Gianluca Barbera dialoga con Andrea Carraro

Filippo La Porta lo considera uno dei migliori scrittori italiani di racconti. Andrea Carraro sembrerebbe un naturalista ma non lo è. È molto di più. Scrive in modo istintivo, lo capisce subito. Il suo è un talento naturale, disciplinato col tempo e il duro lavoro. Ma la sua arte non si esaurisce nella forma del racconto. Ha scritto anche romanzi importanti, come “Il branco” (1993), suo primo successo (portato sul grande schermo da Marco Risi), e “Sacrificio”, uscito a settembre 2017 per Castelvecchi. Era da tempo che desideravo metterlo sotto torchio.

Caro Andrea, “Sacrificio” è un gran bel romanzo, lasciamelo dire. Con un forte simbolismo. E la consueta naturalezza nello scrivere, nel rendere i personaggi. Se non sbaglio è nato come racconto. Puoi parlarcene? Come ha preso forma l’idea e come l’hai sviluppata?

Intanto grazie per il complimento. “Sacrificio” è venuto fuori, proprio in origine, nel corso di una serie di incontri con un amico regista – Marco Speroni – per un film ipotetico che poi non si fece. Ricordo che stavamo al caffè del Palazzo delle Esposizioni, che quasi confinava con la mia banca, la banca dove lavoravo, voglio dire. Mi bastava – per passare dall’uno all’altro edificio – solo lo spazio di una doppia scalinata (quella che scavalca il traforo). E insomma l’idea spuntò durante uno di quei fertili incontri, che avvenivano dopo una lunga giornata di lavoro e ne portavano dietro qualcosa, un senso di insoddisfazione, un tormento, una macerazione, un desiderio confuso e un po’ rabbioso di riscatto. L’idea fu mia e il mio amico mi guardò strano, forse un po’ come si guarda uno uscito temporaneamente di testa. Ne venne comunque fuori un soggettino che nessun produttore prese mai in considerazione. Quel soggetto rimase nel cassetto per un bel po’. Alcuni anni dopo, da quel soggetto tirai fuori un racconto lungo, che sembrava quasi una parabola evangelica (ci si “credeva” più poeticamente che realisticamente), che uscì a puntate sulla rivista Succedeoggi di Nicola Fano alla quale collaboro. Infine, da quel racconto, per passaggi successivi, quasi per un’esigenza interna del testo, sono arrivato al romanzo, al quale ho lavorato per cinque anni assieme alla revisione dei racconti che è uscita per la Melville quasi in contemporanea, come tu ben sai.

Già. Il protagonista ha una figlia, Carolina, che si droga. Per starle accanto, per cercare di comprenderla e farsi carico fino in fondo della sua sofferenza decide di iniziare a drogarsi pure lui, con tutto ciò che comporta (avere a che fare con spacciatori, crisi di astinenza ecc.). E lo fa insieme a lei, sprofondando in un inferno senza uscita, fino a immolarsi. Tu saresti capace di compiere una scelta come quella di Giorgio?

Non lo so, per fortuna non mi sono mai trovato in una situazione simile. La mia situazione personale è molto diversa da quella di Giorgio: non ho figli tossicomani grazie a Dio e non mi sono mai bucato in vita mia. Lo scrittore ha questa facoltà di inventare, sulla basa di una seria documentazione e di un’umana condivisione, di immaginare qualcosa che non esiste, ma che potrebbe esistere. È la sua immaginazione che ci interessa, non la sua esperienza reale, che è quasi sempre difettosa o prosaica o mediocre. L’importante è crederci sulla pagina, è questo che mi interessa.

Il sacrificio estremo del padre per la figlia sembra rievocare quello di Gesù. Puoi approfondire? Eppure tu non sei credente o sbaglio?

Non so se sono o non sono credente. Potrei ironicamente dire che lo sono a giorni alterni. Però la fede, la religione mi interessano molto e fanno parte della mia vicenda di narratore e della mia formazione. Sono anche andato in una scuola di preti. Alla base di questa storia c’è l’idea cristologica del sacrificio, biblica per eccellenza, pensiamo anche, oltre a Gesù, alla storia di Abramo. Il sacrificio è quasi un archetipo nella cultura occidentale (come ha scritto Restuccia in una recensione). Il mio eroe sacrifica se stesso per salvare la figlia Carolina. Il diavolo gli facilita il compito, gli offre un’opportunità di scambio – mentre il Dio e la Madonna a cui l’uomo si rivolge pregando con fervore sembrano non sentirlo. I preti dal canto loro – e ce ne sono ben tre, che segnano il cammino del protagonista come tappe successive di un percorso mistico – con cui si trova a dialogare, lo deludono con la loro retorica e i loro messaggi prefabbricati e dogmatici. Il paradosso è che il passaggio da racconto lungo a romanzo è avvenuto per una necessità di concretezza, di realismo, e invece poi la narrazione è sfociata nel fantastico-demoniaco, nel visionario. Succede.

