Padre e figlia nell’incubo dell’eroina

Andrea Carraro ospite dello Scambialibro con il suo nuovo romanzo Sacrificio

TERAMO – Un uomo di mezza età, Giorgio, ha una figlia, Carolina, da poco uscita da una comunità di recupero, ma ancora eroinomane. Direttore di una casa editrice, benestante, tornato single perché la moglie lo ha lasciato per un altro uomo, Giorgio decide di condividere, nel senso più profondo del termine, l’esperienza della figlia, e arriva lui stesso a fare uso di eroina. Di questo parla Sacrificio (Castelvecchi, pp. 170, euro 17,50), il romanzo che Andrea Carraro presenterà domani a Teramo alle 19,30 nella sede di Teramo Nostra, ospite dello Scambialibro organizzato dall’associazione Detto tra noi. Tutto «nasce da un soggettino cinematografico – ricorda Carraro – che scrissi tempo fa. Mi venne quest’idea un po’ folle di raccontare il percorso di un adulto che decide di condividere in pieno il destino della figlia. In un primo tempo doveva trattarsi di un figlio, ma visto il tema, e visto che un figlio ce l’ho davvero, non volevo che si creasse nessuna vicinanza, nemmeno immaginaria, fra lui e il romanzo, anche se neppure fuma. C’è anche un altro motivo. Con i miei romanzi e racconti mi sono sempre cimentato sui rapporti tra padre e figlio, spesso con una forte impronta autobiografica, perché ho avuto un rapporto intenso e anche doloroso con mio padre, e volevo penetrare in un altro orizzonte, quello femminile, che mi affascina e che sento molto vicino».

Perché proprio l’eroina? Nel romanzo è tutto e al tempo stesso non è tutto…

«Mi ha sempre molto affascinato, pur non avendone mai fatto uso, in particolare da quando ascoltai Heroin di Lou Reed. Ascoltai la canzone avendo davanti a me il testo tradotto e mi fece un’impressione sconvolgente: è un inno all’autodistruzione, il che di per sé è sconvolgente, ma è un inno che ti cattura sia dal punto di vista poetico, perché secondo me Reed è anche un grande poeta, sia dal punto di vista musicale, perché la musica tenta di riprodurre le sensazioni che si provano nell’assumere l’eroina. È una canzone terribile, luttuosa, nella quale la parola morte ricorre continuamente. È un inno all’autodistruzione, ma è anche un inno molto responsabile, mette chi ascolta sull’avviso dicendogli che con l’eroina ci si avvicina alla morte: Mi sto avvicinando alla morte, recita un verso. Tutto è nato in questo modo un po’ casuale, con una fascinazione anche morbosa verso questa canzone e questa sostanza, che nella mia generazione – ahimè – ha avuto un’importanza fondamentale. Sono del 1959, una generazione che, negli anni Settanta, ha un po’ mitizzato lo sballo con l’eroina. Ho amato moltissimo la Beat generation, l’ho letta, studiata, consigliata, forse anche troppo».

Giorgio non accetta il destino della figlia e – nel senso etimologico della parola – vuole comprenderlo. Dal conflitto tra genitori e figli di altri tuoi libri – A denti stretti, Il branco, L’erba cattiva – si arriva in questo a un’estrema vicinanza, che qui è una forma d’amore che passa per una maledizione…

«Giorgio ha un amore sconfinato per la figlia. In questo amore ho naturalmente proiettato anche i sentimenti per mio figlio, ma ho cercato di calarmi in una figura che fosse più lo specchio di una generazione che il mio. Forse il senso più profondo di Sacrificio potrebbe essere che i ragazzi di oggi, quelli della generazione di mio figlio, hanno delle grandi difficoltà economiche e lavorative, e noi genitori – non io in particolare, ma la mia generazione – ci troviamo a dover supplire alla loro mancanza di lavoro. Mi piacerebbe che il mio romanzo raccontasse anche questo, in modo allegorico, in modo metaforico. Sacrificio è la metafora di una generazione che ha dei grandi sensi di colpa per via dell’infatuazione per lo sballo, per le droghe e per alcuni ideali che portava avanti e che poi si sono corrotti. L’eroina c’è, ma è uno strumento per raccontare questo sacrificio, perciò non mi ci concentrerei troppo».

