Il sorcio

Paolo Consorti ha 44 anni, è sposato con Stella da 16 e ha un figlio piccolo, Filippo. Il suo principale problema è il lavoro, o meglio un suo collega, Eraldo Martelli soprannominato il Sorcio.

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Recensioni

  1. R. Montanari

    Trama: Roma, oggi. Nicolò Consorti è uno scrittore che per vivere lavora in banca. Ha moglie, Stella, e un figlio di sei anni, Filippo, ed è depresso; per questo va dall’analista e tutto il libro nasce dal dialogo fra lui e il terapeuta. Emergono nel libro il rapporto irrisolto con un padre dispotico e soprattutto quello terrificante con un collega d’ufficio, Eraldo Martelli detto il Sorcio, un uomo violento che sembra incarnare l’alter ego liberato di Nicolò. Il lungo duello fra i due sfocia in episodi drammatici, come il pestaggio che Nicolò organizza ai danni del Sorcio o il topo morto che il collega gli fa trovare in un cassetto, e termina con una vittoria di Pirro: Nicolò ottiene l’allontanamento del Sorcio in altra sede, ma questo non sembra consolarlo. In compenso, oltre ad avere perso uno a uno tutti i suoi amici a causa del suo carattere acido, finisce per rompere anche con l’analista e guastarsi con lui sul piano personale. Lascia la moglie e torna al paese natale, Montefalco, dove passa uno squallido ultimo dell’anno in compagnia del portiere dell’albergo, il poetastro Renato; ma quando questi scopre che Nicolò l’ha inserito come vittima nel libro che sta scrivendo, lo caccia minacciandolo con un fucile. Osservazioni Il tempo base è il presente e la persona la finta terza, ma Carraro si muove con enorme libertà, alternandola alla prima e soprattutto entrando e uscendo senza preavviso dal setting del dialogo con l’analista, giustapponendo i virgolettati. Forte naturismo qua e là che ricorda Berto. Acidissimo il tono di tutto il romanzo, spietato con il protagonista e intransigente nel negare al lettore qualsiasi possibile identificazione. Grande romanzo sull’impossibilità di salvarsi la vita.

  2. M. Fiorletta – succedeoggi.it

    Il Sorcio di Andrea Carraro è un libro che fotografa alla perfezione il dolore legato a una formazione umana continuamente interrotta. Dai furbi, dagli arrivisti, dai competitivi… Se non avete voglia di guardarvi dentro, di confrontarvi con la vostra vita lavorativa, con la famiglia ñ quella da cui si proviene e quella che vi siete o vi state costruendo ñ se non avete voglia di confrontarvi, insomma, con la vita, allora non leggete questo libro anche se forse, appunto per quella voglia che vi manca, sarebbe il caso che lo faceste. Il sorcio (Gaffi 2007) di Andrea Carraro è un libro che non fa sconti a nessuno, che non mira a consolare ma piuttosto a sbattervi in faccia, anche con una certa violenza, il piccolo male quotidiano, l’autore non vi nasconde nulla perché la vita di Nicolò Consorti è la vita di tanti di noi. Quanti hanno avuto il collega di lavoro, il sorcio del titolo, che avrebbero voluto schiacciare, prendere a calci o ammazzare, perlomeno con il pensiero? E che dire degli amici dei diversi cicli del divenire adulto, della famiglia, di un padre in perenne competizione che non spinge ma impedisce la crescita e l’autonomia dei figli al limite della castrazione psicologica perché vede i loro progressi come un fattore sminuente del proprio ruolo. Il povero Consorti, già vittima di un lavoro che non gli piace, il bancario, e che cerca un’affermazione, verrebbe da dire una consolazione, nel suo essere scrittore di discreto successo non riesce a vivere con tranquillità. Lo turbano e lo deprimono i sorci che si incontrano nelle varie fasi della vita e che spesso non si riesce ad evitare o neutralizzare. D’altronde siamo circondati da sorci, persone incolte, violente, ignoranti, insensibili e riuscire ad evitarli tutti è sinceramente impossibile. E così il povero Nicolò per cercare di salvare il salvabile ricorre alla psicanalisi, che funge anche da espediente letterario, dopo aver intrapreso la discesa. Il resto lo scoprirete leggendo le 250 pagine del libro. Carraro non ci risparmia nulla a partire dalle situazioni, dall’ambientamento e usa magistralmente le parole adatte, senza infingimenti e senza auto-compiacimenti, alle situazioni che escono dalla sua penna. D’altronde perché stupirsi, scandalizzarsi per descrizioni che non sono altro che tratti, percorsi comuni a tanti di noi. Questa è la vita, e questo è il giusto modo di raccontarla, senza filtri emozionali e linguistici, senza censure. Certo, a chi in certe situazioni ci si è trovato davvero, le pagine di Carraro potrebbero riaprire ferite ma anche questa è vita. Insomma, un libro che vale la pena di leggere, che bisogna leggere.

  3. A. Pomella – andreapomella.wordpress.com

    Il sorcio, di Andrea Carraro, è un libro uscito per Gaffi nel 2007. Racconta la storia di Nicolò Consorti, scrittore-bancario ultra quarantenne con la psiche deturpata dalle angherie di un collega soprannominato il Sorcio e con le nevrosi di un complessivo disadattamento ai ruoli molteplici che gli ha assegnato la vita, l’essere contemporaneamente figlio, marito e padre. Scritto come se fosse il racconto di una lunga seduta psicanalitica, è un romanzo sorprendentemente crudo, schietto e inesorabile, che mette in scena uno spaccato piccolo-borghese alla maniera dei grandi narratori italiani del Novecento come Moravia e Gadda. Questa umanità nuova e antica, senza più principi etici né valori, divorata da se stessa e dalle proprie ossessioni, è la materia prima di cui si serve Andrea Carraro, autore capace come pochi di svelare la falsificazione delle nostre esistenze sfigurate dal conformismo. Il sorcio allora diventa figura simbolo di quel male oscuro che svuota le vite di velleitari impiegatucci, di divorziati in cerca di un’eterna giovinezza, di puttanieri, di alcolizzati annoiati e sentimentalmente distratti, o peggio di condannati in via definitiva a sperperare i propri anni migliori. Un libro bellissimo, con un finale che esibisce le prove di come sia impossibile, in definitiva, far convergere letteratura e vita.