Come riesci a creare personaggi così reali? Come ottieni questa immedesimazione? Come lavora la tua immaginazione?

Lavora in modi strani e imprevisti. Viene spesso da un’ossessione morale. Se qualcosa mi ossessiona, prima o poi diventa scrittura narrativa. Un po’ grossolanamente direi che se è una piccola ossessione sfocia in racconto, se è un’ossessione grossa, duratura, prende la forma del romanzo. Anche se può capitare che un’ossessione piccola diventi grossa, e da racconto si passi a romanzo in modo spontaneo e quasi inavvertito. Mi è successo con “Il branco”, che ripubblicherà la Elliot (uscirà fra poco, prima dell’estate) e anche con “Sacrificio”…

Quando scrivi sei freddo e calcolatore, razionale e controllato, oppure ti abbandoni, ti lasci trasportare?

Entrambe le cose. Mi lascio spesso andare, ma poi correggo con scrupolo maniacale l’indomani.

Credi nell’ispirazione e che cosa è?

La mia ispirazione è capricciosa, viene quando vuole, assume forme diverse. L’ispirazione come idea rimanda a immagini romantiche, di rapimento e estasi creativa. Beh, nel mio caso quel tipo di ispirazione non è frequente. Mi è successo con “Il branco”, che scrissi tutto in tre mesi, in preda a una specie di febbre creativa (lo racconto in un poemetto), ma di solito contano anche l’applicazione quotidiana, il metodo.

Che progetti letterari hai in cantiere? A cosa stai lavorando?

Nessuno, dopo la revisione dei racconti e dopo “Sacrificio” mi sento come svuotato. Ma non è la prima volta che mi succede, dopo aver scritto dei libri che mi hanno impegnato molto, anche emotivamente. Mi successe dopo “Non c’è più tempo”. Sto aspettando una qualche ispirazione.

Tu sei tra i migliori scrittori di racconti in Italia. Perché questa misura ti è così congeniale? Cosa serve per scrivere un buon racconto? Quali ingredienti? Servono attitudini diverse rispetto a quelle necessarie per scrivere un romanzo?

Sì, il racconto è più vicino alla poesia, è qualcosa che brucia in fretta, non ti concede pause, vive molto sul non detto, sulle ellissi, sul lavoro di taglio, in ogni senso, nella caratterizzazione del personaggio, nella descrizione di luoghi e ambienti, ecc. Il romanzo permette l’approfondimento psicologico, l’elaborazione, certosina e paziente, di un intreccio, la digressione. Sì, sono forme letterarie diverse che richiedono attitudini diverse. Per analogia si può pensare alla corsa: c’è il velocista e c’è il maratoneta; entrambi si dedicano alla corsa, ma al velocista serve scatto, potenza, mentre al maratoneta capacità di resistenza e di tenuta. Il romanziere è tipicamente un solitario, che trascorre molte ore a scrivere, a ragionare con se stesso e coi suoi personaggi. Io leggo molta narrativa breve, tengo sempre qualche volume di racconti sulla scrivania, perché mi piace, ma anche per tenermi allenato, per così dire.

Quali sono i migliori scrittori di racconti di tutti i tempi?

Dico i miei preferiti. Quelli che maggiormente hanno inciso sulla mia scrittura: Maupassant, Cechov, Conrad, Hemingway, Cheever, Carver, Alice Munro, Jack London, Maugham, Hawthorne, Kafka, Tolstoi… Ma anche noi abbiamo un’eccellente tradizione nella misura breve, da Boccaccio fino a Pirandello, e poi Moravia, Tabucchi fino ai contemporanei: Antonio Debenedetti, Claudio Piersanti e Giulio Mozzi. Anzi, noi per tradizione siamo molto più portati alla misura breve che al romanzo. Peccato che gli editori la promuovano poco, la guardino con diffidenza per ragioni di mercato e per esigenze di star-system.

I tuoi cinque libri capitali?

Tutti novecenteschi: “Lo straniero” di Camus, la “Recherche” di Proust, “Morte a credito” di Céline, “Chiamalo sonno” di Henry Roth, “La montagna incantata” di Thomas Mann.

Qual è la tua migliore dote in quanto scrittore? E cosa ti manca e vorresti avere?

