– ‘Ma chiamarli mostri sarebbe troppo facile’
– Lui il branco l’aveva descritto con l’agghiacciante orrore della normalità. Un capo, i gregari, i riti del gruppo, il lessico cattivo, la complicità. E poi la preda, la donna, l’offesa al corpo, lo stupro. Per pubblicare il suo libro Andrea Carraro, 35 anni, romano, aveva penato a lungo: quella violenza di gruppo avvenuta nelle campagne romane nel 1983, e riproposta in chiave letteraria, faceva male a tutti. Dieci giovani torturarono per una notte due turiste tedesche. Riconosciuti dalle due donne, furono condannati. Carraro, nel libro, poi trasformato nel film di Marco Risi, IL BRANCO, descrive minuziosamente i comportamenti della banda, la loro logica animale, il loro dialetto torvo, i loro stupri anche verbali. Ora, la dinamica si ripete. Non è Roma, è la Lombardia. Cinque giovani, normali di giorno, violentatori di notte. Rigorosamente in gruppo.
– ‘L’aggettivo normali è fondamentale – spiega Andrea Carraro – perché sarebbe troppo facile considerarli dei mostri. Invece no. Quel germe di sopraffazione e di brutalità nei confronti della donna esiste in gran parte degli uomini. In certi casi, nutriti di miseria morale, esplode. E spesso a farlo esplodere ci pensa proprio il gruppo: perché sentirsi uguali agli altri aiuta ad essere più cattivi, si eseguono gli ordini di un capo, si compiono delitti, ma la responsabilità sembra minore. La violenza di gruppo è una violenza conformista. Risponde alle regole della società di massa. Per questo è in aumento’.
– Carraro, perché lei parla di ‘ritualità del branco?
– ‘Perché, al di là dell’oggetto della violenza, è di questo ‘copione’ che si nutrono le bande. La preda può essere di volta in volta una donna, un extracomunitario, un vecchio. L’importante è scatenare una logica primordiale, ossia la dimostrazione della propria virilità. È una sfida tra maschi. Ho scritto quel romanzo proprio per raccontare l’aspetto corale della violenza, la sua logica interna, la complicità e il sospetto che si intrecciano tra i componenti, e la sua straordinaria capacità di contagio’.
– E questi ‘incappucciati’ le sembrano un vero branco?
– ‘Sì. C’era un capo, un luogo di riunione, i cappucci gelosamente custoditi, le vittime pedinate sempre con lo stesso copione’.
– Anche in altri romanzi e racconti lei descrive la logica del delitto collettivo. Perché?
– ‘Perché ho cominciato a percepire questa violenza dei tanti contro uno fin da adolescente, quando frequentavo una scuola privata tutta maschile, una scuola per ricchi, e il più debole, ogni volta, veniva messo con le spalle al muro. Da quella scuola uscirono gli assassini del Circeo. Infatti, nel libro ‘A denti stretti’ io descrivo una specie di selvaggio rito iniziatico in cui un ragazzino viene costretto a masturbarsi davanti al branco di ‘amici’ che gli si stringono intorno a cerchio. E così, in un altro racconto, tratto anche questo da un fatto di cronaca, si parla di un linciaggio dei giorni nostri. Una donna, rea di adulterio, viene legata nuda sul balcone dai suoi parenti, e allo scherno collettivo partecipa tutto il paese. Gli uni chiamano gli altri, così nessuno è colpevole di essere cattivo. Come un branco che si allarga all’infinito…’
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