  4. E. A. Paul – www.trashicmagazine.it

    Ci sono libri che bisogna recensire subito dopo la lettura, prima che ne svanisca il ricordo, labile, evanescente. Altri invece è necessario digerirli, lasciar passare del tempo, farli macerare. Elaborarli come si fa con una vincita improvvisa o un lutto arrivato tra capo e collo. Lasciare che l’innesto simpatico sbocci e doni (se possibile) il senso di quelle pagine. Questo bisogna elaborarlo. Parlando del libro di Andrea Carraro si potrebbe attaccare un pippone di tre cartelle sul mobbing e i suoi derivati, ma sarebbe banale, scontato e paradossalmente fuori tema; il mobbing ne IL SORCIO è solo un movente, una scintilla, il mood adatto per strutturare una storia di malessere intimo e radicato. Nicolò Consorti, scrittore (di discreto credito) e impiegato di banca a tempo perso è il protagonista di questo quadro asciutto, di cruda depressione empatica. ‘Il Sorcio’ del titolo è il collega che da anni lo tormenta. Tra richiami alla scuola romana più o meno sibillini (e subliminali) e dialoghi dalla caratterizzazione chirurgica e, nonostante ciò, mai (e ripeto mai) macchiettistici, si affrontano irresolutezze familiari, irrequietudini adolescenziali, l’insicurezza cosmica. Il Sorcio è nemesi e capro espiatorio: il cattivo di turno, quello da biasimare, verso il quale indirizzare e sfogare vigliaccamente le proprie paure e frustrazioni. Il collega che basta guardarlo per farti sentire una persona migliore, nella tua cieca e pregiudiziosa spocchia da parvenu latente. Le pagine pullulano di ‘Sorci’ (attenzione né ratti, né topi, è importante), personaggi meschini che, in un gioco di immondi specchi, riflettono i propri vizi e le proprie miserie da sottosuolo morale l’uno sull’altro. Nessuno può dirsi salvo; pochissimi forse. La violenza si accetta in silenzio; in silenzio si medita vendetta fino ad implodere. Un libro di psicoanalisi romanzata; un protagonista dal cinismo patologico; un epilogo che a partire dal titolo freudiano, lapidario, evocativo, ci consegna la chiave di lettura dell’intera opera.

  5. A. Celano – Immaginazione

    Andrea Carraro, Il Sorcio, Gaffi, 2007 Non aveva tutti i torti Massimo Onofri (‘Diario’, 5.7.2007) quando, interrogandosi sul successo di critica ottenuto dal romano Andrea Carraro, ne lamentava anche il troppo ridotto consenso di pubblico rispetto al reale valore dello scrittore. E una ragione c’è, perché Carraro -lo stile di Carraro- può ben far proprie le parole che, nel Vangelo, Matteo (10, 34) mette in bocca a un Gesù particolarmente duro con i propri discepoli: ‘Non crediate che io sia venuto a portare pace sulla terra; non sono venuto a portare pace, ma una spada giunta, in questo caso, a dividere i lettori. La scrittura di Carraro è disturbante, mai rassicurante o consolatoria, capace com’è di rivelare il piccolo borghese che è in noi e di porcelo davanti come un gemello mai perfettamente somigliante, eterozigote, ma di cui in ogni istante si riconosce l’inquietante e irritante comune matrice. Una matrice non tanto genetica, ma esistenziale, come la sua tecnica: asciutta e cronachistica nello stile quanto solo apparentemente realistica nella sostanza, continuamente sottoposta ai corrugamenti degli stati psichici del protagonista. Il che pone il lavoro di Carraro nella linea della migliore letteratura italiana, quantomeno quella generatasi dalla crisi dell’uomo borghese otto-novecentesco, ma dagli esiti più estremi e moderni. Soprattutto se si pensa che il romanzo non costituisce un ‘a sé’ dal resto dell’opera di Carraro. Come in una brevissima e personale Recherche, richiamandosi al precedente Non c’è più tempo, l’Autore ci consegna qualcosa che, più che le vicende di un singolo protagonista, rappresentano un vero e proprio tentativo di ricognizione sulla condizione umana. Il libro è la vicenda di Nicolò Consorti, un impiegato che si dedica con un certo successo anche alla scrittura, relegato dalla sua banca in un distaccamento periferico. In questa sorta di claustrofobico scantinato si ritrova a essere vessato da un collega -soprannominato, appunto, il Sorcio- che lo maltratta con gretta violenza. Ma non è tutto qui, perché la narrazione man mano si allarga fino a rivelarci, della vita del travet capitolino, i dolorosi rapporti con il padre e la madre, con la moglie e il figlio, fino a scavare nella sua giovinezza, vissuta con un gruppo di amici. Il tutto raccontato entrando e uscendo dallo studio di un analista, così come dalla terza e dalla prima persona, dal passato e dal presente, dalla realtà e dalla fantasia, e in un continuo ribaltamento di atteggiamenti sadici o masochistici. Sì, perché la violenza (non solo quella fisica), nella scrittura di Carraro, mai è dialettica, mai anela a futuri riequilibri sintetici, ma sempre ci si presenta in una sorta di forma organicistica per cui l’aggressore nasconde sempre in sé anche i tratti della vittima, e viceversa. Di più. Sotto questo paesaggio vincolante e dicotomico, si aprono nel protagonista spazi sotterranei dove lentamente stilla e scorre una pece composta di frustrazioni e di offese subite, fatta di uno scarto sempre troppo vivo tra aspirazioni e condizioni reali di vita, magmi che ben presto raggiungono una massa critica e iniziano a premere sulle pareti in cerca di cedevoli sbocchi eruttivi. Il Sorcio rappresenta tutto quanto Nicolò in apparenza non è: la tracotanza, la rozzezza, l’assenza di ogni complessità e aspirazione creativa. Ma accade che il protagonista, inetto a pararne i colpi, non riuscendo a inscenare mai, nella realtà, la propria forza, la propria capacità di reagire alle vessazioni, paga dei picchiatori per dare una lezione al suo collega che verrà, alla fine, anche trasferito, pur non lasciando nessuna traccia di trionfo in Consorti, ma anzi ‘l’attesa ansiosa della disfatta che segue tutti i momenti di vittoria’. Intorno a questo episodio (che rinuncia a un facile topos dell’immaginario collettivo che vorrebbe l’uomo di lettere figura alta e distaccata) si dipana una vera a propria ricerca sul passato e sul presente dell’impiegato e sul suo mondo, un’indagine da cui, alla fine, anche tutti gli altri protagonisti paleseranno alla fine, chi più chi meno, quasi fossero usciti dalle pagine di un saggio di scuola lombrosiana, un volto per metà bello e ridente, per metà ferito o deturpato. è il caso del gruppo di amici che Nicolò frequenta durante la sua adolescenza. Un drappello di goliardici pariolini a cui il protagonista si unisce, non a caso, per precedenti delusioni amicali e che frequenta, pur percependo un senso di inadeguatezza sociale e di estraneità ideologica, ma proprio per questo prendendo con più forza parte attiva alle loro feroci scorribande. C’è anche, riprendendo le mosse da Non c’è più tempo, l’eterno conflitto con l’invadente figura del padre, che qui, però, pare un pò allentarsi. A stemperarla interviene infatti il ricordo del nonno Omero che, a sua volta, ha umiliato e ridicolizzato il figlio di fronte alla famiglia. Peraltro Nicolò pare ora intimorito dalla nascita del figlio Filippo, convinto che possa far scivolare in secondo piano l’attenzione della moglie e della famiglia per le sue ‘esigenze’: la cura della depressione, a causa della quale si reca settimanalmente dall’analista, e la scrittura, vissuta ora con più acuto senso di colpa. Una scrittura che si caratterizza come il luogo di deiezione del protagonista, la discarica delle contumelie, delle ‘verità’ senza sfumature di Nicolò Consorti che, per questo, come un Mida rovesciato, distrugge uno dopo l’altro tutti i suoi legami più profondi, addirittura riuscendo a guastare il carattere di chi lo legge. Nel romanzo anche gli ambienti sembrano aderire all’interiorità monca degli uomini. L’ufficio della maga, lo studio dello psicanalista, la discoteca, i quartieri cittadini e i paesaggi, sono tutti più o meno dei posti spogli, tristi, desertici. Soprattutto la banca, lo scantinato dove si trascinano le esistenze di Nicolò e dei suoi colleghi, è un luogo freddamente funzionale, umanisticamente morto. Massimo Maugeri (‘Il Mattinò, 2.10.2007) a tal proposito ha ritenuto utile consigliare che: ‘per difendersi dal [deserto metropolitano] si potrebbe far riferimento alle note opzioni di Calvino in Le città invisibili: ‘accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più’, oppure, ‘cercare e saper riconoscere che e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spaziò’. Ma purtroppo, la disgrazia dell’eroe di Carraro sta proprio in questa impossibilità di uscire dalle due opposte opzioni, condannato com’è a rimanervi in mezzo, eternamente sospeso in una situazione di scollamento narcisistico, antiedenica, pur all’inferno mai abituandosi. Dunque nessun terribile epilogo, ma anche nessuna ottimistica speranza. è un mondo dove Gesù non nasce o, meglio, dove la sua nascita è dimenticata. Tutt’al più può soccorrere il desiderio. Il desiderio di una catarsi dal senso quasi ultramondano, di una ritrovata purezza, di un pò di vita appena discosta dai miasmi dell’esistenza e dalla morte.

