Lo scavo nei meandri della famiglia, dei rapporti interni tesi a un impossibile equilibrio, è stato portato da Andrea Carraro a uno stadio parossistico. NON C’È PIÙ TEMPO (Rizzoli) è il punto di non ritorno dove la rottura è definitiva, lo strappo irrimediabile. Ma non c’è salto rispetto persino all’ultimo titolo. Tra il primo racconto de LA LUCERTOLA e NON C’È PIÙ TEMPO è infatti possibile vedere vasi comunicanti. L’amore coniugale tradito aveva un esito mortale; qui chi è tradito non cerca la vendetta, ma si lascia vivere in un senso di cupio dissolvi.
– ‘Si tratta in entrambi i casi – spiega Carraro a Stilos – di atroci sofferenze sia per il tradito che per il traditore. È un dolore che grazie a Dio finora mi è stato risparmiato nella vita e spero che il futuro non mi riservi brutte sorprese al riguardo. E’ un dolore che temo moltissimo. Come molte altre paure della mia vita ne ho fatto oggetto letterario’.
– D: Ma è proprio l’amore coniugale il tema del libro? O forse non è più determinante ancora l’amore filiale, il rapporto figlio-padre che è alla base della depressione di Paolo, il protagonista?
– ‘I temi nel libro sono più d’uno, tutti ugualmente importanti e significativi: la depressione, il tradimento, il rapporto padre-figlio (di matrice edipica) ribadito nelle generazioni. Quest’ultimo è un po’ una costante dei miei libri: c’è in A DENTI STRETTI, nel BRANCO, nell’ERBA CATTIVA, in cui si esplicitava addirittura nel parricidio, e anche nella RAGIONE DEL PIÙ FORTE. II rapporto padre-figlio è una mia ossessione, è un tema che ha una forte radice autobiografica’.
– D: Paolo è un bancario; come lei ed ha suppergiù la sua stessa età. Vive a Roma come lei ed è uno scrittore come lei. Troppe coincidenze.
– ‘NON C’È PIÙ TEMPO non è un’autobiografia, ma certo nel romanzo ci sono molte cose vere. Preferisco però evitare di dire quali. Vera è senz’altro la depressione, che è seguita alla morte di mio padre’.
– D: II tema della depressione è nuovo nella sua produzione, almeno come stato individuale. Abbiamo dunque assistito a un transfert: una depressione collettiva, sociale; che diventa soggettiva; fatto privato: un fatto privato che lei rimette in piazza.
– ‘Io ho sempre rimesso in piazza, per così dire, le mie ossessioni ‘private’: nel BRANCO era il maschilismo, che io ho vissuto e subito nell’adolescenza, avendo frequentato una scuola di preti interamente maschile nella quale le dinamiche del ‘branco’ (sia pure non estremizzate nello stupro come nel romanzo) erano presenti. Oggi in NON C’È PIÙ TEMPO ho dato una forma narrativa alla depressione, che ho realmente avuta un paio di anni fa.
– D: Sarà questa la nuova strada che il futuro Carraro seguirà? Quella della deprecatio animae?
– ‘Non lo so: In questo periodo non riesco minimamente ad immaginare il mio futuro di scrittore: Non saprei dire se con questo romanzo io abbia esaurito il tema della depressione. Diciamo che in tutti i miei libri – e in special modo in quest’ultimo – la letteratura ha avuto uno scopo anche terapeutico: è servita a combattere, a esorcizzare i miei mostri, fra tutti la morte, che è ossessivamente presente nei miei libri. Spero in futuro di scrivere delle commedie, vorrebbe dire che i miei mostri mi hanno lasciato un po’ in pace’.
– D: Sembra che in questo libro lei volesse confessarsi, alla maniera di un Rousseau, cioè raccontando tutto; ma che poi si sia fermato a metà. Come ha giocato in realtà il suo ruolo?
– ‘No, questo libro è un romanzo, non una confessione. Ho mescolato verità autobiografica e finzione, esattamente come, ad esempio, nella RAGIONE DEL PIÙ FORTE o nel mio primo libro A DENTI STRETTI (che ho interamente riscritto e che forse ristamperà in questa stessa collana di Sintonie). II ruolo è sempre quello del romanziere e del narratore: costruire un plot anzitutto, creare dei personaggi, degli ambienti, delle situazioni… Insomma quelle cose che deve fare chi vuole raccontare delle storie’.
– D: Perché il messaggio che lei dà è così oppositivo? Perché non c’è più tempo e tutto è stato compiuto? Perché Paolo e Rosa non hanno nessuna possibilità – anche se alla fine sembra aprirsi un vago e labile spiraglio?
