Luoghi e non luoghi. Lo sguardo di Andrea Carraro su Roma e periferia

– Carraro, lei ha pubblicato per le edizioni Ediesse Da Roma a Roma, un libro-reportage insolito sin dal titolo…

– Sì, con questo titolo, vagamente ironico e tautologico, ho inteso suggerire l’idea che si possa fare un viaggio circolare: che parto a Roma e ritorno a Roma, oppure è un modo per rimarcare la mia stanzialità: non sono infatti un gran viaggiatore.

– Come è nato il libro?

– Si e’ sedimentato nel tempo. Nel corso degli anni ho scritto, oltreché romanzi e racconti, anche numerosi reportage per i giornali: per ‘l’Unità’, ‘il Messaggero’, ‘Diario’, ‘Repubblica’, e anche per ‘Capitolium’ (un bel giornale su Roma che mi pare non esca più), per lo ‘Straniero’ e altri. Avevo sempre pensato di mettere insieme i reportage che ho scritto in volume. Ecco, questo libro è il primo frutto di quell’intenzione. Ho raccolto i reportage su Roma e provincia, che sono i più numerosi che ho scritto, e li ho ampiamente rimaneggiati e organizzati in Da Roma a Roma. Naturalmente ho dovuto rimetterci pesantemente le mani sui testi. Un libro è pur sempre un libro e ha necessità di cure e attenzioni.

– In che modo ha manifestato queste sue dichiarate attenzioni alla cura dei testi?

– Ho fatto un gran lavoro di uniformazione e omogeneizzazione della lingua. Mi sono inventato titoli significativi, e ho aggiunto tanto e tolto anche qualcosa, quando suonava troppo ‘giornalistico’… Il risultato è un libro spero piacevole da leggere e un ritratto, mi auguro fedele e articolato, della città di Roma nelle sue propaggini periferiche.

– È difficile raccontare una grande città come Roma. In tanti ne hanno scritto, eppure tu hai raccolto questa sfida con successo, riuscendo a ritrarre fedelmente il volto più intimo e vero di questa città… In che modo ci sei riuscito?

– Per dare un’idea giusta di Roma occorre restituire nella narrazione anche quel particolare e noto cinismo dei romani. Un cinismo che tuttavia non si nega quasi mai alla scoperta dell’altro e quindi non è disumanizzante… Ho messo nel libro quello stesso cinismo che in alcuni miei romanzi e racconti – Il branco, Il sorcio, L’erba cattiva… – diventa bestiale, incontrollabile.

– Cosa e’ necessario fare per scrivere un buon reportage?

– Occorre essere estremamente precisi nella descrizione dei luoghi. O meglio dei non-luoghi, come nel caso di molte periferie, ex borgate, che visito in questo libro: Tor Vergata, Torrino, Fidene, Fontana Candida ecc. Sono luoghi privi di storia e di memoria, spazi urbani nati spontaneamente attorno alle originarie borgate…

– E che rapporto ha con questi luoghi?

– Ho un rapporto di amore-odio con la mia città. Mi piace pensarmi al centro del mondo, o meglio in uno dei centri del mondo. Non mi piace riconoscere in me certi tratti del cinismo romano. Anche se devo ammettere che mi e’ stato utile per il mio mestiere di scrittore, mi ha fornito molte idee.

– E cosa ti piace della città Roma?

– Mi piace la Roma multietnica di Testaccio e San Lorenzo, pur con tutte le loro contraddizioni, e detesto i quartieri chiusi a chiave, esclusivi e anonimi, i quartieri-enclave come l’Olgiata e Casal Palocco che evitano qualunque confronto chiudendosi a riccio – specie l’Olgiata – nella loro spinosa inviolabilità… Lì c’è integrazione solo nei limiti di un rapporto servo-padrone, perché gli extracomunitari che lo abitano sono per lo più gente di servizio (asiatici, africani). Lì hanno un consorzio e si fanno tutto in modo autoctono: manutenzione strade, smaltimento immondizia ecc. Si direbbe per limitare al minimo il contatto con l”altro’, per non essere ‘contaminati’. Ma come si può rifiutare la contaminazione in una società come la nostra che ha fatto della contaminazione il cardine dei suoi principali linguaggi comunicativi e artistici?

