvicendamento fra desiderio di riscatto e tendenza a soccombere.

    Mi capita spesso di tornare su un libro già letto, prendo nota di alcuni estratti, sottolineo le parti che più mi hanno colpito per poi tornare a consultarle successivamente, lo faccio anche solo per il gusto di rivivere certe emozioni e tornare ad assaporare le atmosfere di un viaggio che ho particolarmente gradito. Ma con Il sorcio ho vissuto da scrittore un’esperienza del tutto originale e formativa: ho riletto dall’inizio alla fine la nuova edizione disponendo accanto a me sul tavolo della scrivania quella pubblicata da Gaffi nel 2008 in una posizione del tutto innaturale che mi ha impedito di sprofondare nella poltrona o distendermi sul lettone. Tutto questo al fine di evidenziare e mettere a confronto ogni singolo intervento dell’autore e soffermarmi su di esso per comprenderne i motivi e valutarne l’efficacia; è stato un lavoro faticoso ma estremamente significativo per chi, come me, vive il processo della scrittura come un tormento continuo del quale però non riesce a fare a meno. In pratica mi sono trovato a guardare dall’esterno gli strumenti del mestiere osservando i movimenti altrui come farebbe un apprendista, ed è stato utilissimo. Ho notato che oltre ad aver riscritto e/o ampliato alcune sequenze narrative e parte dei dialoghi, Carraro ha approfondito il complesso rapporto tra il protagonista e suo padre, anch’egli scrittore, ponendo l’accento su una certa rivalità o competizione culturale fra i due in un contesto di rapporti familiari sempre più miserabili e gretti. Ma l’intervento decisivo, a mio avviso, lo ha effettuato sul finale rendendo più potente un romanzo già perfetto di cui oggi a maggior ragione ritengo necessaria la lettura.

    Ecco, sempre in tema di necessità della lettura, parafrasando un altro stupendo romanzo di Carraro, Sacrificio (Castelvecchi, 2017), ho avuto modo ancora una volta di constatare come la sua scrittura sia capace di entrare sottopelle quanto il ritorno alla siringa di un tossico trascinando il lettore dentro il male della storia che è anche il male profondo e interiore dell’uomo. Un inferno quotidiano superbamente rappresentato grazie a uno stile narrativo crudo ed essenziale: una scrittura asciutta, diretta, senza fronzoli, moderna e contemporanea, che compie il proprio dovere al pari di un reportage, di una cronaca, riuscendo al tempo stesso a coinvolgere, stupire ed emozionare il lettore attraverso una sorta di “lirismo della verità” in grado di aprire il cuore molto più di tante stucchevoli sequenze poetiche distribuite ad arte fra le pagine di certa banale e noiosa letteratura incomprensibilmente osannata dalla critica.

  3. D. Valentini – Critica Letteraria

    Il Sorcio, pseudonimo di Eraldo Martelli, collega del protagonista nonché protagonista a propria volta di vessazioni, mobbing e altri atti di quotidiana crudeltà e bullismo nei confronti dei compagni di stanza, è lo specchio deformato (e deformante) in cui ogni giorno Nicolò Consorti è costretto a specchiarsi pur senza esserne consapevole.

    È a causa del Sorcio – della sua cialtroneria, del suo essere sgarbato verso clienti e colleghi, dei suoi miseri comportamenti antisociali – che Nicolò Consorti, ultraquarantenne dalla vita piatta, non fosse per qualche romanzo di successo, si rivolge a uno psicologo freudiano. E qui, raccontando del Sorcio, Nicolò svela se stesso: il rapporto conflittuale col padre, quello di dominio nei confronti della madre, l’infedeltà coniugale vissuta con nonchalance, gli anni giovanili colmi di bravate e tentativi di inserimento sociale. Il Sorcio è una diga, aperta la quale a Nicolò Consorti si rivela il proprio fiume interiore, impetuoso e feroce. Il Sorcio, l’uomo che dà il titolo al romanzo di Carraro e che dovrebbe esserne il protagonista, o meglio l’antagonista, a un certo punto scompare dalla narrazione, travolto dalle rivelazioni di Nicolò. Lo ritroviamo in un atto di ritorsione durante un pestaggio, e alla fine, quando la vendetta torna a chiedere gli interessi.