  6. S. Clerici

    Chissà quante persone hanno avuto, o hanno ancora a che fare con un ‘sorcio’. No, non parliamo di topi. Ma di uomini perfidi e implacabili che, come le più repellenti e spietate ‘pantegane’, sono capaci di roderti attimo dopo attimo la la vita, fino a portarti, se si è troppo deboli o troppo sensibili, all’ossessione e all’incubo. Probabilmente, c’è almeno un ‘sorcio’ nella storia di ognuno di noi. E di voi. Il ‘sorcio’ è quell’essere, quel vicino di casa, quel compagno di lavoro, capace di scatenare l’esasperazione negli animi più apparentemente tranquilli, di provocare in ciascuno di noi reazioni – figlie dello spirito di sopravvivenza – di cui spesso non avremmo mai immaginato d’essere capaci. Reazioni che poi possono portarti dritto dritto sul lettino dell’analista, a raccontare episodi più o meno recenti e a scavare nella memoria, magari quella più lontana, ma che invece è spesso la più vicina causa della tua per te soddisfacente, ma esagerata, risposta all’offesa. Oggi lo chiamano ‘mobbing’. Ieri si chiamavano semplicemente angherie. Oggi sono un reato, ieri erano considerate solo, il più delle volte, le ‘fantasie di un mattò, o di un ‘rompicoglioni’ professionista. Qualcuno ha scritto che alcune delle esperienze raccontate in questo romanzo da Andrea Carraro sono state vissute sulla sua pelle. Molto probabile che nel libro ci sia una dose autobiografica quanto basta. Ma il merito dell’autore è quello di ‘mettere in piazza’ il lettino. Di farci sapere per filo e per segno ciò che Nicolò Consorti, impiegato di banca e scrittore – protagonista del romanzo – ‘vomita’ a ogni settimanale seduta davanti al suo analista. Le prepotenze subite in ufficio da ‘Eraldo Martelli, un collega di lavoro basso, pelato, panciuto che per oscure ragioni lo disprezza’. Ma anche i suoi rapporti con la moglie Stella, con gli amici e con il dispotico padre, morto da alcuni anni. La voglia di vendetta porterà Nicolò al punto di assoldare due picchiatori per dare un’indimenticabile lezione al ‘sorcio’. E assiste, non visto, alla spedizione punitiva, godendosi lo spettacolo del pestaggio. Solo che poi, dopo un primo momento in cui l’odiato Eraldo sembrava diventato ‘silenzioso ed educato’, si torna all’antico: ‘Sono bastate poche settimane per far rientrare il sorcio nei suoi panni di sempre. Ha ripreso a parlare a voce alta, a insultare, a imprecare, a tiranneggiare!’. E così la battaglia continua. finché il ‘sorcio’, grazie alle mosse di Nicolò, non verrà trasferito d’ufficio altrove. Non senza un violento scambio di accuse e di insulti tra i due. è la resa dei conti. Ma non è la fine della guerra. perché il suo dottore gli dirà sinceramente: ‘Lei si troverà sempre dei sorci nella vita, io temo! Dobbiamo entrare nell’ordine di idee che la sua natura ha sempre bisogno di un sorcio’. ‘Allora sono un masochista?’. ‘Lo ha detto lei!’

  7. P. Spirito – Il Piccolo

    Nicolò Consorti lavora in banca, un impiego che odia e che toglie spazio alla sua vocazione di scrittore. Ha un figlio di sei anni, una moglie, genitori con i quali il rapporto è difficile (anche se il padre è morto) ed è alle prese con la depressione. In più, nel suo ufficio lavora il collega Eraldo Martelli, detto il Sorcio, uomo sfrontato e insolente che provoca Nicolò, lo ossessiona. In questo labirinto Nicolò si muove alla ricerca di una via di fuga, di una soluzione, di un ancoraggio che non può trovare. Con ‘Il Sorcio’ (Gaffi, pagg. 241, 12,50 euro) Andrea Carraro, indimenticato autore del ‘Il branco’, conclude idealmente una trilogia iniziata con ‘La lucertola’ e proseguita con ‘Non c’è più tempo’, dedicata all’impietosa raffigurazione del piccolo-borghese contemporaneo: personaggi alle prese con crisi esistenziali e d’identità di cui loro stessi sono l’origine, uomini imbrigliati in reti relazionali che si dibattono in cerca di una salvezza che non può esserci, e finiscono per calare se stessi in abissi senza fondo. Diventando barboni, o prede della malavita, o pronti a perdere tutto ciò che hanno, persino uccidere. Personaggi che però agiscono sempre in un contesto che rappresenta la nostra società contemporanea, tratteggiata con lo stile asciutto e affilato che contraddistingue la prosa di Carraro, che qui ci parla del mobbing, e delle malattie che colpiscono gli animi più sensibili, di cosa significa crescere in un tessuto urbano dove non c’è pietà e di cosa significa crescere con un padre autoritario. Nicolò Consorti racconta tutto ciò al suo psicologo, e il racconto si sviluppa tra ambienti e atmosfere crude, squallide, e diventa metafora dello scrivere, di quello stare in bilico tra verità e finzione che a volte può essere l’unica salvezza.