– E cosa mi dici, a proposito di questo genere letterario? È un genere ritenuto a torto marginale…

– Attribuisco al reportage narrativo, al ‘reportage d’autore’ (e al documentario d’autore) per così dire, la stessa dignità del romanzo. Entrambi rappresentano ai miei occhi degli strumenti validi di interpretazione della realtà: tutti e due figli di questa nostra epoca e in grado di rappresentarla. Manica ha scritto nella prefazione che la mia scrittura tende naturalmente al reportage, per quanto è aderente alla realtà. Beh, credo che abbia ragione. Per questo nei miei romanzi ci ficco dentro anche i reportage, modificandoli poi ad uso del romanzo. I romanzi sono grandi contenitori in cui possono affluire i materiali più diversi…

– Nel libro campeggia una originale figura di io narrante…

– Sì, l’io narrante di questi reportage è un po’ sfigato e un po’ sminchionato, spesso fallisce, non trova la tomba di Moro che cercava al cimitero di Fiano, si infradicia sotto l’acquazzone mentre vista un sito archeologico, teme i pipistrelli che gli volteggiano sul capo in una chiesa di campagna a Vescovio, fatica ad arrampicarsi su un costone per raggiungere la grotta di un barbone, davanti ai tossici di Ostia si sente fuori posto, voyeuristico, e questo ‘essere fuori posto’ gli capita spesso… Ecco, tutto ciò per ‘smitizzare’ la figura del ‘cronista con gli attributi’, che tutto vede, tutto capisce, che non ha paura di nulla, che avanza intrepido nel pericolo… Il mio io narrante mette in campo le proprie idiosincrasie e le proprie debolezze. La comicità che ne deriva è assai meno ‘involontaria’ di quanto abbia scritto l’amico Filippo La Porta recensendo il libro sul ‘Messaggero’. Io credo addirittura che questo spaesamento dell’io narrante, con la comicità che ne consegue, sia una delle chiavi di lettura più interessanti del libro e il collante che ha unito davvero stilisticamente (ed emotivamente) questi reportage.

– Ma come si scrive un reportage?

– Per scrivere un articolo non bisogna essere scrittori, è sufficiente essere buoni giornalisti. Invece per scrivere un reportage narrativo – cioè per innestare nel solco giornalistico il filo di una narrazione, anche minima – è necessario qualche talento da narratore. Il narrare credo sia una dote innata, come quella della musica, del disegno… O ce l’hai o non ce l’hai. E se non ce l’hai, non e’ una tragedia, ognuno ha il suo talento ed è quello che deve coltivare. Mio figlio, esattamente come me, non mostra alcuna predisposizione per il disegno, ma una spiccata inclinazione alla scrittura. La qual cosa, lo confesso, mi rende orgoglioso. Vuol dire che la parte di me stesso a cui tengo di più è stata ‘trasmessa’.

– E’ vero che un reportage si pensa e si struttura anche prima di verificare il luogo da raccontare sul campo?

– Per scrivere un reportage ricco di informazioni, come deve essere il reportage, poiché è prima di tutto un ‘servizio’ verso il lettore, occorre raccogliere più notizie possibile prima di ‘visitare’ il luogo che devi raccontare. È bene contattare i comitati di quartiere, ma anche fare un salto in parrocchia e parlare a lungo con i sacerdoti che di solito hanno voglia di parlare, sono gentili e si esprimono in un buon italiano. Dopo che hai raccolto quante più informazioni possibili, servendoti di internet, di pubblicazioni cartacee, eccetera, incominci a organizzarti il viaggio. Anche lo spostamento da un quartiere all’altro è a ben vedere un viaggio. È bene cominciare a acquisire informazioni quando hai già in corpo lo stato d’animo della visita, del viaggio. Il segreto è avere la mente sgombra, come un computer appena acceso, ed essere disposti a guardare le cose con occhi vergini, e a cambiare idea. I reportage che mi piacciono, e che mi piace scrivere, non sono quasi mai testi di denuncia o scritti ‘a tesi’, ma veri racconti in cui può accadere di tutto. Uno può partire con le sue idee su quel certo quartiere da raccontare, su quel certo luogo, ma poi deve raccontare quello che vede realmente anche se smentisce le sue idee originarie. Ecco, il bravo scrittore di reportage tiene a bada i suoi pregiudizi ed e’ disposto a cambiare idea. Nel mio pezzo sull’Olgiata per esempio, alcuni pregiudizi che nutrivo prima di visitarla – ed erano molti, puntualmente elencati in testa al pezzo – si sono confermati, altri no.

– Prendi ovviamente nota di quel che vedi nel corso dei tuoi reportage? Quali sono gli strumenti di cui ti servi?

