Carraro, il bancario che ha smentito i critici letterari

Andare controcorrente è da sempre una delle inclinazioni più seguite o inseguite dagli scrittori. Vuoi per meglio emergere. Vuoi per la voglia di stupire. Sempre per la volontà di distinguersi. I migliori, però, sono quelli che non hanno bisogno di ‘crearsi’ una simile posizione. La vivono naturalmente. Ed infatti le loro opere rivelano umanità e immediatezza davvero rare. Andrea Carraro è un giovane scrittore romano e va inserito di diritto in questa seconda categoria. I più lo conoscono soprattutto per due tappe della sua ‘carriera intellettuale’ dove ha mostrato un modo autentico e coraggioso di andare controcorrente. La prima è rappresentata dalla pubblicazione del libro IL BRANCO (Theoria, 1994), un testo che ha suscitato un animato dibattito, amplificato anche dal film che ne ha tratto Marco Risi. L’altra è la stroncatura di Alessandro Baricco. Una delle poche che lo scrittore torinese (ormai arrivato all’empireo abitato dai creatori di best-seller) ha ricevuto nella sua carriera. Andrea Carraro, classe 1959, vive nel cuore di Talenti e divide le sue giornate tra il lavoro in un istituto di credito, la scrittura e la famiglia.

– ‘Sono tre anni che abito a Talenti – racconta l’autore. È un quartiere abbastanza anonimo a parte ‘Lo zio d’America’. E’ un ristorante molto conosciuto anche perché è sempre aperto. Io ci vado spesso specialmente quando rimango solo’.

– Qual è la caratteristica di questo quartiere?

– ‘Se questo quartiere ha un’anima io non la conosco. Però è una caratteristica di tutte le zone di questa città di uniformarsi nel tempo e perdere identità”.

– Dove è cresciuto?

– ‘Sono cresciuto a viale Eritrea. Andavo a scuola al San Leone Magno dove ho studiato fino al secondo liceo. Poi sono andato via perché mio padre era restio a farmi stare in un posto dove le persone appartenevano ad un livello sociale più alto del mio. Mi dispiacque molto. Li’ avevo tutti i miei amici. Finii all’Archimede. Il ricordo più vivido che ho della mia strada di infanzia era proprio il mercato all’aperto di viale Eritrea. Stava proprio in mezzo alla strada, dove ora ci sono parcheggiate le macchine. Noi abitavamo all’ultimo piano di un palazzo popolare. I miei (entrambi impiegati) erano molto orgogliosi di questa casa (di proprietà dell’Inail). Ci piaceva pensare che abitavamo in un attico, anche se in realtà si trattava soltanto dell’ultimo piano di un palazzo popolare’.

– Anche il quartiere Africano ha perso identità in questi anni?

– ‘Molte cose sono cambiate. Le botteghe sono scomparse. Niente più merciai, vinai, calzolai. I negozi non resistono più. Anche i panettieri devono chiudere. E pensare che ancora oggi è uno dei quartieri più forti dal punto di vista del commercio. Oggi hanno modificato la viabilità e le cose sono migliorate, ma è sempre un quartiere caratterizzato da un traffico eccessivo’.

– Lavora in banca e scrive romanzi per grandi editori? Una situazione insolita.

– ‘Il mio primo impiego era in una società di computer che aveva sede a Pomezia. Uno strazio. Doversi alzare tutte le mattine alle cinque per un lavoro che sentivo fin troppo lontano dalle mie inclinazioni. Per fortuna ora sto in un istituto che ha sede a Roma’.

– Ha mai pensato di dedicarsi esclusivamente al lavoro di scrittore?

– ‘Non ci sono ancora le basi per una scelta così drastica. Però è la mia ambizione. Anche se sono pochi quelli che ci riescono. La maggior parte si adatta a fare lavori affini: giornalismo, produzione televisiva, collaborazioni con case editrici. Prima ancora di fare il militare ho tentato anch’io la carriera giornalistica. Il mio primo impegno è stato in una rivista che si chiamava ‘Fiera’. A dirigerla era un giornalista del Tg1, Claudio Angelini. Il mio compito era essenzialmente quello di fattorino. Insomma ho iniziato proprio dal gradino più basso’.

– Quando si dice la gavetta!

– ‘Già. Mi facevano scrivere ogni tanto qualcosa ma la mia occupazione principale era quella di fattorino. Altro mio tentativo è stato quello di lavorare al ‘Messaggero’. All’epoca avevano le pagine dedicate ai quartieri e io, ogni tanto, scrivevo qualcosa sul Salario. Roba tipo le fogne che saltano, i semafori impazziti. Vita di quartiere, quindi’.