  8. O. La Stella – Il Messaggero

    Il SORCIO (Gaffi, 241 pagine, euro 12,50), l’ultima fatica di Andrea Carraro, è un romanzo aspro e coinvolgente. Vi si parla di Nicolò Consorti, 45 anni, romano, bancario, sposato e padre di un bambino. Da anni è assediato da una tenace depressione. Fa pure lo scrittore e la moglie Stella, con la quale ha problemi di comunicazione (come del resto con tutti), si lamenta che scrive sempre di mostri. E un mostro domina la vita di Nicolò: nell’enorme scantinato nel quale lavora (l’ufficio rapporti con la clientela) la fauna degli impiegati è intimidita dalla figura del ‘Sorcio’, uomo rozzo e volgare che vessa i colleghi e soprattutto i più deboli. Come Lerici, il sordomuto. Conforti ricorrerà a una maga per sbarazzarsene e successivamente tenterà espedienti più radicali. Invano. Pesa su Nicolò anche la morte del padre, ucciso anni prima da un cancro al polmone. Il padre riteneva che fosse un inetto e lui non è mai riuscito a convincerlo di essere un figlio con qualche qualità. Un profondo senso di inadeguatezza lo ha sempre accompagnato. Non si ritiene capace neppure di fare il padre. Nicolò scava con sofferenza dentro se stesso, con l’aiuto di un analista. E il romanzo segue il dipanarsi di questo processo psicoanalitico, rivelando al protagonista che ‘il Sorcio’ di cui vorrebbe sbarazzarsi è anche la proiezione di un mostro che ha dentro di sé. Un romanzo coinvolgente, dicevamo. Soprattutto per quanti alla rimozione preferiscono la riflessione su se stessi, per quanto dolorosa possa essere.

  9. F. Camon – Tuttolibri

    Sulle prime il libro ti pare schifoso, una rassegna del fango che insozza la vita, non la vita dei protagonisti, ma la tua, perché tu vivi dove vivono loro. Poi ti bevi di corsa le ultime pagine e ti convinci che sì, in quel sozzume manca pietà, comprensione (ed è strano: il contenitore di tutto è la psicanalisi, il protagonista è in terapia), ma il libro non è un elogio della mancanza, è un lamento: un lamento per l’assenza di quello che una volta si chiamava Dio, termine ormai impronunciabile e inscrivibile, e infatti ho sbagliato a scriverlo qui. Ma allora cos’è, un romanzo sulla ripugnanza della vita, l’odio, l’indifferenza, il disamore padre-figlio, amico-amici, collega-collega, marito-moglie, e perfino (che riassume e contiene tutti gli altri odi o indifferenze) analizzato-analista? Giriamo sempre in un bestiario, e la bestia più schifosa è il topo, il sorcio, il Sorcio, miserabile-patetico, che impesta la vita in banca, carnefice-vittima, che fu vittima prima di diventare carnefice e se è carnefice merita di diventare vittima. La traversata del sotterraneo buio, malsano, asfittico, mette capo a un racconto ‘moralista’. E dunque benefico, oserei dire orante: perché c’è la preghiera di chi ha trovato e la preghiera di chi non trova, e invoca quello che non c’è. Siamo in una banca, nel livello basso della banca, tra i mutuatari. Poveracci, che la crisi dei mutui rende miserabili. Il protagonista Nicolò Consorti lavora lì, per punizione, è stato retrocesso. Tutto gli va male. Non ha un rifugio: padre, moglie, ufficio, colleghi, tutto è avvelenato. E dunque è lui l’avvelenante, che contamina ciò che tocca. è uno scrittore. La scrittura è l’arma per difendersi dalla vita. Cioè per offendere la vita, perché lui la usa in senso aggressivo. Come tutti gli scrittori, non sa se è grande o mediocre, di serie A o B. Come tutti gli scrittori, vede che chi lui descrive si offende. Scrive romanzi, e pensava che i romanzi fossero garantiti dall’irresponsabilità, perché obbediscono alla fantasia. Ma non c’è irresponsabilità, cioè mancanza di cause, neanche nell’inconscio. Scrive del padre, e lo colpisce a morte. Scrive dell’analista, e (questa però è una defaillance dell’analista) l’analista tronca l’analisi. In un mondo di animaleschi istinti, in cui ognuno ferisce gli altri, e l’animale più sozzo è il sorcio, lui è una iena, va in cerca dei feriti per mangiarli. Non si accontenta, come il suo amico sordomuto, di pagare una maga perché faccia morire il Sorcio: no, lui cerca un picchiatore a pagamento, uno che va a spaccare teste su commissione. Dunque, lui è peggio degli altri. E finisce peggio. L’analisi dura cinque anni, e alla fine di tanto pagamento viene scaricato di brutto, e nelle ultime pagine lo vediamo aggirarsi in un cimitero, sulla neve, tra i morti. Le cose che Carraro conosce a meraviglia, cioè le sue mozioni a scrivere, sono molte: Roma, i Parioli, il gruppo (si sente che l’autore ha già scritto ‘Il branco’), la maga, la coppia, l’unità di strada (il gruppo terapeutico che cura i drogati girando col pulmino), l’analisi (ma è un’analisi, se mi è permesso, semi-selvaggia, con molti errori dell’analista), la madre vecchia e sola, la banca (ma mica tanto, potrebb’essere qualunque altro luogo), la vendetta (questa più di tutto, sostanzialmente è la storia del bisogno di vendetta, l’estrema vendetta come estrema giustizia, ben sapendo che una giustizia estrema non è giustizia ma colpa), il padre (che il figlio rifiuta: il figlio va in analisi per diventare padre di se stesso), la scrittura (che vista dallo scrittore non è mai quel che pensano i lettori, i lettori la pensano come grazia, lo scrittore la sperimenta come colpa), il parto, le discoteche (diaboliche, a Riccione, ci siete stati?), i tossici, e così via (però non ci metto Londra, Londra mi sembra abortita). Soprattutto la violenza. La mite, normale, crudele violenza di tutti i giorni in tutti i luoghi. Finisci il libro e dici: ‘Che bello il mondo, se non fosse così’. Questa Aristotele la chiamava catarsi.

  10. R. Montanari – Psychologies

    Il martedì non è un giorno come tutti gli altri per Nicolò Consorti. Dopo il lavoro infatti ha due fondamentali appuntamenti settimanali: il pranzo da sua madre e la seduta dallo psicologo. Sua madre vive ancora, sola, nella sua vecchia casa, all’ultimo piano di un palazzone di fronte alla libreria Eritrea, in una zona di confine fra il ricco quartiere Trieste e il popolare quartiere africano. La donna, settantacinquenne, ha più di un acciacco, prende una valanga di medicine, ma considerato che fuma due pacchetti di sigarette al giorno, per la sua età le cose non vanno tanto male. Attacco solo apparentemente in sordina per l’ultimo magistrale romanzo di Andrea Carraro, il grande e sottovalutato scrittore romano che, con il titolo di un suo libro epocale del 1994, ha regalato alla cronaca nera la terribile e usatissima metafora del ‘brancò. In realtà tutti gli elementi narrativi sono già presenti in queste poche righe: la figura ingombrante della madre del protagonista; quella dello psicologo che per tutto questo romanzo-confessione interloquirà con Nicolò Consorti; e il contrasto (il ‘confine’) fra il mondo letterario evocato dalla libreria Eritrea e il lavoro squallido che Consorti, scrittore per vocazione, è costretto a svolgere in banca. Proprio qui si svolgerà il lungo, accanito duello fra Consorti e il ‘Sorcio’, un collega d’ufficio volgare e crudele, che del protagonista finisce per apparirci come l’inquietante alter ego.