– Per annotarmi le informazioni, mi servo di un’agendina, di quelle piccole che puoi metterti anche nella tasca della giacca o in una piccola borsa, borsa che conterrà anche un registratore tascabile per eventuali interviste più impegnative e la macchina fotografica. Altri attrezzi del mestiere? Delle buone scarpe, come consigliava Cechov, e un cappello per ripararsi dalla pioggia. Meglio il cappello dell’ombrello, secondo me, perché occupa meno spazio e non impegna le mani che devono essere libere per scrivere o fotografare. Un segreto per penetrare meglio nell’anima di un quartiere è percorrerlo con tutti i mezzi disponibili.

– La gente si apre volentieri alle tue curiosità?

– Non e’ difficile di solito chiacchierare con la gente dichiarando che sei giornalista inviato da un giornale o ancora meglio che sei uno scrittore che vuole scrivere un libro su quei luoghi. Bene, durante il tragitto in autobus, prova, se ci riesci, ad appuntarti qualche scorcio cittadino. Dico ‘prova’ perché sull’autobus si balla parecchio e scrivere è un’impresa. Poi guarda bene la gente. C’è sempre, nel bus, qualcuno che vale la pena di descrivere. E i personaggi sono importantissimi in un qualunque narrazione, anche nei reportage.

– Occorre sempre dire la verità? O, alle volte, pur di ottenere un testo più funzionale per il lettore, è necessario aprire alla fantasia delle proprie emozioni?

– Per scrivere un buon reportage bisogna dire la verità, ovvero ‘inventare’ il meno possibile. Un margine di invenzione al narratore bisogna lasciarglielo, ma non un’oncia in più. Ma, a proposito di verità, come si fa per esempio a scrivere una cosa vera quando ti accorgi che avvalora uno stereotipo? La mia idea è fregarsene, se ti è successa veramente, devi raccontarla. Così in questi reportage ho scritto quello che realmente ho vissuto e visto, fregandomene di tutto il resto, di qualunque impalcatura montata sopra. Nel reportage, come nel romanzo, la mia ambizione è quella della verità: la verità a qualunque costo. Ma forse questa è l’ambizione di tutti gli scrittori realisti in ogni epoca. La verità, l’aspra verità… scriveva Stendhal in esergo al suo capolavoro Il rosso e il nero.

– Come ti muovi nei tuoi reportage, con quali mezzi?

– Come ho già detto il modo migliore per conoscere un quartiere è percorrerlo con tutti i mezzi possibili. Dopo l’autobus e la macchina, e’ utile prendere il taxi, anche se e’ una cosa abbastanza comune. Riferire quello che dicono i tassisti e’ addirittura un classico del reportage: lo si fa spesso. I tassisti sanno sempre un sacco di cose e, come i preti, hanno molta voglia di parlare. Diverse informazioni che raccogli su internet o altrove le puoi mettere in bocca al tassista, che viene rappresentato cosi’ molto più informato di com’è nella realtà. Come successe a me in un reportage su Scampia. Ma queste sono lievi licenze che colui che racconta può prendersi e anzi deve prendersi, l’importante e’ che il risultato vi sembri ‘vero’, vero nel senso di moralmente autentico e veritiero nel senso che non fingi, non menti e stringi un patto con il lettore.

– C’è qualche altro segreto nell’arte di scrivere i reportage?

– Un altro segreto per scrivere un buon reportage e’ ricordarsi che non si sta facendo letteratura, ma si sta rendendo un servizio al lettore di un giornale. In realtà poi si fa comunque letteratura, ma e’ una letteratura tutta virata al ‘vero’, usando soltanto un minimo di immaginazione per far tornare i conti. Quindi e’ bene non annoiare, tenere desta l’attenzione di chi legge con molte informazioni e una scrittura semplice, piana, ‘giornalistica’, avara di aggettivi, disadorna (ma non sciatta), priva di tentazioni sperimentali o letterarie perché deve essere accessibile virtualmente e democraticamente a tutti (anche ai meno istruiti). Nei reportage, per fare un esempio estremo, di Arbasino, un lettore di media cultura riesce a decrittare si’ e no un 40 per cento delle sue citazioni. Nei miei reportage io ambisco invece a rendere la mia prosa il più ‘semplice’ possibile. Come sa bene Raffaele La Capria la semplicità è una conquista difficile che nasconde molto lavoro. Il reportage e’ tutto nell’equilibrio fra giornalismo e letteratura. Non devono mai prevalere l’uno sull’altra ma sapientemente bilanciarsi. Quando il racconto piega troppo verso la letteratura, di solito delude il lettore del giornale. E’ importantissimo mettersi dalla parte del lettore. Quando uno scrittore scrive un racconto o un romanzo, paradossalmente può anche fregarsene di chi legge, ma quando scrivi un reportage no, non puoi permetterlo. In un reportage che riguardava il quartiere di Decima (presente anche in Da Roma a Roma) il caporedattore del giornale si era arrabbiato perché avevo speso 20 righe del pezzo a raccontare come mi ero perso sul raccordo. ‘Se tu ti perdi per strada e ci metti due ore ad arrivare che vuoi che gliene fotta al lettore? Il lettore tipo del giornale ti legge fra una fermata e l’altra sull’autobus o in una pausa del lavoro o magari al bagno mentre fa un bisogno. Gli devi dire tutto e subito, altrimenti ti molla.’ Questa e’ un’obiezione che chi scrive reportage si sente ripetere spesso. E dunque bisogna starci attenti. Il lettore va preso all’amo e trascinato fino alla fine del pezzo, a questa legge non puoi derogare. Il caporedattore mi aveva trattato forse troppo rudemente quella volta, ma dal suo punto di vista aveva ragione. Anche se da un punto di vista strettamente letterario, erano proprio quelle prime righe le migliori del reportage. E infatti in questo libro le ho conservate. Diciamo allora che il capocronista faceva il suo mestiere… In un libro uno si può permettere un di più di libertà rispetto a un articolo per giornale, si può pretendere dal lettore un pizzico in più di attenzione e di concentrazione.