– Gli esordi da scrittore?

– ‘Ho iniziato a scrivere e a leggere molto tardi. Quando gli studi per diventare ingegnere si arenarono, mi sono trovato a cercare rifugio nei romanzi. Ho iniziato così a scrivere intorno ai vent’anni. Le prime cose erano poesie brutte. L’esordio è arrivato proprio con ‘Fiera’. Lì pubblicai le mie prime cose. Ed è stato proprio nella redazione della rivista di Angelini, che si trovava a Vigna Clara, che ho iniziato a scrivere ‘Il Branco’. Dopo il servizio militare ho iniziato a lavorare seriamente. Mi sono sposato. Ed è stato solo allora che mi sono convinto dell’importanza della scrittura. Trovavo il mio lavoro molto alienante e la scrittura rappresentava un giusto contrappeso’.

– Scriveva per se stesso o già convinto di volersi far leggere?

– ‘Il primo libro in realtà lo scrissi più che altro per vuotare il sacco. Uno sfogo personale. Si intitolava ‘A denti stretti’. Lo pubblicò Gremese nel 1990. E’ stato Enzo Siciliano a sceglierlo, in qualità di curatore della collana. Avevo mandato il libro a molte persone che si occupavano di editoria: scrittori, giornalisti ed editori. L’indirizzario me l’ero fatto ai tempi della ‘Fiera’ dove svolgendo appunto il compito di fattorino mi occupavo proprio della spedizione e consegna dei plichi. Pochi mesi dopo ricevetti la telefonata di Siciliano. E sempre Siciliano mi ha invitato a collaborare a ‘Nuovi Argomenti”.

– Il più abusato dei cliché. Lo sconosciuto scrittore che manda un dattiloscritto al grande critico. E che poi riceve la sua telefonata che gli annuncia la pubblicazione del libro.

– ‘La prima cosa che lo colpi’ era la stampa del dattiloscritto. All’epoca giravano ancora pochi computer. Lavorando a Pomezia per una ditta informatica, avevo il vantaggio di poter lavorare su un pc e quindi di offrire una stampa corretta e pulita del testo. Oltre che dal racconto, che gli piacque molto, Siciliano rimase colpito proprio dall’anomalia della mia condizione. Dal fatto, cioè, che lavoravo in una società di computer. Che venivo, insomma, da un mondo affatto diverso da quello da dove solitamente proviene e si forma uno scrittore’.

– Ed e’ stato sempre Siciliano a scoprire ‘Il branco’. Un libro che ha una storia particolare.

– ‘Il film di Risi come grancassa ha avuto un ruolo positivo’.

– Le e’ piaciuto il film?

– ‘Tutti hanno criticato il fatto che si sia scelto il punto di vista del carnefice per raccontare la storia di uno stupro collettivo’.

– Una scelta davvero coraggiosa.

– ‘Storicamente le femministe hanno sempre scelto il punto di vista delle vittime. E questo e’ diventato un cliché così rigido che anche oggi i critici fanno fatica ad accettare qualsiasi cosa esca da questo binario’.

– Non ha mai pensato di dedicarsi al cinema?

– ‘Allora si’. Ho iniziato a scrivere sceneggiature. Solo che non erano adatte a ciò che chiedeva il mercato. E poi credo che non sia un lavoro che si adatta a me. Visto che le sceneggiature sono troppo condizionate dai produttori ed e’ un lavoro di gruppo. Preferisco il lavoro solitario e dedicarmi ai miei temi senza condizionamenti’.

– A proposito di condizionamenti, frequenta l’ambiente letterario?

– ‘Assolutamente no. Nessun salotto e nessun gruppo’.

– Non cerca il confronto con gli altri autori?

– ‘Il confronto lo cerco sempre con una persona alla volta. Non mi piace il salotto. Tra i pochi scrittori di cui sono diventato amico mi piace ricordare Sandro Onori che purtroppo è mancato un paio di anni fa. Ci siamo conosciuti dopo che io recensii su ‘Nuovi Argomenti’ un suo testo. Abbiamo anche lavorato insieme per riviste e giornali’.

– Il suo lavoro di bancario è entrato spesso nei suoi romanzi. Esistono degli ambienti di cui vorrebbe ora occuparsi?