  11. A. Ferracuti – Rassegna Sindacale

    Andrea Carraro è uno scrittore realista, forse uno dei pochi che in questi anni ha cercato nei suoi libri di dare un senso nell’oggi a questa scelta di etica letteraria neopasoliniana, molto serrata sui fatti, più che sugli psicologismi, seppure in un contesto epocalmente nemico, dominato da una iperfinzione segnata dal rimescolamento dei generi, che sembra l’orizzonte oggi più attraente. La sua coerenza e onestà la esercita da sempre sulla pagina ma anche scrivendo note di letture su Stilos, dove riflette sui romanzi contemporanei, soprattutto italiani, i quali legge e digerisce con spirito militante per i lettori più attenti. I suoi libri hanno sempre una forte tensione cupamente tragica, o comunque coagulano verso un epilogo drammatico senza lieto fine, antiretorico e visceralmente al presente, molto legato al qui e ora. Uno per tutti, emblematico, Il branco, da cui Marco Risi trasse un film con sua sceneggiatura, ma anche altri indimenticabili romanzi come L’erba cattiva o Non c’è più tempo, per non dire dei racconti de La lucertola, tutti libri molto amati da uno degli ultimi nostri Maestri, Enzo Siciliano, che pubblicò il suo primo libro da Gremese. Coerente, quindi, a una idea di letteratura poco appetibile ai palati del lettore medio italiano, ma sempre in presa diretta con la realtà che come un Capote italiano ha raccontato in indimenticabili reportage scritti per Diario e L’Unità, d’una forza espressiva e con una pasta linguistica che molti di noi hanno ammirato. Nel suo nuovo romanzo Il sorcio (Gaffi, 2007), ambientato in un grande istituto di credito romano dal clima rarefatto e kafkiano, che ricorda il Pontiggia de La morte in banca, di cui Carraro ha sicuramente tenuto conto, affronta il tema del mobbing in chiave fortemente esistenziale. Le atmosfere e i rapporti sono molto mutati, la gente è incattivita, non c’è più quell’alone di silenzio e del non detto di quel libro di Pontiggia, la banca è quasi un luogo di poveri impiegati disperati, deprivati di uno status che li ha accompagnati per almeno un secolo. Il romanzo, va detto, è anche chiaramente autobiografico, cosa che gli conferisce maggiore autenticità e consapevolezza, conoscenza diretta dei rapporti, capacità di introiezione. Infatti il protagonista Nicolò Consorti è uno scrittore, come l’autore, e come lui lavora in banca. Come lui fa analisi, e sempre come il narratore – lo si immagina anche dalla produzione letteraria precedente – ha un rapporto conflittuale con un padre ostile, che offende continuamente la sua vita. Il sorcio, che dà titolo al romanzo, è il suo antagonista compagno di lavoro, squallido e aggressivo, che lo vessa e lo attacca, fino a prostrarlo psicologicamente, anche se il tema del lavoro, in una sorta di zoo aziendale fatto di piccoli burocrati e di sclerotizzazioni impiegatizie, resta tutto sommato solo uno degli argomenti, ma non il fondamentale di un libro complesso, fatto a strati, che accumula per racconti interni, dove tra realtà e finzione l’autore recupera anche storie dal vero, e cioè veri e propri reportage scritti sul campo. Ma lungo la narrazione, prendono corpo e s’intramano altri aspetti legati al comportamento del protagonista, e che ne spiegano, nei fatti, il suo atteggiamento vittimistico e rinunciatario, con tutta l’inettitudine sveviana del romanzo italiano più classico, una parabola che tocca anche libri come i Ricordi di un impiegato di Tozzi. Si alterna alla confessione psicoanalitica, infatti, una presa diretta dei fatti in un assemblaggio stratificato, dove c’è pure una sorta di romanzo di formazione e di educazione alla vita in una Roma fatta di quartieri fascistissimi, dove l’autore e il protagonista hanno affabulato all’incirca negli anni settanta, elementi che coagulano per una più forte resa espressiva. Andrea Carraro scrive il suo libro più cupo e disperato, magistrale nel montaggio e nella resa stilistica, sempre controllato nel tono e nel dettato della scrittura, capace di illuminare, dal di dentro, la zona grigia dei rapporti umani di chi vive al presente una condizione parossistica, quella del dipendente. Che non solo nel romanzo, ma anche nella vita, diventa brutale e si svela nella sua mostruosa verità. è proprio questo, credo, il compito dello scrittore: raccontare tutto ciò che socialmente non si può raccontare, dire, confessare. Portare a galla le inquietudini, le derive e le violenze di un mondo nuovo nel quale dobbiamo, nostro malgrado, sopravvivere.

  12. N. Festa – kultvirtualpress.com

    Caro collega ti odio. L’ultimo romanzo di Carraro fa esplodere le tensioni interne di una società che chiede di odiare il proprio vicino di lavoro o di vita. Tensioni interne della società, che ovviamente non possono che bruciare negli intestini di chi questa società vive o è costretto a vivere. Il Sorcio. Che oltre a essere titolo dell’opera è soprannome ficcato sul collega di lavoro principale mira e oggetto del protagonista delle vicende. Quel Sorcio è dunque odiato dal protagonista, perché per esempio si mette sempre a fargli scherzi, e ‘di cattivo gustò anche. Il flusso della narrazione è avvolto dagli scambi che lo scrittore, chiaramente quel protagonista del romanzo che a un certo punto finisce fra le mani e sul lettino dell’esperto, affida alle parole messe fra lui stesso è l’analista dal quale non riesce a staccarsi. Eppure, a cura finita, deve andarsene per forza. Visto che fra le altre cose è stato cattivo pure con il dottore, e che per dirne una l’ha inserito nel romanzo che sta scrivendo (e che si legge contemporaneamente?) dove dona lui persino appellativi non troppo garbati. Il vivere di questo scrittore, fatto anche di distacco dalla madre che sta da sola e da altri suoi cari, è appoggiato ai rapporti con gli Altri. Ma, va spiegato, alla parte più brutta di queste relazioni; in quegli spazi di cattiveria e invidia, in quei momenti – praticamente tutti – dove egli nutre la sua grande esigenza di essere persona tenuta sotto scacco da paure che l’altro (il prossimo) gli fa cadere nella testa. Lo scrittore Consorti, tanto legato pure all’immagine e all’idea del padre scomparso, si fa dunque portavoce di dolori che tanti e tante sopportano quotidianamente. Anche se Carraro non ha nessuna voglia di elevarsi a moralista, eccetera. perché Carraro, come osserva persino il critico Ferroni, ‘racconta senza nessun compiacimento’ e ‘senza nessuna evasione verso il troppo chiacchierato cinismo pulp’. La scrittura di Andrea Carraro, che è autore di altre opere di valore, è ruvida perché gustosa e genuina. Lo stile di Carraro si priva, a forza di volontà, di rigonfiamenti. L’atmosfera porta in corpo lo stesso peso delle immagini di oggetti della routine che tutti o quasi tutti osservano nei propri giorni. Tanto per dire fra le giornate di una amena banca. La spiana dorsale di questa prova letteraria è precisamente retta, in quanto curva è invece quella di milioni e milioni di persone.