Giorgio ha avuto da ragazzo una frequentazione con la droga e quel legame, mai davvero reciso, sembra essere una presenza che lo ha accompagnato nel tempo. Come se quel passato fosse una dannazione.

«Sacrificio, da soggetto cinematografico diventò un racconto, lo pubblicai sulla rivista online Succede oggi. Ma era più che altro una favola, quasi evangelica, col papà che assume su di sé tutte le colpe del mondo. Il realismo, a cui sono molto affezionato, veniva meno, tutto diventava una favola: una favola che poteva anche essere affascinante ma rimaneva una favola. Chi leggeva non si sentiva coinvolto fino in fondo, non riusciva a capire come un uomo borghese di cinquant’anni potesse arrivare a bucarsi. A me piace raccontare cose nelle quali il lettore si trova coinvolto al punto da mettere in discussione se stesso. Per farlo ho avuto bisogno di molte altre pagine e ho avuto bisogno di costruire un background al personaggio. Secondo me, secondo i miei strumenti di scavo e di percezione, all’eroina non si poteva arrivare se non attraverso un passato nel quale, anche se in maniera marginale, l’eroina era stata presente. E allora mi sono inventato questo passato. Lo scrittore questo fa: ha la possibilità di inventare delle vite che sono vicine alla sua, ma diverse. Mi sono identificato in un eroinomane tardivo, che vuole condividere il dolore della figlia e dice a se stesso: se questo dolore lo condivido fino. in fondo, magari alla fine, insieme, riusciamo ad uscirne. Questa è un po’ la sua idea delirante, se si vuole cristologica. Di fronte a questa storia, credo che non si possa non pensare al martirio di Cristo, certamente l’ispirazione maggiore che ho avuto».

Sacrificio è comunque un romanzo laico, nel senso che inibisce le facili distinzioni tra giusto e sbagliato, tra bene e male. Sei sempre molto sensibile all’archetipo della tragedia classica, e anche in Sacrificio, come per Il branco o L’erba cattiva, c’è un punto preciso in cui dal dramma si passa alla tragedia. In Sacrificio questo punto di passaggio è segnato proprio da Heroin.

«Siamo sempre nel discorso che facevo prima, alla differenza tra romanzo e racconto. Per la mia esperienza, il racconto è per sua natura più vicino alla parabola: è proprio la misura del racconto che ti porta a non poter entrare in modo completamente realistico dentro la storia che vuoi raccontare, proprio perché non ne hai lo spazio. Ripeto: è la mia esperienza personale di scrittore, magari uno ce l’ha diversa e vede il racconto in un altro modo. A me il racconto piace proprio nella sua brevità, ma nel romanzo hai più spazio per entrare dentro la psiche, dentro la psicologia, e quindi il passaggio di cui parlavi è più facile da fare nel romanzo che nel racconto. Il discorso sul bene e il male è scivoloso. A me piace che i miei lettori entrino a tal punto dentro la storia da identificarsi completamente nel personaggio protagonista. E l’unico modo che vedo per far porre al lettore delle domande etiche profonde. Forse non soltanto etiche, anche metafisiche, persino sull’aldilà. Credo che questo sia possibile soltanto attraverso uno scavo psicologico».

In Sacrificio c’è una forte componente visionaria, onirica, e in un capitolo in particolare – quello in cui Giorgio va a una festa con amici – questa componente trova la sua massima espansione. Quel capitolo è in realtà un film di tredici pagine.

«È vero, è un capitolo molto cinematografico, anche visionario, perché Giorgio ha delle allucinazioni. È un eroinomane a tutti gli effetti ed è il momento in cui i nodi vengono al pettine. L’uso di una forma di tipo cinematografico, un po’ ce l’ho da sempre. Anche Il branco ha una forte componente realistico-cinematografica. A me piace e continuano a piacermi tantissimo i romanzi e i racconti cinematografici, cioè quelli che rappresentano la realtà per immagini. Naturalmente gli strumenti della letteratura sono diversi da quelli del cinema, ma attraverso questa combinazione, che spesso uso, spero di riuscire a raccontare quello che mi interessa: il lato buio dell’esperienza umana, il lato più oscuro».