– ‘Non c’è più tempo, tutto è stato compiuto: questo è il sentimento prevalente nella depressione alla mia età. O almeno questo e quello che io ho provato nella mia esperienza di depresso. Alla fine uno spiraglio comunque si apre: ma forse non e’ lo spiraglio che si potrebbe aspettare il lettore appagato. Lo spiraglio si trova nella vita da barbone, che appare in fondo più concreta e reale di quella piccoloborghese cui Paolo sembrava condannato; II finale resta ‘aperto’, l’importante e’ il cammino (rito) di purificazione compiuto dal protagonista, verso la strada, verso gli ultimi. In senso, se si vuole, più cristiano che marxista.
– D: Una discesa agli inferi in una Roma estranea, indifferente; ostile. Paolo non trova l’aiuto che di reietti come lui e trova che la migliore via d’uscita è sprofondare sempre più. Lei non e’ mai stato cosi’ cupo. Ne LA RAGIONE DEL PIU’ FORTE Gregorio e Sonja avevano più chances e speranze di Paolo e Rosa.
– ‘Si, è vero: sono uno scrittore cupo e sostanzialmente tragico. Almeno in questo periodo della mia vita mi sento abitato da un tetro nichilismo appena temperato dalla mia formazione – e ispirazione – all’ingrosso marxista’.
– D: Paolo rifiuta l’analisi e scopre di stare meglio quando pedina persone sconosciute o la moglie: l’intrusione nella vita altrui è una chiamata di soccorso o un tentativo di furto della felicità del prossimo? O ancora un modo per tenere un contatto con il mondo circostante?
– ‘E’ l’unico modo per restare al mondo, per sopravvivere, per sconfiggere la depressione: guardare fuori, distogliere gli occhi da se stessi. Diciamo che il voyeurismo che pervade il mio protagonista Paolo e tutto il romanzo è un tratto pericolosamente presente in tante forme anche nella nostra società. Il mio racconto ne rappresenta una’.
– D: Lei e’ considerato autore vicino al gusto di un Houellebecq, ma con questo romanzo si mostra ancora più disilluso sulle speranze dell’uomo e più convinto che la vera natura umana sia quella più oscura e derelettiva. Perché ha portato il suo stilo ancora più in profondità?
– ‘Conosco Houellebecq, mi piace abbastanza, anche se non stravedo per lui e non so quanto davvero mi somigli. Quanto alla mia cupa visione del mondo, vorrei tuttavia dire che nei miei personaggi scorre anche della pietas, cosa che non avverto nello scrittore francese. Come ho già detto, in questo periodo della mia vita sono narrativamente attratto dal male, dalla morte e dal sentimento di rovina, tutte cose che hanno molto a che fare con la depressione’.
– D: Lei ha cambiato sguardo sulla società: non vede più branchi (come quasi dieci anni fa) ma individui perduti nelle metropoli, che non possono farcela, quando ce la fanno, se non da soli.
– ‘A me interessava e interessa rappresentare il male. Nel BRANCO era un male sociale e forse anche metafisico, quello che portava gli stupratori a violentare e uccidere le ragazze tedesche autostoppiste. In quel libro mi interessava l’aspetto corale della violenza. In questo libro il male, la violenza si esercita contro se stessi. Antonio Debenedetti nella sua recensione sul Corriere ha parlato di ‘orgia autodistruttiva’. Ecco, credo che sia una definizione efficace per esprimere il sentimento masochistico che domina il protagonista’.
– D: Roma rimane il suo teatro. Perché la conosce meglio di altre città o perché la vede diversamente?
– ‘Roma è la mia città. La città che conosco meglio. Una città che amo e odio allo stesso tempo. Proprio come amo e odio molti miei personaggi. Ma di Roma non mi interessano certo le bellezze artistiche e architettoniche del suo centro storico (che non mi sogno di descrivere), piuttosto le zone più derelitte e desolate della sua più estrema periferia. In questo libro le descrizioni dei luoghi sono ridotte spesso all’osso: questo perché lo sguardo del protagonista è come orbato dalla malattia depressiva e sembra non vedere nulla. Ricomincia a vedere – si ridesta in lui un qualche interesse per il mondo – quando abbandona la sua esistenza borghese. Infatti ci sono molte descrizioni della borgata di Centocelle, dove egli si rifugia nella sua vita da barbone’.
– D: Dica la verità: la vita le appare così nera o le piace renderla tale letterariamente? Crede insomma di raccontare una realtà o sa di calcare i toni?
– ‘Io sono uno scrittore realista. Mi interessa raccontare la realtà. Per fare ciò ho spesso bisogno di esasperare i toni, per rendere i miei personaggi e le mie situazioni simboliche. Esasperare i toni non significa tuttavia ‘spettacolarizzare’ il male. La spettacolarizzazione mi e’ estranea e mi ha portato anche a polemizzare in qualche caso con alcune espressioni estetiche che sono andate per la maggiore qualche anno fa come il pulp e lo splatter’.
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