  13. M. Maugeri – Il Mattino

    Finché la narrativa riuscirà a esplorare efficacemente l’uomo da dentro e da fuori, essa, a dispetto delle ricorrenti e nefaste previsioni, avrà vita lunga. Andrea Carraro, con ‘Il sorcio’ (Gaffi), contribuisce a dare buona salute e longevità al romanzo, presentandoci – dopo i precedenti lavori narrativi: dal Il branco (Theoria, Gaffi), fino a La lucertola e Non c’è più tempo (Rizzoli) – un ulteriore spaccato di inettitudine umana. E lo fa affrontando un tema di fortissima attualità e ammiccando – al tempo stesso – alla tradizione della grande narrativa psicologica italiana del Novecento: quella che va da Svevo a Moravia. Protagonista della storia è Nicolò Consorti, scrittore che lavora in banca. La sua è una vita soffocata da ossessioni che gli compromettono la gestione dei rapporti affettivi: quello con la moglie Stella, innanzitutto; ma pure quello con il figlioletto, che non riesce ad amare come vorrebbe; e quello con i genitori. La figura del padre defunto, in particolare, gli occupa l’inconscio proponendosi come ineludibile metro di paragone da cui rifuggire invano. La principale ossessione di Consorti è causata dal sorcio: ‘soprannome di Eraldo Martelli, un collega di lavoro basso, pelato, panciuto che per oscure ragioni lo disprezza e quasi quotidianamente gli infligge grevi minacce, ingiurie, maledizioni varie.’ Consorti, in una sola parola, è vittima del mobbing. Una vittima che non riesce a trovare la forza di reagire veramente. Ci prova, si confida con un psicoanalista, arriva a rivolgersi a una maga per imbastire un malocchio anti-sorcio e persino a un picchiatore professionista con l’intento di infliggere al collega-persecutore una lezione risolutrice. Ma il sorcio, per inspiegabili meccanismi compulsivi, continua imperterrito a svolgere la sua quotidiana opera distruttrice a base di nefandezze a buon mercato e insulti in punta di lingua. Andrea Carraro racconta questa storia utilizzando una prosa immediata ed efficace; alterna la prima alla terza persona; costruisce dialoghi, talvolta scabri, ma credibili. C’è da aggiungere che il romanzo ha componenti autobiografiche. Carraro ha davvero subito episodi di mobbing. E lavora in banca. Appartiene, per intenderci, a quella categoria di scrittori con esperienze bancarie che va dal compianto Giuseppe Pontiggia (che esordì con il romanzo: La morte in banca) al Tullio Avoledo narratore di banche disumane e ultramoderne. La banca, in fondo, anche nell’immaginario collettivo, rappresenta il bieco calcolo e il tornaconto, e si pone come antitesi alla fantasia, come morte della creatività. In tal senso, chi scrive, chi crea storie, non può sorvolare sulla dimensione carceraria del luogo-banca e di ciò che esso rappresenta. Quella di Carraro, dunque, è letteratura dell’esperienza, vissuta sulla propria pelle, che racconta – per parafrasare Dario Bellezza, in epigrafe – la bestia che è in lui e latra. Letteratura che prende origine dal peso e dall’inferno invisibile del vivere quotidiano. perché in fondo, quello narrato ne Il sorcio, e non solo per via del mobbing, non è altro che un inferno esistenziale, piccoloborghese, metropolitano; per difendersi dal quale si potrebbe far riferimento alle note opzioni offerteci da Calvino in Le città invisibili: ‘accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più’, oppure, ‘cercare e saper riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spaziò. Forse è la seconda l’opzione che potrebbe giovare di più a Nicolò Consorti e, in fondo, a tutti noi.

  14. A. Di Consoli – L’Unità

    Andrea Carraro con il suo ultimo romanzo chiude un ciclo iniziato dal precedente Non c’è più tempo (Rizzoli) e, probabilmente, dai racconti de La lucertola (Rizzoli). In cosa consiste questo ciclo? Consiste in una narrativa di impianto realista, con dialoghi di rara verosimiglianza e di inaudita ferocia, innestato su un discendimento di tipo nevrotico (o ansioso depressivo), a partire da uno spartiacque ‘privato’ o, se vogliamo, da un fondamentale topos letterario, che poi è la morte del padre, ovvero il riconoscimento, da parte dell’ultimo protagonista Nicolò Consorti, il personaggio-autore, di non poter non somigliare a suo padre, alla sua piccolezza (in una parola: alla piccola borghesia che tutto il peggio racchiude). Non subentra la depressione, forse, quando ci si accorge che si somiglierà per sempre al proprio padre? Gli ultimi romanzi di Carraro ci suggeriscono il nome di Italo Svevo, che tutto, all’inizio, sembra tempo storico, e solo dopo, alla fine, ci si accorge che quel tempo è tempo psichico. Carraro addita la realtà e invece mostra la psiche; nomina il reale e suggerisce l’inconscio. Sbaglia chi dice che Carraro è realista. La realtà, per Carraro, è solo un sintomo, giammai la malattia. La malattia è altrove, è nella psiche. Il protagonista romano de Il sorcio è un travet-bancario piccolo borghese, sposato con un figlio, ossessionato dalle angherie di un collega (il Sorcio, appunto), e dalla morte del padre, cioè dall’angoscia, dalla paura del confronto sessuale e fisico, da frustrazioni lavorative e sentimentali (in definitiva, da un blocco dell’io). Come si chiama la malattia di Consorti? Si chiama in tanti modi: ansia-depressiva, narcisismo, necessità di punire ed essere punito (punire gli amici, ed essere punito dal Sorcio), frustrazione, alcolismo. Il furore di Consorti, un travet che vorrebbe vivere di scrittura, si scaglia contro la piccola borghesia, la categoria più vaga che esista. Cos’è, in fondo, la piccola borghesia? è vivere rendendo tutto piccolo, riducendo tutto a piccolezza (per incapacità, o per paura di scorgere il massimamente grande che, tutto travolgendo, tutto nobilita). E chi, se non il padre protervo, il padre aggressivo, rende tutto piccolo, non ammettendo la propria sperdutezza. Eppure consorti, che odia la piccolezza, che come tutti i grandi uomini pensa alle cose grandi (alla morte, alla malattia, al destino), si ritrova a vivere come non avrebbe mai dovuto vivere, cioè da piccolo borghese. perché? Per un oscuro impulso a ripercorrere i sentieri paterni, perché ogni figlio si rende colpevole con se stesso delle mancanze del padre. L’oncofobia del libro (il leitmotiv del cancro come una malattia regia) non è altro che l’invitta tirannia del padre che di cancro muore, e che tutto il mondo sommerge, come un dio morto, col suo male. Il sorcio è un libro superstizioso e rituale (ossessivo); basti pensare che Consorti insieme a un suo collega, ricorre a una maga per punire il Sorcio. Ma è nell’ossessività che Carraro dà il meglio di se (come tensione narrativa), perché il Sorcio, con le sue angherie, rappresenta il persecutore esterno di una paranoia interna (la realtà appartiene ancora al padre, e il figlio è indegno di viverla nuovamente e liberamente, ecc.). è questa persecuzione, o questa paranoia, un modo per difendere ancora una volta il padre, per tutelarlo. Lo ‘schiaffò di Svevo continua a muovere destini, a mascherare l’inconscio con il realismo. Alla fine il Sorcio verrà picchiato e trasferito. Ma quest’epilogo non assolve, semmai condanna. La moglie gli dice, dopo il trasferimento finale, ‘hai vinto’, ma l’uomo che le sta affianco vive sotto l’oscura giurisdizione dei padri morti, e sente, ancora una volta, di aver perso.