Forse la capacità di sintesi e di creare miti. Mi manca una cultura sistematica. Sono un autodidatta. All’università, che non ho finito, studiavo ingegneria. Ho letto molto, ma in modo disordinato, idiosincratico, caotico, con molte lacune.

Qual è la tua idea di letteratura? Cosa deve darci la letteratura di specifico rispetto ad altre forme d’arte, per esempio il cinema?

Per me cinema e letteratura vanno nella stessa direzione, impossibile pensare oggi di prescindere l’uno dall’altra. L’uno si alimenta dall’altra in modo osmotico. Almeno nella mia testa funziona così. Certo, poi ciascuna forma d’arte ha un proprio codice, un proprio linguaggio, ma gli sconfinamenti sono continui. E non alludo al fatto che si possa avere una scrittura più o meno “cinematografica” nel senso di cronachistica-mimetica. No, parlo proprio dell’arte cinematografica in senso assoluto.

Hai esordito con un romanzo che ha fatto scalpore, “Il branco”, e che conobbe un inconsueto percorso editoriale, coronato da una trasposizione cinematografica. Cosa ricordi di quell’esperienza?

Per me fu un anno importante, decisivo anzi. Avvenne tutto molto in fretta come spesso succede in questi casi. Il mio romanzo nessuno voleva pubblicarlo, lo pubblicò per intero Siciliano su “Nuovi argomenti” in aperta polemica verso l’editoria italiana che lo aveva a suo dire ingiustamente e ipocritamente rifiutato. Fu un bel colpo. Se ne parlò parecchio, lo lesse sulla rivista Marco Risi che se ne innamorò e volle farci un film che poi passò anche in concorso alla mostra del cinema di Venezia. Fece scalpore per il punto di vista tutto maschile della violenza sessuale, per quel concentrarsi piuttosto sui carnefici che sulle vittime. Fu una lettura (e una visione) ardua, dolorosa, per le donne. (Alcune femministe si risentirono). E anche per gli uomini non fu facile, perché venivano messi pesantemente in discussione come maschi. A me piace molto la letteratura che mette in discussione il lettore moralmente, mi piacciono i lettori attivi, per così dire.

Quale reputi la tua opera migliore?

Forse “Il branco” e “Sacrificio” sono i migliori, per la loro qualità mitopoietica. Ma l’autore di solito è il peggior giudice di se stesso.

E un tuo romanzo o racconto che vorresti cancellare?

No, nessuno. Li sento tutti come mie creature. Forse se potessi tornare indietro non pubblicherei più “Botte agli amici”, e non farei il critico sui giornali, ma questo è un altro discorso.

Che mestiere è nel nostro Paese quello dello scrittore? Luci e ombre…

Ci sono scrittori e scrittori. C’è chi vive sotto i riflettori, per esempio, e chi se ne sta per i fatti suoi… Già questo è un bel discrimine. Io appartengo alla seconda categoria, non per motivi etici, semplicemente mi riesce più naturale, è più congruente con la mia indole appartata, solitaria. Mi esprimo attraverso i libri, gli articoli sui giornali o sul web, e attraverso la mia presenza quotidiana su facebook spesso improntata all’ironia e alla provocazione.

Qual è la persona più intelligente o sorprendente che hai conosciuto?

Ce ne sono tante e non solo nel campo della scrittura… Di solito mi interessano di più le persone autenticamente umili. Attenzione, non modeste (la modestia è una virtù borghese che detesto), ma umili che è tutt’altra cosa.

Del tuo lavoro in banca cosa ti è rimasto? Diversi ricordi sono confluiti nei tuoi scritti. Puoi parlarcene?

Mi sono rimasti due o tre libri anzitutto: “Il sorcio”, “Non c’è più tempo”, La ragione del più forte, che sono ambientati in parte in una banca. Mi è rimasta la fatica quotidiana, l’alienazione, la violenza di certi rapporti (vedi “Il sorcio”, romanzo che parla di mobbing). Mi è rimasta la sensazione di una prigione del cuore e della mente.

Un’ultima domanda. Tra gli scrittori attuali secondo te chi resterà? E tu come scrittore come vorresti essere ricordato?

Non so chi resterà e non so nemmeno se io resterò. Non so niente di niente sul futuro. Mi piacerebbe essere ricordato come uno scrittore onesto.

Grazie per la chiacchierata. Quanto al dilemma se sarai ricordato o meno, ho tirato la monetina: è venuto testa, dunque sì. Il mio eurino portafortuna non sbaglia mai. Alla prossima.

Aggiungi commento