– ‘Altroché. Il guaio grosso delle nostre lettere è da sempre legato all’estrazione sociale e culturale degli autori. Sono per la maggior parte intellettuali a tempo pieno, giornalisti o professori. Persone, insomma, che poco conoscono il mondo del lavoro dipendente. Invece questa è una fonte importante. Per conoscere la nostra società non ci si può improvvisare romanziere continuando sempre a parlare di se stessi e del proprio orticello. Anch’io, che comunque mi sono occupato del sottoproletariato urbano in libri come ‘Il branco’ e Nell’erba cattiva, sento che bisogna muoversi e documentarsi. Se uno campiona la nostra letteratura si accorge che esistono pochi mestieri. Nei libri incontriamo sempre artisti, scrittori, giornalisti e professori. Del ceto medio produttivo, quello che secondo me è più interessante e più ricco, la nostra narrativa se ne occupa poco’.

– Ci sono, in questo senso, esempi di scrittori virtuosi?

– ‘C’è qualcuno che si documenta in maniera efficace. Mi viene in mente uno come Claudio Piersanti. In ‘Luisa e il silenzio’ (Feltrinelli) ha rappresentato un’impiegata con tutta una serie di riferimenti molto reali. Oppure Angelo Ferracuti e Sandro Veronesi’.

– E di Roma, invece, cosa le piacerebbe raccontare?

– ‘Soprattutto la periferia. Perché è difficile raccontare il centro con un occhio nuovo. Mi interessa di più l’incompleto, il ‘non luogo’. Mi affascinano posti come le stazioni di servizio e i supermercati perché sono luoghi senza memoria e senza passato. Se ambienti un racconto in un supermercato, finisci per fare una storia potenzialmente universale, visto che ormai tutti sanno cos’e’ un supermercato e visto poi che sono più o meno tutti identici’.

– Cos’è che la spinge a indagare la vita di un quartiere piuttosto che un altro?

– ‘La desolazione è una delle cose che mi attira. Il fatto che quando vado a scrivere un reportage su un quartiere non c’e’ alcuna bibliografia. Mi piace studiare un luogo di cui nessuno ha ancora parlato. Mi piace proiettare uno sguardo vergine’

– Un posto che l’ha incuriosito più di altri?

– ‘Direi Centocelle, del quale si parla molto in ‘Non c’è più tempo’. Mi ha sorpreso soprattutto la chiesa di San Vincenzo, circondata da lampioncini condominiali. E’ un luogo davvero particolare. Ogni domenica in questa chiesa si celebrano battesimi in massa. Un rumore assordante. Le urla dei bimbi sul sagrato si mescolano alle chiacchiere dei parenti sulla Roma e sulla Lazio. E’ stato Sandro Onofri a instillarmi questa passione sociologica verso le periferie urbane’.

– Onofri è morto prematuramente nel ’99. Che ricordo ne conserva?

– ‘Sandro era una persona generosa e semplice. Era anche molto lacerato perché anche lui come me non sopportava la mondanità letteraria. Quando già stava male mi confidò che il suo sogno era quello di pubblicare da se’ i suoi lavori. Per se’ e per gli amici. Senza avere dietro una casa editrice’.

– A chi affida la prima lettura dei suoi romanzi?

– ‘A mia moglie che, tra l’altro, è la lettrice più severa. Prima erano proprio Onofri e Siciliano a leggere per primi i miei lavori e a darmi i consigli. Ora mi affido molto anche a Benedetta Centovalli (editor della Rizzoli, ndr) e a Filippo La Porta, con il quale sono entrato in confidenza. E con il quale condivido gli stessi gusti’.

– A proposito di gusti, cosa legge il Carraro lettore?

– ‘Sono uno scrittore sostanzialmente realista. Questo non significa che i miei gusti di lettore vanno in quella direzione. Gli autori che ho amato di più sono quelli che hanno due componenti: quello della pietas ed un certo cinismo dello sguardo. Penso a Celine, l’Hemingway di Festa mobile, Camus. Tra gli italiani mi viene in mente Fenoglio, anche se e’ sottovalutato’.

– Perché sottovalutato?

– ‘E’ stato sdoganato da poco. Prima su di lui pesava il giudizio negativo di Pasolini che in Descrizioni di descrizioni ne parla molto male e lo considerava falso. Pasolini non poteva capire Fenoglio perché è un classico esempio di antinarratività”.

– E pensare che lei viene definito uno scrittore ‘post-pasoliniano’.

– ‘Ciò’ è dovuto alle facili etichette delle stampa. L’unica cosa che ci univa è l’ambientazione e il dialetto che si trovano nel romanzo ‘Il Branco’. E poi, c’è da dire che quando ho scritto il libro ancora non conoscevo Pasolini. Mi ci sono accostato dopo che i giornali mi attribuivano l’etichetta di pasoliniano’.

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