    Perché questa scelta? È una domanda legittima, che da lettori ci si pone. La risposta che le ho dato è che il Sorcio è il famoso dito al quale guardiamo, anziché essere la luna a cui Carraro vorrebbe farci rivolgere gli occhi. Trattenuti dal titolo e dalle prime pagine che vedono protagonisti i due colleghi, attendiamo di capire dove si andrà a parare, quando finalmente arriverà il confronto fra i due. Eppure, quando arriva, la tensione non è così alta come ci si aspetta; la soddisfazione di veder crollare l’antagonista, neanche; e quell’epilogo solitario, brutale a sua volta, lancia un chiaro segnale di allarme.

    Il Sorcio – la violenza del Sorcio – è altrove.

    Lo scopriamo seguendo con attenzione le sedute di Nicolò, il quale sviscera, prima con qualche riserva e infine in assoluta libertà, la propria vita. Si rivela, agli occhi del professionista di turno, una creatura meschina, infima, che, incapace di relazionarsi concretamente con la propria bassa moralità, demanda l’arduo compito alle proprie scritture. Entrato nel mondo degli adulti, dove la violenza è meno accettata, essendosi controvoglia borghesizzato – la fobia della borghesia, del diventare borghese, è un leit motiv che trapassa tutto il romanzo – Nicolò Consorti non ha modo di essere quello che dovrebbe essere, e dunque si inventa un luogo in cui sputare fuori tutta la propria violenza: il romanzo.

    È qui, nelle sue pagine, che Nicolò affonda i denti su colleghi, parenti, amici, persino sul suo psicologo. Si autoconvince di essere paladino dei deboli, di declamare verità scomode, ma la realtà – di cui è inconsapevole – è che nei testi che scrive ha la libertà di fare del male, di essere se stesso, di violentare il proprio scorcio di mondo. Se Eraldo Martelli è un bullo da quattro soldi, protetto per qualche motivo da un santo in paradiso, Nicolò Consorti, con la sua maschera da onesto cittadino piccolo-borghese, è il diavolo in persona. E come tale, alla fine, si riconosce.

    Pubblicato nel 2007 da Gaffi editore, questo potente romanzo d’introspezione torna alle stampe, maturato da oltre dieci anni di riflessioni. Carraro è l’autore della violenza, il cui sguardo sa cogliere nei dettagli delle nostre piccole case quello che siamo e, soprattutto, quello che nascondiamo. Ritrovarsi fra le pagine dei suoi romanzi può essere un’esperienza spaventosa.

  4. A. Ferracuti – Rassegna Sindacale

    Andrea Carraro è uno scrittore realista al tempo del virtuale. Non pensa, come invece Nabokov, che quella cosa che chiamiamo “realtà” vada messa tra virgolette, né che sia sparita. Così la racconta, con spudorata – e con “costruita” – naturalezza. Una realtà fatta di esterno e di interno: di relazioni sociali e di ambienti lavorativi, e anche di impalpabili conflitti di coscienza e nebbiose fantasticherie. Il genere del romanzo è stato finora in Occidente l’unica “scienza” di tale intreccio. Riscrivendo con significative aggiunte Il Sorcio (Elliot), già uscito 13 anni fa, Carraro precisa meglio il suo memorabile protagonista, un “eroe del nostro tempo” – Nicolò – oscillante tra feroce rancore verso il mondo e una pietas straziante nei suoi confronti. La biografia di Nicolò disegna un destino. Frequenta una scuola cattolica e un ambiente fascistoide, fa la gavetta in una rivista letteraria di serie B, pubblica un romanzo importante (poi film alla Mostra di Venezia), assiste impotente e quasi afasico alla morte del padre (che aveva ambizioni letterarie frustrate), sposa Stella e hanno un figlio, si scontra con la famiglia di lei, si impiega in banca dove è vessato da un bullo animalesco (che in seguito farà pestare!), comincia una interminabile psicoterapia. Velleitario e talentuoso, egocentrico e perciò sfinito dai rimorsi, disprezza la mediocrità (che gli rimanda la propria) e odia l’ipocrisia (intrinseca a ogni vita sociale). Incline al sadomaso (ha bisogno di sentirsi perseguitato), annega in una continua, liquida esitazione, interrotta da soprassalti di attivismo distruttivo. L’invenzione più bella è il finale: ritroviamo Nicolò solo, la notte di Natale, di fronte a una distesa bianca e caliginosa in Umbria, dove piange, ma senza autocommiserazione: “È un pianto quieto di commozione per la purezza e per la pace che lo circondano”. L’unica possibile salvezza è scoprire un’epica dell’esistenza che riassorbe in sé il bene e il male e, misteriosamente, sembra per un istante assolverci tutti.

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