  15. L. Canali – il Giornale

    Andrea Carraro è uno dei rari scrittori italiani subito riconoscibili ad apertura libro: è, questa, una caratteristica degli scrittori autentici, a differenza della folla di dilettanti indistinguibili che, per strana indulgenza degli editori, trovano ospitalità anche nei maggiori marchi editoriali italiani. Carraro è anche, forse, lo scrittore più aspro dell’intero panorama letterario italiano: il suo stile, non lontano dall’understatement moraviano grigio, a volte persino trasandato, e comunque privo di bellurie stilistiche, rivela la preoccupazione di farci penetrare nella psicologia dei suoi personaggi disperatamente o goffamente umani, capaci di sordidi rancori e di slanci generosi, deboli, demotivati, ma anche aggressivi, appassionati ma capaci di arzigogolate vendette dovunque essi si trovino, nel luogo di lavoro, in famiglia, nei presunti svaghi di una tediosa routine nella quale appaiono amaramente invischiati. è grande merito dell’autore non cercare l’horror tanto di moda, né il sesso estremo di tanti noiosissimi romanzoni sadomaso ‘acchiappalettori’ frustati. Il sesso in questo libro c’è nella forma elementare, quella del tormentato amore di coppia. Solo qualche volta si lascia andare, violando la sua stessa ‘misura’, già molto forte e permissiva, e scade in qualche frase troppo triviale. Certo questo romanzo ha alcuni evidenti difetti: sopratutto una struttura rischiosa a causa dei continui e rapidi passaggi dalla prima alla terza persona narrante, e, qua e là, soluzioni linguistiche troppo corrive. Ma l’intera vicenda – romanzo di formazione e insieme di autodistruzione di ogni istituto, famiglia compresa, polemica sociale, tentativi di palingenesi nella rincorsa a luoghi e tempi della memoria, contraddittorietà di tutti i sentimenti – costituisce una specie di formidabile summa, catalogo vivente e articolato di debolezze ma anche inattese oltranze umane.

  16. V. Pardini – Il Giornale

    Raccontare il mondo che ci circonda, sempre più caotico e contraddittorio non è affatto facile, specie quando si ritraggono i malesseri che affliggono la società. E malesseri di tutti i generi, come accade nei romanzi di Dostoevskij, esploratore per eccellenza dell’animo umano. Andrea Carraro con il romanzo Il sorcio, edito da Gaffi, ci porta dentro il sottosuolo di Roma, teatro di tutte le sue opere. Protagonista della storia è Nicolò Consorti, impiegato di banca e scrittore, che deve vedersela con le angherie che ogni giorno gli infligge il sorcio, ossia ‘Eraldo Martelli, un collega di lavoro basso, pelato, panciuto che per oscure ragioni lo disprezza’. Nicolò, già preda della depressione, conosce il periodo più buio della sua esistenza, e tutto gli precipita dentro e attorno. Suo unico rifugio è recarsi ogni settimana da un analista. Thomas Mann diceva che lo scrittore è anche psicologo. Le conversazioni che i due fanno, nelle quali Niccolò esprime i suoi malesseri senza reticenza alcuna, assumono quindi spesso l’aspetto di un confronto, quasi una conversazione alla pari, dove il dottore si difende appellandosi al suo ruolo professionale ma, per il resto, le ammissioni del paziente sembrano coinvolgerlo, tanto sono angosciose e pertinenti alla realtà della vita odierna. I racconti di Nicolò sono, infatti, le descrizione dell’inferno che attanaglia metropoli e città, dove l’individuo finisce vittima sia di se stesso sia degli altri, spesso senza possibilità né di avere giustizia né di riscattarsi. Ecco, dunque, che questo libro denuncia ciò che di peggio grava sul nostro tempo: l’indifferenza che ormai serpeggia in ogni settore, fino ad annullare nelle persone volontà e sentimento. Non a caso nelle stesse condizioni di Nicolò si trovano altri impiegati, vittime quanto lui del sorcio. Con uno di questi, Nicolò andrà persino da una maga, che lui però interroga e contraddice, tanto che ella, anziché la fattura, gli consiglia di far dare una lezione all’incorreggibile Eraldo. Cosa che avverrà di lì a poco, ad opera di due picchiatori di professione, che chiedono a Niccolò circa tremila euro. Ma neanche le botte sembrano far cambiare il vessatore che, imperterrito, continua nella sua malsana condotta. Attorno a questa situazione ne roteano altre, le quali ben dimostrano l’abilità che Carraro ha di governare l’arte del romanziere. La sua forza, oltre la scrittura rapida e asciutta, sta nel saper mischiare finzione e realtà in un tutto unico. Non sono quindi mai di troppo i numerosi personaggi che affollano queste pagine, che vanno dalla madre vecchia e solitaria, all’immagine del padre morto, con cui il narratore aveva un rapporto di amore-odio, come fosse stato un coetaneo che ci è rivale. Intense le descrizioni della moglie e del figlioletto, che lui non riesce ad amare come vorrebbe: le ossessioni non glielo consentono. Ogni giorno deve sempre di più fare i conti con una folla di fantasmi che, spesso, si sostituiscono alle persone vere. Un libro che si legge d’un fiato e che lascia il segno.

