– La LEGGE del branco è terribile. Annulla l’individuo e lo trasforma in ombra, in maschera. Tutti a testa china – atrocemente nemici di se stessi – sulle orme del capobranco. Colui che sa fingere meglio degli altri una determinazione inesistente, l’unico capace di ribaltare interrogativi, inquietudini e umane paure in disumani atti gratuiti. Anzi, tanto più compiuti quanto più riescono ad essere gratuiti; come la vita di chi li compie, sperperata all’insegna di un conformismo che fa paura.
– Leggendo ora IL BRANCO di Andrea Carraro – ora che Marco Risi ne ha ricavato un film molto discusso al festival del cinema di Venezia – i nostri sensi sono più attenti a ogni piccola connotazione ideologica del romanzo. Sarà proprio vero, come ha dichiarato più volte Marco Risi parlando del suo film, che rappresentando il vuoto e la confusione di quei giovani balordi di periferia si ottiene anche l’effetto di avviare una ricerca di pietas nei loro confronti? Non sarà pericolosa una posizione del genere, che relega in secondo piano le vittime di quell’atroce rito di gruppo nel quale si esaurisce lo stupro al centro della vicenda?
– Un romanzo, aspro fino ai limiti del fastidio, capace di graffiare l’anima anche grazie ad un impasto dialettale sgradevole come le scelte di chi lo parla. Non si fa fatica a capire le ragioni per le quali molti editori hanno rifiutato il libro di questo trentacinquenne romano (ora pubblicato da Theoria, dopo un inconsueto e preveggente lancio sulla rivista Nuovi Argomenti con il titolo LA BARACCA) già alle prese nel suo primo romanzo, A DENTI STRETTI (Gremese), con una storia di violenza su un adolescente, costretto a masturbarsi assieme agli amici più grandi. Anche qui un branco e una legge da rispettare. Costi quel che costi. Anche ripudiare la parte buona che è in te, come accade al Raniero de IL BRANCO. Incapace di consumare lo stupro, debole difensore di una fra le due giovani tedesche rapite, violentata e poi venduta alle voglie di decine e decine di altri uomini. Fino all’epilogo, al dramma sigillato da un colpo di martello che uccide una delle due ragazze, mentre l’altra fugge disperata verso la salvezza. Andrea Carraro, rientrato da Venezia, ha subito rivestito i panni di scrittore part-time dopo le ore dell’impiego in banca.
– ‘A Venezia ho avuto una reazione istintiva in difesa del film – racconta – non tanto perché ero co-sceneggiatore ma proprio perché ritengo sia un buon film. Ho la sensazione che in certi giudizi di critici cinematografici ci sia una buona dose d’ipocrisia, la voglia di rimuovere un problema scandaloso, soprattutto per gli uomini’.
– Ma non è pericoloso il discorso che fa Risi invitandoci a comprendere quei giovani, a provare pietà per loro?
– ‘Direi di no. Mi sento di sposarlo in pieno. Dal punto di vista penale ovviamente i protagonisti sono senza dubbio colpevoli. Ma affermare solo che sono colpevoli è troppo facile. Sarebbe un po’ come rimuovere il problema, sgravarsi la coscienza. Come dire: loro sono colpevoli e io che assisto al film o leggo il libro sono innocente. Invece non è cosi’. E la sera di gala a Venezia ho capito che il messaggio era arrivato al pubblico, rimasto in silenzio per l’intera durata del film, come raggelato. All’uscita i maschi non sorridevano e non erano nemmeno indignati: erano sconvolti’.
– Lei sembra entusiasta del film. Non si è sentito tradito proprio in nulla?
– ‘L’idea che siamo tutti un po’ colpevoli Marco Risi è riuscito a rappresentarla ed era la cosa alla quale tenevo di più. Certo il linguaggio del cinema e i suoi mezzi sono diversi rispetto a quelli del narratore. L’approfondimento psicologico del protagonista nel film è molto sfumato, sono aumentati i tratti iperrealistici, quasi horror, ma questo è inevitabile in un’opera cinematografica. Le ho detto e le ripeto che il film mi è piaciuto’.
– La dinamica del branco quanto e perché è centrale nel suo libro?
– ‘A me interessava l’aspetto morale della violenza e quindi la presenza di un gruppo, con le sue ritualità, le regole di comportamento che lo governano, l’atmosfera di complicità e di sospetto, la necessità che tutti hanno di rispecchiarsi nella volontà di un capo. E ancora la capacità e la volontà di contagio alla quale soggiacciono tutti i componenti del branco. Questi elementi, trasferiti ovviamente in una chiave estrema e simbolica, sono tutti caratteristici del conformismo sociale, che è uno dei miei bersagli’.
– Ma il suo atto d’accusa è ancora più diretto, nei confronti del maschio e dei suoi problemi di rapporto con l’altro sesso…
– ‘Certo. Ma le due cose non sono scollegate. L’aspetto conformistico di questa violenza si traduce in un atteggiamento di disprezzo nei confronti del femminile che si manifesta in mille modi. Gli stupratori rappresentano l’ultimo anello di una catena. Alle loro spalle c’è una cultura altamente maschilista che sostiene e alimenta i loro gesti criminali. Che immagina la sessualità come esercizio di potere e di pura sopraffazione’.
– I giovani stupratori usano un dialetto romano imbastardito da influssi laziali. Una lingua sgradevole, forse quanto e più di loro.
– ‘Ho studiato in maniera approfondita il dialetto e il gergo parlato dai miei personaggi, andando sul posto, alla maniera di Zola. Solo che lui portava il taccuino e io, più modernamente, il registratore. Sentivo che bisognava trattare il tema in maniera radicale ma al tempo stesso non volevo raccontare direttamente lo stupro (l’ho fatto solo in un caso) sulle pagine. La violenza che volevo – che dovevo – esprimere andava perciò rappresentata in un altro modo. Con un dialetto crudo e sgradevole, che è poi quello che parlano realmente oggi i giovani nelle borgate e nei dintorni di Roma. Un linguaggio che a volte sa violentare più di certi gesti.’
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