Caro Andrea, ho finito di leggere il tuo bel libro (Come fratelli, Barbera editore, 16,90 euro), e, come faccio sempre, provo a focalizzare subito in poche parole l’impressione-chiave da cui muovere per raccontarti, in sintesi, cosa ho colto attraversandolo: per me Come fratelli è, soprattutto, una riuscita (e ampiamente condivisibile) dichiarazione di poetica.
Provo a chiarire. A pagina 37, lì dove Andrea, in pieno entusiasmo giovanile confida a Dario: «Il realismo che intendo io va scritto con la maiuscola, – sentenziava – è quasi una categoria del pensiero, capisci Dario? È una cosa da cui non si può prescindere, un po’ come per te la Fede. È un realismo che viene ineluttabilmente dopo, beninteso, dopo il naturalismo, dopo i moderni, dopo il neorealismo, dopo le avanguardie, dopo qualunque avanguardia…», ebbene, proprio in questa breve frase, che non a caso mette la effe maiuscola a Fede, io non fatico a estrarre dal personaggio Andrea il tuo DNA letterario; quasi che tu, giunto a questo momento della tua vita, abbia voluto farne un primo resoconto diluendo il racconto di quelle che sono le ragioni profonde del tuo legame con la scrittura nella forma a te più propria, ovvero nella trama di un romanzo che renda a quelle ragioni la piena dignità di protagonista.
Così prendo per veri i “dolori dappertutto, tristezza, mal di vivere […] Passava giorni e giorni a casa a piangere e a ingozzarsi di medicine […] Invece di studiare leggeva romanzi su romanzi” (pag. 50), e ancora “Affilava le armi della sua nevrosi e della sua misantropia che avrebbero alimentato i suoi primi libri” (pag. 56). Ma anche nella scelta di raccontare l’amicizia fra Andrea e Dario – con la sua evoluzione, che scandisce le differenti crescite di ciascuno, fino al dramma conclusivo – vedo la proiezione ortogonale di una tua vicenda interiore, col tendersi al tuo interno di conflitti laceranti (come se un Dario e un Andrea abitassero in te), fino a quella specie di catarsi trasmutativa per cui, nel romanzo, alla morte di Dario corrisponde, in piena funzione equilibratrice, la nascita del Come fratelli della finzione narrativa; mentre alla morte del tuo Dario interiore corrisponde la nascita del Come fratelli che tengo in mano e nelle cui pagine tutto ciò accade.
Mise en abyme, quindi, libro nel libro ma anche vicenda nella vicenda, dove il passaggio del tempo cronologico è ben reso da quel surplace dell’anima in cui Andrea e Dario invecchiano offrendo, a riprova dell’esistenza e malgrado il loro frequente muoversi, soprattutto lo statico teatro del viso per raccontare – quasi fosse più importante delle stesse esperienze vissute – le fatali e non pacificate conseguenze misurabili in termini di avvizzimento, rughe, capelli radi e bianchi (un po’ quello che è possibile vedere in certe simulazioni al computer dove in un minuto scorrono anni di vita), come se tutto il sangue, il sudore e le lacrime, incontrati nel corso della loro vita di protagonisti, nulla abbiano potuto, in realtà, contro il potente “noli me tangere” che protegge i nuclei vitali di Andrea personaggio e Andrea autore, foss’anche attraverso la morte del suo Dario interiore. In tal senso Come fratelli è un perfetto atto d’amore verso la forma romanzo; atto diluito nell’abile strategia narrativa impiegata e la cui sostanza, impercettibile durante la lettura, infine brilla retroattivamente e perciò la si può percepire a libro chiuso, arcana e indiscutibile come il monolite kubrickiano.
Scrivevi tempo fa su facebook “Se di una certa cosa hai le idee precise e chiare, non ci scrivi un romanzo, ci scrivi un saggio o un articolo. Il romanzo lo scrivi se quella cosa lì ti colpisce e ti turba e se ne scappa via da tutte le parti se cerchi di afferrarla”. Come non essere d’accordo? Ma se si vuole mettere al mondo un’opera che intrinsecamente porti avanti istanze saggistiche e lo si vuole fare servendo in pieno le regole della narrativa, allora si fa come hai fatto tu, si dissimula l’intenzione privata sotto una lingua che porti in modo deciso, e netto, lontano dal saggio. È qui che torna in ballo la forza del tuo “realismo”, la sua indiscutibile capacità di raccontare tutto con la lingua che gli è più propria, come se la forma adottata fosse sempre la più fedele e immediata cassa di risonanza delle cose dette, la loro evoluzione sonora e ideale.
E che dire dell’ironia del titolo che per alludere alla forza dell’amicizia che lega Andrea e Dario usa come parametro positivo la figura dell’essere fratelli, incurante che poi, nel corso della trama, il rapporto tra Dario e suo fratello Ciro assuma i caratteri di un’inimicizia così profonda che neanche la morte riesce a sanare. Non sei indulgente con la realtà, non lo sei mai stato (basterebbe citare Il branco e Il sorcio), e neanche qui risparmi crudezza di sguardo e immediatezza di riscontro; vedi su tutto la morte di Ester, conseguenza della più benintenzionata e letale disattenzione collettiva. La stessa figura di Valeria, che infine non viene meno a una sua silente funzione di protettiva accoglienza, entra nel cortocircuito del dubbio e del sospetto, come se il gioco a tre Dario-Andrea-Valeria, agli antipodi delle rotture poi tragiche tentate da Jules e Jim, non potesse darsi che sotto forma di interconnessi giochi a due che richiedono ad Andrea continui cambi di prospettiva, al pari di uno scacchista impegnato su due tavoli.
Scorre in sottofondo l’Italia che muta nel segno di una superficialità tutta mediatica, sempre più incarognita e arresa, dove le cialtronerie delle fedi spicciole non faticano mai a trovare ingenuità adatte alla loro proliferazione; come se l’utopia di Xiva, con tutto il suo folclore e la sua contiguità a un serio interrogarsi sul dopo, altro non riesca a rappresentare, da ultimo, che la corruzione dell’ipotesi stessa di utopia. Notevole l’evidenza con cui l’istituto della famiglia mostra la sua mortale incapacità di mutare da forme tradizionali ad altre che soddisfino le diverse esigenze del patto sociale. Solitudine, povertà, remissione; l’inquinamento, pare chiaro, non tocca solo l’ambiente e il clima.
Difficile non fare un parallelo fra il tuo Come fratelli e il Siti di Resistere non serve a niente; vuoi perché entrambi giocano la formula (ai confini dell’autofiction) della testimonianza che non solo si fa libro ma che si fa proprio lo stesso libro che si sta leggendo, vuoi perché i realismi che prevalgono in entrambi hanno ascendenze comuni; oltre a esiti, in quanto a effetti sul lettore, simili, nonostante Siti ne privilegi un aspetto di ricorso al dettaglio quasi manageriale e tu, invece, ne sviluppi soprattutto quell’aerea svagatezza che rende l’apparente imprecisione, al contrario, estremamente precisa e capace di centrare il bersaglio.
Va da sé che molto altro ci sarebbe da dire, ma questa nota a caldo non pretende di esaurire il tema; le basta muovere il discorso, per accordo o disaccordo, magari immaginando (sperando) che dal dialogo suscitato, e dalle conseguenti riflessioni, possano nascere intelligenze del testo altrimenti impossibili.
Da ultimo: se fossi il direttore di un giornale importante ti metterei a contratto per garantirmi la tua firma su un progetto di reportage che raccontino l’Italia (e con essa gli italiani) di oggi.
Tuo, Fabio
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