– Il solito dilemma: il reportage va scritto in prima o in terza persona?

– È meglio scriverlo in prima persona, il reportage, per questo genere narrativo è la più diffusa e permette un’immediata identificazione del lettore. Ma se a uno riesce meglio la forma impersonale – o qualunque altra forma – va bene lo stesso. L’importante è come dicevo ‘acchiappare’ il lettore e non mollarlo finché il pezzo non è finito riversandogli un buon numero di informazioni, più o meno verificabili. Utili anche le statistiche, anche se l’abbondanza di cifre e tabelle personalmente mi angustia. In questo mio libro Da Roma a Roma di statistiche non ce ne sono quasi e di numeri pochi. L’ambizione è far conoscere alcuni quartieri della sconfinata periferia che fascia la metropoli romana senza annoiare il lettore, anzi in qualche caso divertendolo, facendolo partecipare alle tue scoperte e rivelazioni. Il reportage deve essere teso e avvincente come un racconto, ma rispetto al racconto deve fornire più informazioni.

– In Da Roma a Roma c’è in grande evidenza la periferia…

– Io ho raccontato nel mio libro anche di paesi che stanno lontano 50 Km da Roma, perché ormai i confini della periferia si sono estesi, non sono più quelli degli anni Cinquanta che raccontava Pasolini nei suoi romanzi romani e in ‘Accattone’. La via Tiberina per esempio non ha periferia, quando la imbocchi finisci subito in aperta campagna. Le ‘periferie’ della Tiberina sono in un certo senso i paesi di Calcata, Montebuono, Vescovio eccetera – che hanno acquisito molti aspetti della romanità periferica – che descrivo in alcuni di questi reportage dove si svolgono delle rappresentazioni teatrali di strada. Oggi i confini di Roma non si sono solo allargati, c’è stata una capillare omologazione che ha plasmato i linguaggi e i caratteri. Oggi non c’è più quella abissale distanza fra centro e periferia che c’era all’epoca di Pasolini. Oggi anche il dialetto si è semplificato (appiattito) omologandosi al linguaggio televisivo.

– A quale reportage inserito nel libro sei più legato?

– Uno dei reportage del libro che credo mi sia riuscito meglio è quello dell’unità di strada a Ostia, e l’ho inserito, un po’ modificato, nel libro. I redattori di ‘Diario’, la rivista dove lo pubblicai, lo titolarono benissimo: ‘Gli angeli delle siringhe’ e quel titolo l’ho confermato nel libro. Lo feci una decina di anni fa – quel reportage sui tossici di Ostia – insieme con un giornalista mio amico. Ricordo che era perfettamente a suo agio, il mio amico, del tutto presente a se stesso al contrario di me che invece avevo un po’ paura. I contatti con l’unità di strada di Ostia li aveva presi il mio amico, che faceva le notti da un po’ in un ricovero di tossici. Aveva organizzato ogni cosa anche per me. Era magnifico trovarsi la pappa pronta, e poi lavorare con un amico, naturalmente, ma non stavo bene e certi dettagli di Amore Tossico e di Cristiana F. e di Tondelli e chissà che altro del genere, ricordo che mi mulinavano sgradevolmente nella testa… Alla fine l’incontro fu abbastanza sconvolgente… Ma non voglio togliere ai lettori la sorpresa di leggerlo…

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