  17. M. Onofri – Diario della Settimana

    Sono pochi gli scrittori italiani – forse nessuno della sua generazione – che sanno introdurci subito, con esattezza di movimenti e sentimenti, dentro il proprio mondo, come Andrea Carraro. Che è oggi quello, dopo il Pasolini corsaro, dopo il Cerami di Un borghese piccolo piccolo (1976) -là dove si sanziona l’irreversibile metamorfosi del nobile popolo nella gente – omologato nel senso d’una piccola-borghesia dello spirito, che travalica, nell’orrore, la mera connotazione sociologica. Nicolò Consorti è uno scrittore di qualche successo che lavora in banca: questa è forse la ragione per cui, rispetto alla sua condizione di uomo gente – capace, bisogna dirlo, di ogni efferatezza (poco importa se per vendetta o atavici complessi), pare un passo più avanti degli altri personaggi, immerso com’è in tale condizione epperò, di essa, amaramente consapevole. Per un doppio passo, autorizzato anche dall’escamotage della prima persona d’una seduta psicoanalitica, che s’alterna alla terza e consente brusche escursioni nel tempo anche più lontano dell’infanzia. Dove la psicoanalisi vale in tutta la sua ambivalenza di catalizzatrice di verità, ma anche di mistificazione: che è il nodo di Carraro di celebrarne, ancora una volta, l’imprescindibile inattendibilità. Una madre vedova che ha già rinunciato alla vita. Un padre morto di cancro che è stata una presenza devastante. Una moglie che lo incalza e un figlio adorato. Una depressione difficile. Un modo di vivere l’amicizia ambiguo e doloroso. Un collega, ‘il Sorcio’ appunto, che lo perseguita: causa d’ogni suo malessere, ma anche sintesi araldica del suo difficile rapporto col mondo. Vorrei dire che Andrea Carraro ha scritto un romanzo – fatto salvo qualche refuso evitabile – davvero felice. Vorrei: se non fosse proprio l’infelicità, in tutte le sue declinazioni, a innervare ogni pagina di questo libro. Ma la letteratura sta tutta in questi ossimori: per la sua capacità di risultare consolante proprio nel confronto con l’inconsolabile. Sottolineo consolante: che è il contrario esatto di consolatorio, e che lascio volentieri a quella scrittura di giudiziosi sentimenti, di buone confessioni e di corretta ideologia, che continua ad avere tanto successo in questo Paese che ha bisogno d’essere rassicurato. Sarà forse questo il motivo – o uno dei motivi – per cui Carraro non ha avuto tutto il pubblico – la critica quella c’è stata – che si meriterebbe. Carraro non è uno scrittore che vuole rassicurare. è uno che racconta solo ciò che conosce. Ma lo conosce bene, perché quasi sempre – non so quanto direttamente – lo ha sofferto. Tanto più negli ultimi libri: dove non ha avuto paura d’affondare le mani in una materia in parte autobiografica. Non mi sono divertito poco, per dirne una, a ritrovare una serata al Premio Mondello cui io e Carraro partecipammo: perfidamente restituita. Come in Non c’è più tempo (2002), anche Il Sorcio si apre a qualcosa che non è la speranza, ma che ha a che fare con una cauta catarsi. Per Carraro, come si ricava anche dalla bella epigrafe in soglia ricavata da Dario Bellezza, non c’è salvezza nella Storia. Nicolò, però, si commuove di fronte a un paesaggio innevato. Devo richiamare Carraro al rigore della sua disperazione che è anche la mia. Siamo dentro una discarica: e non durerà molto.

  18. F. La Porta – Corriere della Sera

    Di tutti i nostri narratori Andrea Carraro è quello che ci offre la più tagliente fenomenologia del male. Non il male spettacolare del noir ma un male grigio, familiare e inafferrabile, nascosto nell’opacità del quotidiano. Il protagonista del Sorcio, romanzo duro e avvincente, il bancario-scrittore Nicolò, continua e attualizza l’ampia galleria novecentesca -inconfondibilmente italiana- degli ‘inetti’, dei piccoli uomini del sottosuolo che ci guardano con una smorfia rancorosa dalle pagine di Tozzi, Moravia… Umiliato dal collega di lavoro violento detto il ‘Sorcio’, accusato dalla moglie di passività, prova disgusto per gli altri e odia se stesso. Preferisce ‘non farci mai completamente i conti con la morte’… Di fronte alle prepotenze sadiche del Sorcio ricorre prima a una maga, poi a due picchiatori prezzolati. Comincia una cura psicoanalitica, il che permette a Carraro una originale soluzione del punto di vista: la narrazione oscilla tra la prima e la terza persona, tra autoconfessione (che cerca complicità) e cronaca spoglia degli eventi. Alla fine, come in un film di Woody Allen, viene mollato anche dall’analista, offeso per come viene ritratto nei suoi romanzi (‘Lei distrugge tutto ciò che tocca’)! Carraro e’ un romanziere puro, e non, come spesso accade oggi, un saggista mascherato da romanziere: ci dice ‘l’aspra verità’ (come recitava l’epigrafe di un grande romanzo ottocentesco) su di se’ e sul mondo. O almeno la verità che si intravede dall’osservatorio buio dei suoi personaggi. Mostri? Certo, pero’ mostri che ci appartengono. Il Sorcio si presenta come una summa dei suoi precedenti romanzi, dal Branco a L’erba cattiva a Non c’e’ più tempo, tra le irredimibili miserie del suo travet-aspirante scrittore e la cruda descrizione del branco adolescente, criminaloide e pariolino, con il suo gergo incarognito, e i dialoghi al limite dell’afasia (perfettamente ‘eseguiti’). I personaggi del romanzo reagiscono tutti al nichilismo sordo che li attraversa: con violenza, con la follia, con il fanatismo religioso, e anche con la ‘normalità’ (quella proposta dalla moglie e sempre mancata…). Ma è proprio Nicolò la più bella invenzione morale di Carraro: pochissimi scrittori contemporanei hanno saputo mostrarci una cattiveria così umida, molle, tenebrosa, e direi sociologicamente ereditaria. Chissà poi che la ‘salvezza’ non risieda per lui proprio nell’incapacità di reagire, nell’immobilità di fronte al pericolo… Qual è la differenza con gli inetti del secolo scorso? I disadattati di Carraro hanno un senso imperioso del proprio diritto alla Creatività artistica e poi coltivano la certezza di ‘meritare’ -tutti- di morire. Solo lontano dall’umano, nella quiete cimiteriale di un paesaggio innevato, potrebbe finalmente sciogliersi la colpa stessa di esistere. Carraro non crede nel peccato originale: la sua sensibilità religiosa è più gnostica. Il male appartiene alla creazione. All’inizio del libro Palermo appariva a Nicolò ‘deserta, cadente, caliginosa’. Nella pagina conclusiva la vallata umbra è ‘vasta, bianca, caliginosa’. Due immagini opposte del nulla che governa l’esistenza, e che suscitano sentimenti opposti, di angoscia o di abbandono contemplativo. Così il ‘pianto di commozione di fronte alla purezza e la pace che lo circondano’ assomiglia a una preghiera laica: onestamente disperata ma anche consolatoria, poiché rinuncia a quell’intrattenimento coatto di cui oggi è prodiga la nostra letteratura.

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